Non capita spesso che un tour 100% black metal registri numerosi sold out, ma, a quanto pare, il vento sta cambiando: pare proprio che al momento il popolo metal abbia fame di sonorità più estreme e che l’underground stia poco a poco uscendo allo scoperto, convertendo sempre più ascoltatori al suo verbo. Inquisition, Archgoat e Ondskapt non sono esattamente Dimmu Borgir o Satyricon: la loro storia, il loro suono e la loro immagine sono inequivocabilmente legati al culto black metal più puro e integralista, eppure l’Underworld di Londra – così come diversi altri locali nel resto d’Europa – ha fatto registrare il sold out in un freddo giovedì sera di gennaio. Cassa chiusa e lunga coda di fan fuori dal club già un’ora prima dell’apertura delle porte per un colpo d’occhio decisamente raro per eventi di questo genere. Insomma, se si prendono serate come questa quale indice dello stato di salute della scena black metal, si può affermare senza esitazione che gli adoratori della nera fiamma possano dormire sonni tranquilli…
ONDSKAPT
Gli Ondskapt sono opener solo sulla carta, considerata la loro fama nella scena. Il gruppo è solito rilasciare album con estrema calma, ma sinora non ha mai sbagliato un colpo, rimanendo discretamente attivo anche sul fronte live. Rispetto ai connazionali Watain, i Nostri sono tutto sommato meno celebrati, ma un disco come “Arisen from the Ashes” parla chiaro: forse solo la scarsa spinta della Osmose Productions e il profilo basso tenuto dalla formazione ha impedito il raggiungimento di un successo più ampio. In ogni caso, questa sera la band appare giustamente sicura e a proprio agio: è come se gli svedesi stessero tenendo uno show davanti al loro pubblico, visto il calore con cui ogni brano viene accolto. Anche con una sola chitarra, gli Ondskapt riescono a riprodurre le atmosfere insalubri dei loro album senza perdere di impatto. I brani non sono particolarmente immediati, ma il frontman Acerbus, avvolto in un drappo e con croce rovesciata in bella mostra, riesce ad irretire anche i neofiti con la sua interpretazione calda ed istrionica. Le clean vocals a tratti risultano un po’ tronfie, ma indubbiamente si tratta di un elemento caratteristico per questa band, che spesso ama porsi fra la classica scuola svedese e il filone liturgico. Non si vede grande movimento in sala, tuttavia l’impressione è che l’audience stia semplicemente assaporando con attenzione le trame del quartetto; la musica “da pogo”, dopo tutto, è altra. Gli Ondskapt celebrano un rito che ottenebra la mente e va dritto al cuore.
ARCHGOAT
Le atmosfere prendono una piega più perversa e carnale con l’arrivo degli Archgoat, culto finlandese che ormai sta praticamente spopolando da quando “Whore of Bethlehem” ha decretato il suo ufficiale rientro sulle scene dopo un oblio durato più di un decennio. Lord Angelslayer, Ritual Butcherer e Sinisterror hanno un look ben più minaccioso di quello dei ragazzi degli Ondskapt e anche le loro pose sono ben più maligne; la musica, ovviamente, va di pari passo, recuperando una urgenza e una ruvidità di chiara marca black-thrash e proto-death. Tracce come “Grand Luciferian Theophany” e “Hammer Of Satan” hanno effettivamente il tiro di un gruppo che non va per il sottile e che punta a far male: i musicisti di rado compiono un passo lontano dalle loro posizioni di partenza, ma la folla si lascia sedurre ugualmente e nelle prime file si cominciano a vedere i primi spintoni. Del resto, la presenza scenica può anche passare in secondo piano davanti ad un suono così grasso e genuinamente malvagio: questa è la voce dell’underground e il pubblico, composto per buona parte da cultori del genere, tributa al terzetto il top delle ovazioni. Per essere una realtà che non suona live troppo spesso, gli Archgoat hanno dimostrato di essere estremamente solidi e vigorosi: certamente la loro proposta si presta bene ad essere suonata dal vivo, tuttavia in questo ambiente non è raro imbattersi in formazioni “tanto fumo e niente arrosto”; i finlandesi, invece, hanno soddisfatto in pieno le aspettative, elargendo cattiveria e sostanza in abbondanza.
INQUISITION
Davanti ad un pubblico già totalmente in estasi diabolica, gli Inquisition non devono fare altro che svolgere il più semplice dei compitini per chiudere la serata nel tripudio generale. Dagon e Incubus sembrano saperlo bene e si presentano on stage con il massimo della spavalderia, attaccando con la serrata “Force of the Floating Tomb”. Il suono è pieno e potente sin dalle prime battute, ma, in verità, ciò ormai non rappresenta più una sorpresa: abbiamo visto il duo dal vivo varie volte, anche se palchi di grandi dimensioni (vedi il Maryland Deathfest) e i colombiani hanno sempre dimostrato di riuscire a gestire al meglio l’esperienza live, facendo dimenticare l’assenza del basso o di una seconda chitarra. Dagon utilizza tre microfoni, spostandosi di continuo da un lato all’altro del palco, e solo con questo espediente riesce a risolvere la questione presenza scenica; nulla poi da appuntare anche sotto il profilo prettamente esecutivo: il suo rantolo è inconfondibile e immune a cali, mentre il lavoro di chitarra anche on stage è dimostrazione di grande ingegno e meticolosità. Da solo, il cantante/chitarrista regge completamente la scena, facendo persino dimenticare la comunque solida ed affidabile base ritmica di Incubus. Il suono ora epico, ora drammatico, ora distorto e tagliente degli Inquisition pare davvero in grado di mettere d’accordo tutti: c’è melodia, c’è aggressione, c’è ricercatezza… per molti il duo oggi rappresenta ciò che sono stati gli Immortal sino a una quindicina di anni fa, quando Abbath e Demonaz avevano ancora un approccio autorevole ed erano legati all’underground. “Desolate Funeral Chant”, forse il manifesto definitivo dello stile Inquisition, polverizza la temibile concorrezza delle support band e dichiara i sudamericani i veri vincitori della data. L’incantesimo è reale, l’esaltazione nella platea palpabile. Il frontman ringrazia per il supporto, facendo scemare per un attimo l’aura mistica che sin lì lo aveva avvolto, ma la cosa tutto sommato non dispiace; ci sta un pizzico di umanità dopo un’intera serata all’insegna di tenebre e abbandono.