A cura di Giacomo Slongo
Black metal dai quattro angoli del globo. Questo è il Bloodshed Rituals, tournée che vede riuniti sotto la stessa egida i pesi massimi Inquisition e Rotting Christ, entrambi reduci dalla pubblicazione di dischi largamente apprezzati dal pubblico e dalla critica, gli immarcescibili Mystifier, fieri esponenti dell’underground più truce e battagliero, e la sorpresa Schammasch, balzati agli onori della cronaca grazie all’ottimo “Triangle”, uscito su Prosthetic Records la scorsa primavera. Un bill imponentissimo che – complice la coincidenza del sabato sera per l’unico appuntamento italiano – ha richiamato presso il Circolo Colony di Brescia almeno quattrocento/cinquecento persone, numeri di tutto rispetto che hanno funto da splendida cornice alle performance sul palco e che, in ultima istanza, hanno lanciato segnali importanti sullo stato di salute di certo extreme metal…
SCHAMMASCH
Il compito di dare il la alla serata spetta al quartetto svizzero, chiamato a dimostrare le proprie doti live dopo un disco (il suddetto “Triangle”) annoverabile senza troppi indugi fra le uscite più significative degli ultimi anni, almeno in campo black/death. Christopher Ruf e compagni si presentano sul palco agghindati di tutto punto, con il frontman a spiccare per il suo peculiare face-painting total black e la sua tunica bianca dorata, e senza alcun tipo di preambolo attaccano con gli otto minuti di “Consensus”, episodio perfetto per calarsi nel mood onirico e liturgico della setlist. Impatto della musica e presenza scenica centrano fin da subito l’obiettivo, segno di un forte affiatamento tra i membri e di una cura per i dettagli come sempre maniacale, mentre a livello puramente esecutivo non possiamo fare a meno di notare alcune lievi sbavature, che comunque nulla tolgono all’incredibile eleganza della proposta. Il mix a base di Ascension, Dark Fortress e Secrets Of The Moon dei Nostri scuote nel profondo, sospinto da melodie ipnotiche e ritmiche mai banali, e poco importa se Ruf non si destreggia ancora perfettamente nel ruolo di cantante/chitarrista; il risultato finale è di assoluta sostanza, al punto che persino la frangia più oltranzista del pubblico (gente ricoperta di borchie, cartuccere e toppe degli Impaled Nazarene) sembra gradire non poco le emanazioni provenienti dal palco. Quel che si dice un ottimo incipit.
MYSTIFIER
Dal black metal emotivo e spirituale degli Schammasch alla rozzissima proposta dei Mystifier il passo non è certo breve, ma lungi da noi lamentarci o criticare l’attitudine ‘no compromise’ del terzetto carioca. Beelzeebubth, Diego Araújo e Jhoni Apollyon sono un esempio di caparbietà pressoché invidiabile, genuini tanto nel modo di porsi sul palco, tra pantaloni di pelle, borchie e giganteschi crocifissi rovesciati, quanto nella sostanza musicale, e nel giro di pochi istanti ci catapultano indietro di venticinque anni, agli albori più blasfemi del genere. “Wicca” e “Göetia” – album grazie ai quali i Nostri verranno sempre ricordati nell’underground – costituiscono ovviamente la spina dorsale della setlist, e la loro resa è potente e sicura, tipica di una realtà abituata a combattere stoicamente nelle retrovie. Beelzeebubth, in particolare, domina la scena con il suo riffing ficcante e le sue pose esagerate, mentre Araújo si conferma un’ottima spalla per l’unico superstite della lineup degli esordi, sfoggiando un growling di tutto rispetto e suonando senza tentennamenti il basso e le tastiere. Queste ultime, per il modo in cui si intrecciano al guitar work e alle ritmiche, ricordano da vicino quelle della mitica scena ellenica (Varathron, Rotting Christ, Necromantia, ecc.), per un risultato complessivo in grado di spalancare una piccola bolgia all’interno del Colony, come ampiamente dimostrato dalle luciferine “The True Story About the Doctor Faust’s Pact With Mephistopheles” e “A Chant to the Goddess of Love: Venus”. Un concerto semplice, per certi versi anacronistico, ma assolutamente trascinante. Bravi Mystifier.
ROTTING CHRIST
Lunga vita ai Rotting Christ, musicisti che salgono sul palco con la stessa carica e determinazione di una falange oplitica pronta al combattimento. La band dei fratelli Tolis – che da quando è stata raggiunta da Vagelis Karzis al basso e da George Emmanuel alla chitarra ha di fatto raddoppiato il proprio impatto live – è ormai rodatissima dopo mesi di promozione del nuovo “Rituals”, e non stupisce vederla mettere a ferro e fuoco lo stage fin dall’incipit di “Ze Nigmar”, episodio ritmato scelto appositamente per aprire le danze (sataniche) della setlist. Il divario tra il quartetto ellenico e chi lo ha preceduto è enorme, finanche imbarazzante a livello di intensità e di presa sul pubblico, e non tarda ad aumentare con il passare dei minuti, complici dei suoni perfettamente calibrati e un Sakis come sempre indomabile nei panni di frontman. E se le recenti “Elthe Kyrie” e “Apage Satana” ottengono un consenso pressoché unanime, per quanto povere di riff e sicuramente più indicate all’ascolto su disco, sono i cavalli di battaglia “The Sign of Evil Existence” e “In Yumen-Xibalba” a scatenare una volta per tutte il putiferio all’interno della sala (a questo punto diventata una specie di forno), con un pogo costante e grida che fanno il verso allo storico ‘au au au!’ di ‘300’. Insomma, i Nostri non fanno altro che confermare le loro straordinarie doti di interpreti e mattatori, suonando per un’ora senza la benché minima sbavatura e risvegliando lo spirito guerriero dell’intera platea, visibilmente provata dopo l’intensissimo set piovutogli contro. Non ci stancheremo mai di seguirli.
INQUISITION
Serviva una performance magistrale per non sfigurare dopo l’eroica prova di forza dei Rotting Christ. Una dimostrazione di carattere e talento sui generis, qualcosa che scaraventasse gli spettatori all’Inferno senza alcuna possibilità di appello. Gli Inquisition centrano l’obiettivo con una facilità disarmante, aprendo un portale diabolico che sembra inghiottire la venue dal primo all’ultimo minuto della setlist. Senza dubbio siamo di fronte ad una delle migliori black metal band in circolazione (insieme a Watain e Mgla), partita come uno dei tanti omaggi al circuito norvegese di inizio anni ’90 e via via trasformatasi in una creatura dallo stile proprio e inconfondibile, preso a sua volta d’esempio da nuove generazioni di musicisti. Incubus e Dagon questo lo sanno bene, e salgono sul palco con il fare di chi ormai non deve dimostrare più niente a nessuno: la presenza scenica è collaudata, le capacità tecniche per replicare i continui saliscendi della loro proposta ampiamente interiorizzate (anche grazie all’intensissima attività live), ed è questione di attimi prima che lo show assurga a momento topico della serata, tra melodie dal sapore cosmico, rasoiate brucianti e un gracchiare che non può non riportare alla mente quello del caro vecchio Abbath. “Bloodshed Across the Empyrean Altar Beyond the Celestial Zenith”, forse il disco più fortunato del duo colombiano, almeno a livello di critica, è sugli scaffali dei negozi ormai da un paio di mesi, ma anziché saccheggiarlo e farne il piatto forte della scaletta i Nostri gli dedicano giusto una manciata di pezzi, prima di lanciarsi in una sorta di best of che mette d’accordo vecchi e nuovi fan. Immancabili e portentosi, come sempre, gli estratti da “Ominous Doctrines of the Perpetual Mystical Macrocosm”, con una “Desolate Funeral Chant” veramente da pelle d’oca, ma che dire delle datate “Ancient Monumental War Hymn” e “Dark Mutilation Rites”? L’impatto emotivo della musica degli Inquisition, tutto racchiuso nell’ingegnoso guitar work di Dagon, non teme praticamente rivali all’interno della scena, e questa sera ne abbiamo avuto l’ennesima conferma. Sempre più grandi, sempre più fondamentali.