Introduzione a cura di Andrea Intacchi
Report a cura di Giuseppe Caterino (28 maggio) e Andrea Intacchi (27 maggio)
Il tour UK di “The Book Of Souls” sta per terminare. Le ultime due date si terranno a Londra, in quel dell’O2 Arena, e l’attesa di vedere gli Iron Maiden dal vivo è sempre alta. Questa volta però la situazione e un po’ diversa: gli strascichi e la conseguente tensione scaturiti dopo gli avvenimenti accaduti a Manchester, al termine del concerto di Ariana Grande, fendono ancora l’aria. Ma il potere della musica, il richiamo dei fan per quest’importante evento supera qualsiasi timore. Un’autentica carovana di metallari, di qualsiasi età, si aggira sin dalle prime ore del mattino nei punti più strategici della città. Tra gli altri, il celeberrimo Cart and Horses, il locale nel nord-est londinese dove nel ’75 un giovanissimo Steve Harris diede ufficialmente il via agli show della sua Vergine di Ferro. Pacche sulle spalle, fiumi di birra, brindisi infiniti tra persone mai viste prima ma amici da sempre. Il tutto prima di dirigersi con la giusta calma e l’adrenalina a mille all’O2. La festa sta per cominciare. La due giorni Maiden England sta per essere celebrata e vissuta rigorosamente nelle prime file: eccone il resoconto e buona lettura.
SABATO 27 MAGGIO
SHINEDOWN
Arrivano dagli Stati Uniti ed ormai il loro nome è ben noto agli amanti delle sonorità hard rock più moderne, con quell’aggiunta di southern sound che porta a scapocciare anche i metallari più incalliti. Loro sono gli Shinedown from Florida e hanno l’arduo compito, superato alla grande, di aprire gli show europei maideniani in questo inizio 2017. Che non fossero dei semplici opener lo si era capito fin da subito: tra la fiumana di Eddie stampigliati sulle t-shirt dei presenti, non era indifferente, infatti, il numero di quelle riportanti il logo della band americana. E la conferma si è avuta nell’ora a disposizione. Coinvolgenti ma non solo, gli Shinedown sono stati autori di una buonissima prova in cui anche il leader Brent Smith ha dato sfoggio di un’ottima prestazione vocale, regalando al pubblico una sorta di mini greatest hits. Rivisitando l’intera carriera, la parte del leone l’hanno comunque fatta i brani provenienti da “The Sound Of Madness”, dal quale, oltre alla title-track, sono stati proposti “Devour” e “Second Chance”. Sulle tribune sono parecchi i ragazzini con famiglie ad accompagnare i brani proposti dagli Shinedown, i quali, sull’onda dell’entusiasmo generale, non perdono occasione di interagire con loro. Il preludio al clou della serata si chiude pertanto tra gli applausi più che meritati. Ed ora comincia l’attesa più trepidante…
IRON MAIDEN
Ecco d’improvviso che si spengono le luci e, quando le note di “Doctor Doctor” invadono l’intera arena, capisci, dall’aria che si respira, che sta per iniziare qualcosa di speciale. Perché, nonostante i live dei Maiden siano ormai più che collaudati, nonostante le setlist, soprattutto negli ultimi anni, difficilmente portino con sé grossi scossoni, quello di Londra è stato sicuramente uno show del tutto particolare; più ‘sentito’ e vissuto rispetto ad altri del recente passato. E non certo perché Harris e compagni giocavano in casa. La prima delle due date londinesi, proprio per i motivi citati all’inizio di questo report, ha avuto il sapore di una sorta di rimpatriata, di richiamo, a sostegno non solo dell’heavy metal, ma della musica in generale. ‘Gli Iron Maiden non si fermano’, aveva dichiarato la band subito dopo i fatti di Manchester, ‘e nemmeno noi’ sembrano urlare a squarciagola gli oltre ventimila fan accorsi all’O2. Ed è con questo monito che inizia una lunga notte di sudore e di braccia alzate: tutti insieme a scandire con Bruce le note di quelle canzoni che hanno portato gli Iron Maiden ad essere la più importante band del panorama metal mondiale. Ma andiamo con ordine. E’ l’accoppiata “If Eternity Should Fail” e “Speed Of Light” ad aprire le danze e fin dalle prime battute si nota come i Nostri siano tutto fuorché ‘anziani’: ok, la carta d’identità non bluffa, ma vi assicuriamo che la forma fisica di Smith, Gers e dello stesso Murray (forse leggermente più ingolfato dei due colleghi) è a dir poco invidiabile. Nicko dietro alle pelli è il solito guascone, sinonimo di garanzia, e pure l’Air Raid Siren ha confermato per l’ennesima volta di avere un’ugola fuori dal comune (sublime la prestazione durante “The Book Of Souls”). E Steve Harris? Risulta sinceramente difficile trovare gli aggettivi giusti per quello che, ormai, è una macchina da guerra. Lì, tra le prime file, guarda dritto negli occhi un fan dopo l’altro, sbattendogli in faccia, oltre alle ‘bassate’ di rito, ogni singola parola di ogni singolo brano. Beata gioventù. E a proposito di giovinezza, si torna nel passato con l’immancabile “Wrathchild” e una ritrovata “Children Of The Damned”, prima di balzare nuovamente al presente con altre due song prese dall’ultima fatica. “Death Or Glory”, condita da un evitabilissimo balletto ‘scimmiottesco’, e “The Red And The Black”, per tutti gli amanti delle cavalcate maideniane. Si parla di cavalli? Una giubba rossa, una bandiera e l’urlo è sempre quello di “The Trooper”, un classico seguito da un altro pezzo da novanta, quella “Powerslave” ormai divenuta un trademark di quest’ultimo tour mondiale. Ora, assodata tristemente l’assenza in scaletta di “Hallowed Be Thy Name” dovuta a motivi oscuri di plagio, c’è da annotare l’entrata in scena di un nuovo brano estratto da “The Book Of Souls”, quel “The Great Unknown” eseguito degnamente dalla Vergine di Ferro. Lo show prosegue alla grande e, in più di un’occasione, Bruce chiama a sé il pubblico, in particolar modo quello appostato nelle tribune più alte dell’arena, lanciando poi una maestosa ola. Si arriva quindi ai classici, perchè quelli non devono mancare mai. Una sudatissima “Fear Of The Dark” anticipa un fulminea (per il 2017 sia chiaro) “Iron Maiden”, con tanto di Eddie gonfiabile che regna sovrano dietro la struttura di piatti e tamburi di Mr. McBrain. Una breve pausa prima del numero funesto, il numero della Bestia. Una festa, un’autentica festa chiusa da una coralissima “Blood Brothers” e dalla sempreverde “Wasted Years”. Si potrebbe concludere con un classico ‘Up the Irons’, ma sarebbe riduttivo. Si potrebbero fare proclami di pace e fratellanza, ma forse risulterebbero ‘banali’. E allora ci piace semplicemente ricordare il cerchio creato al termine del concerto da parecchi fan, ognuno con la propria bandiera sulle spalle. Chi dal Brasile, chi dalla Finlandia, dalla Romania, dall’Argentina o dal Canada, e l’immancabile bandiera dei 4 Mori: tutti insieme a ballare sulle note della Monty Python song “Always Look On The Bright Side Of Life”. Grazie Maiden!
(Andrea Intacchi)
DOMENICA 28 MAGGIO
SHINEDOWN
Superati i controlli presenti all’O2 Arena (a onor del vero non davvero molti di più di quelli – già massicci – ad altri concerti svoltisi in questo sito in tempi ‘di pace’) e atteso con pazienza di prendere posto nel fronte palco, la prima cosa che ci salta all’occhio è che la gente è meno di quella che ci aspettavamo, perlomeno all’ora in cui ci siamo presentati (abbastanza presto, in effetti). Il pubblico è però festante, euforico, le magliette dei Maiden vanno ovviamente per la maggiore e più di qualcuno sembra essere reduce dalla serata precedente. Quando finalmente le luci si abbassano e gli Shinedown fanno il loro ingresso sul palco, il colpo d’occhio sul pubblico resta ancora abbastanza povero, quantomeno girandosi a guardare gli spalti che presentano diverse seggiole vuote; ma è anche vero che chiunque sia stato all’O2 senza arrivare con cospicuo anticipo conosce l’infinità di tempo necessaria per entrare, pertanto immaginiamo che il pienone avverrà – come in effetti accadrà – con gli headliner. Ma veniamo alla performance degli americani. Il loro ingresso spezza un lungo momento di attesa e la band viene salutata a braccia alzate dalla quasi totalità dei presenti, che si lascia prendere per mano dal suo intelligente approccio al palco. Perché se è vero che gli Shinedown suonano con foga e con un’attenzione al dettaglio più che rimarchevole, è vero anche che giocano gran parte del proprio show sul contatto con un pubblico delle grandi occasioni, cosa che sin dal secondo brano dà luogo a un (bel) po’ di chiacchiere e incitamenti a cantare insieme (come nell’impattante “Diamond Eyes (Boom Lay Boom Lay Boom)”), oppure a momenti in cui il carismatico singer Brent Smith tiene la platea in pugno riuscendo a guadagnarsi una bella fetta di astanti, che di certo non scorderanno uno spettacolo tanto sentito come questo. Guadagnarsi la fiducia di un’audience probabilmente non particolarmente avvezza alle novità – soprattutto quando si trova da ore ad attendere i propri beniamini – non dev’essere facilissimo, ma a giudicare dal numero di persone che saltavano su richiesta del singer, la missione é sembrata compiuta.
IRON MAIDEN
I Maiden per molti sono IL gruppo. Quella band che riunisce un po’ tutte le teste e i sottogeneri, che richiama al suo cospetto tanto gente dai capelli grigi che, magari, proprio nella loro città natale li aveva visti al glorioso Ruskin Arms oppure all’Hammersmith durante il Beast On The Road Tour, tanto giovani pieni di energie che già al primo brano erano a petto nudo nel pit a trascinarci nel pogo col loro entusiasmo. E certo, sappiamo bene che gli Iron Maiden non sono più quelli di “Powerslave” e che il tempo scorre inesorabile tanto per noi quanto per loro. Ma, quando dopo le note di “Doctor Doctor” e l’intro di “If Eternity Should Fail” i sei inglesi irrompono sul palco, non riusciamo a togliere gli occhi di dosso dalla forma fisica di uno Steve Harris che corre come un indemoniato sul palco o di un Bruce Dickinson che salta in felpa facendoci venire il fiatone mentre cerchiamo di stare al suo passo nel cantare in coro i brani. E’ proprio la voce di Bruce Bruce che ci lascerà di stucco, ancora incredibilmente sul pezzo, squillante e forte come ci aspettiamo dal singer dei Maiden; pensare che non troppo tempo fa quel signore avesse un tumore che rischiava di stroncare la sua voce per sempre non può che aumentare a dismisura la stima per lui, quanto per la band di cui è bandiera e co-leader. La scaletta non si discosta moltissimo da quella dell’anno scorso – né da quella della serata scorsa – con tutto il corollario che già conosciamo (benché uno sfacciato Bruce dica col sorriso che avessero preparato qualcosa di diverso). La folla, come detto, è qui per i propri idoli, e risponde con grande entusiasmo anche ai pezzi nuovi, trovandosi a fare l’ormai leggendaria ‘monkey move’ su “Death Or Glory”, dove un Dickinson con maschera e scimmietta al collo gigioneggia divertito, o salmodiando “The Red And The Black” (a nostro avviso davvero troppo lunga e dispersiva) o la bella “The Book Of Souls”, laddove un tarantolato Janick Gers smette per un attimo i panni del giocoliere del gruppo e fa sentire a tutti che quando vuole sa suonare davvero. Per il resto, abbiamo assistito alla solita festa targata Iron Maiden, con in alto cuori e braccia di fronte a classici immortali, le entrate di Eddie, l’inaspettata forza emotiva di “Blood Brothers”, cantata anche dalle transenne, e la chiusura ad opera di un altro brano da nodo in gola, quella “Wasted Years” che ha alzato le mani al cielo di ogni presente. Non sono mancati momenti di colloquio col pubblico ed ovviamente un ricordo alla strage di Manchester, dove Bruce ha chiesto, invece del canonico minuto di silenzio, un momento di rumore in ricordo delle vittime, dove gli applausi e le urla sono durate per un buon pugno di minuti (cosa che fa ancora più effetto pensando gli atroci e recentissimi atti di London Bridge). L’arena piena, il suono ineccepibile (anche se nelle prime file, dove ci trovavamo, un po’ ovattato) e quei sei signori di mezza età sul palco si sono dimostrati ancora una volta dei mattatori nati, giocando fra di loro, correndo, saltando e sapendo bene cosa il loro pubblico chiede; dopo tutti questi anni, uscire da un concerto dei Maiden storditi e col sorriso sulla faccia è sintomo che la band capitanata dal più famoso bassista-ultrà del West Ham sembri non sentire il peso degli anni, o quantomeno di aver modellato i segni del tempo a servizio di quello che ormai è un trademark nel mondo dell’heavy metal e del rock tutto. Come da tradizione: Up The Irons.
(Giuseppe Caterino)