Introduzione a cura di Redazione, report a cura di Andrea Intacchi, Roberto Guerra e Simone Vavalà
Fotografie di David Scatigna
Il ritorno degli Dei parte seconda. Dopo la prima calata metallara avvenuta un paio di settimane fa in quel di Bologna, l’evento si è infatti ripetuto, questa volta in terra lombarda, località Milano, ippodromo SNAI “San Siro” per la precisione, all’interno del Milano Summer Festival edizione 2023.
Un “The Return Of The Gods” che si traduce, di fatto, in un nome ben preciso: quello degli Iron Maiden, incaricati di far dimenticare la beffa tempestosa dello scorso anno (proprio all’Arena Parco Nord bolognese) con il loro nuovo tour, il “Future Past Tour 2023” dedicato esplicitamente all’ultima fatica in studio targata “Senjutsu” e al celeberrimo “Somewhere In Time”; a contorno tre gruppi e mezzo (poi capirete il motivo) dalle svariate sfaccettature stilistiche (The Raven Age, Blind Channel, Epica e Stratovarius) che, se da una parte hanno fatto storcere il naso a più di un defender, dall’altro hanno portato pure una ventata di modernità all’interno della giornata.
Prima però di entrare nel vivo delle varie esibizioni, permetteteci di annotare qualche considerazione dal punto di vista extramusicale. Innanzitutto, un appunto puramente logistico. Sabato 15 luglio, infatti, oltre ai Maiden, nel raggio di un paio di chilometri, presso un altro ippodromo, lo SNAI “La Maura”, era in programma un altro concerto, quello degli Arctic Monkeys, per il quale erano attese circa sessantamila persone; sommate alle oltre trentamila del “San Siro”, si arrivava quasi alla cifra tonda. Ed è stato davvero curioso e divertente, contare i diversi pullman, taxi e pure alcuni mezzi delle forze dell’ordine recarsi presso la location destinata a Steve Harris convinti che fosse invece quella per la rock band di Sheffield, nonostante la fila di maglie nere con tanto Eddie stampigliato sopra fossero ben evidenti. Va beh, marcia indietro e via verso “La Maura”.
Tema organizzativo: nessuno pretende di avere tappeti rossi, ancelle che sventolano ventagli, poltrone di pelle, magari refrigeranti. Il metallaro, di norma – anche se ultimamente è diventato un po’ più esigente – è abituato ai sacrifici: di strada, di clima, di udito, di soldi. Per chi ascolta questa musica il concerto è un rito religioso, da celebrare insieme ai propri fratelli, amici conosciuti negli anni, facce ormai mai note delle quali magari non si sa nemmeno il nome.
Ma su una cosa non si transige a nessun livello: il rispetto umano. E la location gestita da Milano Summer Festival, in cui i Maiden si sono esibiti, non ha preso in considerazione questo aspetto tanto semplice quanto fondamentale.
Da quanto abbiamo potuto assistere, il flusso in entrata dei presenti, suddiviso su due vie, in base al ticket acquistato (pit o prato) è avvenuto sostanzialmente senza intoppi, ma il vero disagio si è percepito una volta messo piede nell’ippodromo: siamo a luglio, noto mese dalle temperature medio-alte, se non altissime; ergo, un soluzione che riparasse dal calore era quanto meno scontata, e invece nulla di nulla: l’ombra, questa sconosciuta, veniva ricercata alla bell’e meglio negli angoli più sperduti dei vari stand dedicati a casse e bar. Non sono stati rari i casi di persone che hanno dovuto chiedere assistenza ai soccorritori per cali di pressione o mancamenti, nonostante un raro e incostante refolo di vento qui e lì.
Altro aspetto: i prezzi. Visti i famigerati token, visto il ritiro dei tappi di bottigliette ai cancelli di entrata e l’assenza di rubinetti/docce/fontanelle d’acqua, tre euro per una bottiglietta d’acqua, lo stesso per un gelato, otto euro per una birra (venduta in due versioni, la seconda della quali di una grandezza miserevole) ci è sembrato del tutto esagerato. Anche perchè, e torniamo a monte del discorso, il costo del biglietto era già abbastanza impegnativo.
Se al The Return Of The Gods – Bologna c’era acqua gratis, bicchieri riciclabili, prezzi delle birre inferiori, non c’erano token e vicino ai bar erano presenti tavoli e panche con ombrelloni, altri punti d’ombra, nebulizzatori e accorgimenti che hanno reso la vita dei fan un po’ più agevole, qui a Milano non si è visto nulla di tutto ciò. Come mai vi chiederete voi, visto che il nome del festival è lo stesso e anche il promoter, Vertigo, è lo stesso? La probabile risposta sta nel fatto che la location di Bologna era pianificata e operata da Vertigo stessa in tutti i suoi aspetti, mentre quella di Milano è stata affittata a Vertigo dal cosiddetto Milano Summer Festival, che a sua volta ha gestito i bar e i relativi prezzi, i token e via dicendo.
Lungi da noi entrare nel caso specifico e nelle complesse dinamiche che regolano affitti e relativi contratti, quello che ci chiediamo è come sia possibile che nel 2023 ancora ci siano arene estive organizzate con questi criteri, con avventori e spettatori che devono sopportare fatiche e pene dell’inferno per vedere un concerto. A nostro modesto parere nessuna arena di questa dimensione e importanza dovrebbe poter operare con livelli di accoglienza del pubblico così bassi, a maggior ragione poi se sul sito ufficiale di tale arena è riportata la dicitura di avvenuta concessione del “patrocinio del Comune di Milano”.
Il paragone poi che i fan si trovano a fare con ciò che succede ai grandi eventi centro/nordeuropei è ovviamente e giustamente del tutto impietoso. Forse sarebbe il caso che entità che operano in location come quella di Milano iniziassero a pensare che chi va a vedere i concerti lo fa per passione, sborsa un sacco di soldi, prende ferie, viaggia, pernotta e via dicendo… e merita di essere trattato con tutta l’umanità possibile. A Bologna qualcosa è stato fatto, a Milano assolutamente no.
Questo è quanto; per fortuna ci ha pensato per circa un paio di ore la Vergine di Ferro a spazzare via ristrettezza e inconvenienti, dimostrando ancora volta che se c’è una band multigenerazionale, con tutti i suoi componenti over 60, a saper metter tutti d’accordo, beh, questi sono proprio gli Iron Maiden. E ora torniamo alle 16 di sabato 15 luglio quando sul palco compaiono i The Raven Age.
THE RAVEN AGE
Cinque? Sei? O sette? Ormai abbiamo perso il conto. Sta di fatto che per l’ennesima volta ad aprire un concerto italiano o, in questo caso, un festival con protagonisti i Maiden, troviamo i The Raven Age. Non sarà forse perché il chitarrista della band è George Harris, figlio di tal Steve Harris? Molto probabile. Poco importa, alle 16.00 in punto e spaccando il minuto i cinque inglesi, supportati dal telone d’ordinanza, riportante la copertina del recentissimo nuovo album “Blood Omen” (pubblicato proprio lo scorso 7 luglio), si sono palesati on stage dando ufficialmente inizio all’edizione meneghina del ‘The Return Of The Gods”.
Pronti via e l’impressione di come i volumi non siano perfetti, più che altro bassi, è apparsa più che evidente; la voce del frontman Matt James, in particolare, ha faticato a farsi largo dalle casse poste ai lati del palco. Ci siamo spostati in una zona più centrale, così da avere da avere una visione frontale ma la situazione – ahinoi – non è cambiata. Suoni dunque da rivedere che, purtroppo, condizioneranno pure la performance degli headliner.
Da parte loro i The Raven Age si sono guadagnati la pagnotta grazie ad una prestazione ordinata, con un heavy metal melodico con qualche slancio alternative e passaggi più grintosi. La band ha cercato di raccogliere quanta più approvazione possibile, oltre ai canonici applausi, richiamando costantemente il nome di quel gruppo che avrebbe il loro posto di lì a qualche ora, scatenando ovviamente l’entusiasmo di un ippodromo ancora in fase di riempimento.
I britannici hanno proposto dall’ultima release “Parasite”, “Forgive and Forget” e “Tears Of Stone”, congedandosi, dopo una mezz’oretta di show, con la conclusiva “Fleur De Lis”. Nel frattempo il sole ha deciso di transitare momentaneamente dietro la struttura dedicata alla band, creando una ‘linea d’ombra’ quasi surreale tra le primissime fila di coloro che erano all’interno del gold circle. Per i metallari del prato invece, i posti al riparo, dietro alla struttura riservata al comparto fonico, erano ormai in esaurimento.
(Andrea Intacchi)
BLIND CHANNEL
“Ma chi diavolo sono questi?”. E’ il commento, più o meno colorito, che si è innalzato tra i presenti nel momento in cui i Blind Channel hanno preso possesso del palco. Con il loro personalissimo ‘violent pop’ (così amano definire il misto di pop-hardcore proposto) il sestetto di Oulu ha portato una ventata di modernità e, inutile negarlo, una buona dose di disappunto tra le file dei puristi dell’heavy metal e in particolare dei numerosissimi fan degli Iron Maiden.
Tuttavia, doveroso ammetterlo, lo show dei Maneskin finlandesi non è stato per nulla noioso anzi, nei quaranta minuti a disposizione, hanno creato il giusto appeal con il pubblico portando a casa una prestazione più che convincente; una ventata di aria fresca, così giusto per rasserenare una platea fin troppo accaldata dal solleone.
Abili nell’acchiappare facili like tra i più giovani, grazie alle tipiche mosse da boy band, il gruppo guidato dalla coppia di cantanti formata da Niko Vilhelm Moilanen (una sorta di Axl Rose con occhialata e cappello d’ordinanza) e Joel Hokka è partito immediato con l’ultimo singolo “Happy Doomsday”, rilasciato lo scorso maggio. Molto movimento on stage come detto, aizzato tra gli altri dal tastierista Aleksi Kaunisvesi il quale, tra una nota e l’altra, si è dileggiato a saltellare qua e là ricordando il buon Repetto di ‘pezzaliana’ memoria. Ed è stato proprio a suon di ‘jump’ che la band scandinava ha proseguito il suo concerto, passando da “We Are No Saints” a “Over My Dead Body”, anticipata dalla richiesta dello stesso Hokka di formare un rapido wall of death a centro pit, desiderio invero riuscito a metà.
I suoni, rispetto ai The Raven Age, hanno acquistato fortunatamente corposità e volume, vuoi, forse, anche per il doppio cantato, più melodioso e pulito quello del biondo vocalist, più roccioso, se così possiamo definirlo, quello di Moilanen. Piacioni abbiamo detto, e la conferma è arrivata in occasione di “Flatline” quando, in modalità Take That, hanno invitato i presenti a mettersi in ginocchio prima del salto globale, così da dare inizio al pezzo.
I Blind Channel si sono rivelati coinvolgenti, abili nel trovare ulteriori consensi attraverso una cover ben riuscita (per chi scrive anche meglio dell’originale) di “Left Outside Alone” di Anastacia prima di lanciare il brano dedicato al buon Sylvester Stallone e al suo Rocky: “Balboa”, appunto, il titolo con la quale i ragazzi finlandesi hanno dato un’ultima scarica di nu-metal elettronico, salutando quindi il pubblico grazie alla loro canzone più famosa, quella “Dark Side” che nel 2021 gli ha permesso di arrivare sesti all’Eurovision Song Contest vinto, per la cronaca, proprio dai Maneskin. Seconda band in archivio quindi; in arrivo dall’Olanda, gli Epica.
(Andrea Intacchi)
EPICA
La band olandese rappresentata dalla bella Simone Simons non ha certo bisogno di presentazioni, in quanto il loro metal sinfonico è entrato ormai da tempo nel cuore di molteplici ascoltatori. In questa sede la band si presenta sul palco compatta e divertita dal contesto, così come dall’accoglienza calorosa ricevuta dagli astanti; tant’è che la stessa Simone non perde occasione per scherzare col pubblico, il quale risponde con ovazioni e incitandola utilizzando una versione italianizzata del suo nome.
Poche sorprese a livello di scaletta, in cui trovano posto le più datate “Unleashed” e “Consign To Oblivion”, insieme alle più recenti “Abyss Of Time – Countdown To Singularity” e “The Skeleton Key” dall’ancora fresco “Omega”, con in più altri tre estratti provenienti dal loro periodo di mezzo.
L’esecuzione è buona e la presenza on stage non necessita di critiche, a differenza di un sound e di un’equalizzazione che lesinano un po’ sulla proverbiale botta sonora, necessaria per fornire il giusto feedback dei chitarroni massicci a sette corde, nonché degli stacchi in growl ad opera del chitarrista e cantante Mark Jansen, poco valorizzati all’interno del muro sonoro. Purtroppo si tratta di una critica che abbiamo fatto diverse volte in merito alle esibizioni tenute in questa controversa location, dove ogni sacrosanta volta sembra che si vada letteralmente al risparmio sui decibel, e non solo.
Malgrado questo, ci sentiamo di promuovere l’esibizione degli Epica, che comunque si mostrano come i professionisti indiscutibili che sono e portando a casa diversi consensi più che meritati, anche da parte di alcuni scettici, per quanto non possiamo negare che, in altre occasioni, abbiamo avuto modo di saggiarne la resa in contesti decisamente più azzeccati. Purtroppo, dopo la chiusura del concerto e i relativi saluti saremo condannati ad un lungo silenzio, causato dalla inspiegabile mancanza di un qualsivoglia dj set nell’intervallo seguente, nonché da un imprevisto che condizionerà irrimediabilmente l’esibizione dei successivi e ben più celebri Stratovarius.
(Roberto Guerra)
STRATOVARIUS
“Mi hanno cancellato il volo!”, “L’altro che ho preso era su Zurigo e si è rotto il furgone!”, “C’era il funerale di mia madre!”, “Le cavallette!”.
A voler essere sarcastici, il report del concerto degli Stratovarius potrebbe assumere questa forma e concludersi qui, anche perché, musicalmente, c’è ben poco da dire; due soli brani portati a termine, di cui il primo in versione karaoke: di “Black Diamond” ci restano impresse infatti solo la tastiera con quel caratteristico suono da spinetta settecentesca, le chitarre e una batteria ovattata, mentre la voce compare nell’ultimo minuto.
La seguente e conclusiva “Hunting High And Low” viene eseguita al meglio, ma serve a poco rispetto alla possibilità di consolare il pubblico della band finlandese. Che quantomeno ha la carineria di scusarsi mettendoci la faccia, nello specifico quella del povero Kotipelto, e di pubblicare molto presto un post di spiegazioni – eh, sì: come la stessa band ha comunicato dopo il concerto, metà delle cose scritte in apertura sono vere.
Si potrebbe discutere a lungo sull’opportunità di volare il giorno stesso per la città di destinazione, allorché si è attesi a un festival di un certo peso, ma le considerazioni sulle scelte economiche altrui, anche nel caso di band di un certo spessore, lasciano il tempo che trovano, così come la scelta personale dei fan di ritenersi più o meno a rischio, rispetto alla sicurezza di assistere a uno show.
Resta, di concreto, un concerto più che monco, memorabile per la sua durata degna di uno show di GG Allin; ma in quel caso “a merda” andavano altre cose…
(Simone Vavalà)
IRON MAIDEN
Il seguente report non è destinato a coloro che ormai quotidianamente definiscono gli Iron Maiden come una band morta e sepolta con l’album “Seventh Son Of A Seventh Son”, se non addirittura con “Killers”. Per tutti gli altri invece – e per gli oltre trentamila metallari che hanno pazientemente atteso le 20.55 di sabato 15 luglio – le righe riportate qui sotto vogliono rendere omaggio ad una band che ancora una volta, nonostante l’inesorabile avanzamento anagrafico (e avanza per tutti, sia chiaro), è riuscita a timbrare sul volto di chi ha partecipato al concerto dell’ippodromo la classica espressione del “io c’ero“.
Vuoi, come detto in sede di introduzione, la fregatura climatica e successiva incazzatura dello scorso anno, vuoi quella sana professione di fede maturata ormai negli anni da moltissimi fan incalliti, vuoi infine un successo planetario ormai indiscusso, i Maiden sono tutt’ora il tipico gruppo da vedere, almeno una volta nella vita, sicuri che non deluderà. E la dimostrazione si è avuta anche lo scorso weekend, quando gli occhi rivolti verso il palco, mentre lo note di “Doctor Doctor” hanno iniziato il fatidico conto alla rovescia, hanno delineato i volti di ragazzini, adolescenti, giovani, adulti, mamme, papà, nonni. Un perfetto quadro generazionale; perché è proprio questo che Steve e compagni sono stati in grado di raffigurare durante i loro quasi cinquant’anni di carriera: un’opera artistica capace di rinnovarsi ogni volta.
Non solo, l’occasione di partecipare ad una delle date del “The Future Past Tour 2023″, ha dato la possibilità di ascoltare dal vivo un brano simbolo della discografia della Vergine di Ferro, quell'”Alexander The Great”, ormai divenuto un caso tra i supporter più accaniti della band inglese proprio per la sua puntuale assenza in setlist.
Una serie di motivazioni che ha ovviamente alzato l’hype generale. Tutti pronti dunque, perchè terminata anche l’intro di “Blade Runner” è stata “Caught Somewhere in Time” a far andare in visibilio i presenti, scatenando il prevedibile caos nelle prime file. Comparso Nicko dietro la sua batteria con tanto di orsetto britannico posto sopra la cassa, e di corsa di tutti gli altri, è toccato a Bruce Dickinson saltar fuori come una molla, dando così il via ufficiale al concerto.
Il palco è quello ‘solito’, con la classica pedana rialzata, un paio di videowall verticali sullo sfondo, tra i quali il canonico spazio per i vari teloni, simbolo immortale dei Maiden. Il pubblico, se vogliamo, pure: ha cantato a memoria il pezzo d’apertura, sovrastando addirittura il frontman britannico durante il refrain: la gioia e la grinta da una parte, il solito problema dei suoni non all’altezza dall’altra hanno creato questa fastidiosa situazione, andatasi leggermente a migliorare nel corso della serata.
Questo tour, come detto, era dedicato principalmente a “Somewhere In Time” e all’ultimo “Senjutsu”, dividendosi quindi in due una torta di dieci pezzi. Ad essi, altri cinque brani estrapolati da altrettanti album, tra i quali le immancabili “Fear Of The Dark” e “The Trooper” (per chi scrive IL pezzo dei Maiden per antonomasia): una scaletta particolare, non gradita da tutti (il best of dello scorso “Legacy Of The Beast” aveva ricevuto senza dubbio più consensi), ma comunque ben strutturata.
Proseguito con “Stranger in a Strange Land”, durante la quale ha fatto una prima comparsa, seppur breve, la mascotte Eddie, lo show è stato interrotto in più di un’occasione: il coro di olé dedicato alla band ha infatti zittito il buon Bruce (visibilmente compiaciuto), intento ad introdurre i vari pezzi. Un Dickinson che, terminata “Writing On The Wall” e la successiva “Days of Future Past”, si è messo pure a parlare di auto, citando diverse marche automobilistiche italiane: dalla Ferrari, alla Lamborghini… alla Fiat (con risate al seguito) la quale, comparandola alla mitica Delorean, non sarebbe stata in grado di compiere un viaggio nel tempo. Discorso utile a presentare “Time Machine”, uno dei brani meglio eseguiti durante la serata, insieme sicuramente a “The Prisoner”, durante la quale la coppia Smith/Murray ha confermato, come se ce ne fosse ancora bisogno, la sua infinita qualità.
Oltre a ciò, inevitabilmente (e per fortuna), la classe di Adrian Smith, le precisione melodica di Dave Murray, gli interventi sinuosi e funambolici di Janick Gers, con annessi volteggi chitarristici, e con loro il solo ed unico Steve Harris, reduce da un clamoroso gol messo a segno su punizione in un match giocato qualche giorno fa ad Amsterdam, di nuovo sul palco dopo nemmeno quarantotto ore dopo la prestazione del giorno precedente con i British Lion, sempre pronto a cantarti in faccia, guardandoti negli occhi, ogni singola parola di ogni singolo brano. Non aggiungiamo altro!
Tra le canzoni che sicuramente hanno reso molto bene in chiave live c’è stata anche “Death Of The Celts”: quando erano apparse le prime news circa la nuova scaletta, qualche dubbio in merito era stato sollevato, ed invece è stata una piacevole sorpresa.
Abbiamo parlato di Eddie poco fa: armato di pistola, in versione sci-fi, è tornato a fare la voce grossa in “Heaven Can Wait” per uno scontro all’ultimo laser proprio contro Bruce Dickinson, alle prese con una mitragliatrice posta sulla pedana. Un duello appassionante per la felicità di tutti i telefonini, apparsi a centinaia nel giro di un nanosecondo.
Con Eddie rabbuiato per aver mancato di un soffio il ‘nemico’ Dickinson, il buio è calato on stage e là, sullo sfondo, è apparso un nuovo telone. Impossibile sbagliare: un’orda di soldati e un solo condottiero a guidarli, con spada, scudo ed elmo. “My son ask for thyself another kingdom, for that which I leave is too small for thee?”. L’ora che tutti hanno atteso era giunta: il momento di “Alexander The Great” è arrivato e qualche lacrimuccia (siamo pronti a giurarlo) è scappata a più di un presente; una delle canzoni più epiche di sempre ha finalmente trovato il suo spazio live. E questa volta, piccola nota a margine, il famoso gong colpito dallo stesso Dickinson nell’intermezzo strumentale è rimasto al suo posto.
Giunti in prossimità dell’ultima cinquina, a dare il via al terzo lotto di brani ci ha pensato un’altra hit, forse la più famosa di tutte, proprio per quella sua veste commerciale che, pur permettendo di Maiden di farsi conoscere anche dal pubblico extrametal, ha fatto arrabbiare, e non poco, i paladini del puro metallo. Stiamo ovviamente parlando di “Fear Of The Dark”, cantata a squarciagola praticamente da chiunque. E se con Bruce le cose non sono andate come avrebbe voluto in precedenza, il buon Eddie ci ha riprovato in occasione di “Iron Maiden”: questa volta in versione samurai, si è messo a litigare con Janick Gers, sempre volenteroso nello schivare i colpi di katana, mentre sullo sfondo un mega pallone raffigurante il volto della mascotte è apparso a coprire l’intera scena.
Tra gli altri pezzi più attesi c’era sicuramente anche “Hell On Earth”, uno dei must assoluti dell’ultimo album. Come è andata? Bene, sicuramente più rapida nella prima parte, acquisendo maggior vigore e rocciosità nella seconda. Ed è curioso segnalare come i brani di “Senjutsu” si siano fatti notare proprio per un generale aumento di velocità di esecuzione, a dispetto di altre canzoni più datate (come ad esempio “The Trooper”) che invece hanno subito qualche rallentamento. A proposito: sin dall’inizio del tour, uno dei bersagli preferiti dalla critica è stato Nicko McBrain. Cosa dire? Il più vecchio della compagnia (ha spento 71 candeline lo scorso giugno) ha sicuramente perso lo smalto dei vecchi tempi, tuttavia alcune uscite nei suoi confronti sono state poco rispettose; uno dei marchi di fabbrica dei Maiden, leggasi cavalcate, fanno ancora la loro porca figura e Nicko è assolutamente uno dei protagonisti in questo senso.
La festa ha raggiunto il suo epilogo ed è stato con “Wasted Years” che i Maiden hanno chiuso i battenti di questa ennesima calata sul suolo italico. Come indicato su uno dei teloni, in quel famoso viaggio nel tempo a bordo della Delorean, vi erano tre date a celebrazione di questo “The Future Past”: 1975 anno di fondazione della band, 1986 anno di release di “Somewhere In Time”, 2021 anno di release di “Senjutsu”. E dopo sabato, possiamo benissimo aggiungere anno 2023. Up The Irons!
(Andrea Intacchi)
Un giro a 360° per il pubblico.
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