Report a cura di Chiara Franchi
Vedere gli Iron Maiden due volte in due anni è una bella cosa. Vederli per due volte in una location mozzafiato come Piazza Unità d’Italia a Trieste è un privilegio. Stesso periodo dell’anno, stesso tramonto dipinto sul mare, stessa brezza che bacia una calda sera estiva e, ovviamente, stessa emozione. Forse anche di più, perché se nel 2016 la Vergine di Ferro stava promuovendo il suo ultimo, piacevole “Book Of Souls”, stavolta si preannuncia una notte tutta dedicata alla tradizione, significativamente presentata come Legacy Of The Beast Tour. Mentre ci lasciamo alle spalle il Molo Audace, siamo impressionati dalle dimensioni del palco, che ridefinisce il concetto di ‘faraonico’. I The Raven Age stanno suonando gli ultimi brani: anche in questo caso, non molto sembra cambiato da due anni fa, quando per la prima volta abbiamo ascoltato live la band del giovane rampollo di casa Harris. La serata, però, è ancora lunga davanti a noi, proprio come le ombre dei palazzi triestini al calar del Sole. Non resta che preparare orecchie e cuore a quello che ci aspetta.
RHAPSODY OF FIRE
Scelta azzeccata, quella di affidare ai Rhapsody Of Fire il compito di aprire il live degli Iron Maiden. Per chi rischiasse di perdersi tra le molteplici incarnazioni della band: la formazione che vediamo in Piazza Unità è quella dell’autoctono Alex Staropoli, con al microfono Giacomo Voli. Perché scelta azzeccata? Non solo per una certa verosimile predisposizione del pur variegato pubblico della Vergine di Ferro alle sonorità più classiche, ma anche per la felice selezione dei brani in setlist, focalizzati quasi esclusivamente sulle vecchie glorie. “Dargor, the Shadowlord…”, “Dawn Of Victory”, “Land Of Immortals” e l’immancabile “Emerald Sword” galvanizzano la platea, in discreta percentuale lanciata in cori forsennati. Cori sovrastati dall’imponente (quanto inevitabile) comparto basi cui la band fa affidamento e che sostengono la bellissima voce di Voli, più che a suo agio allo scomodo posto che fu di Fabio Lione. Poche sbavature, suoni perfettibili ma apprezzabili, grinta e tanta professionalità: pur amando il power metal quanto un appuntamento dal dentista, chi vi scrive non può che parlare di una performance coinvolgente, sul cui livello c’è poco da discutere.
TREMONTI
Anche sui Tremonti vorremmo poter spendere parole encomiastiche a dispetto della scarsa affezione per il genere. Vorremmo, ma non possiamo. Innanzitutto, perché dal un musicista che dà il nome al gruppo, e che gode ormai della fama di guitar hero contemporaneo, ci si aspetterebbe un po’ di più di quello che sembra un mix di riff scartati da uno dei suoi progetti principali (gli Alter Bridge) e riferimenti piuttosto invasivi a band arcinote (i Metallica). In secondo luogo, perché anche in veste di frontman il pur talentuoso Mark presenta lo stesso, identico difetto che gli imputiamo quando è on stage con gli Alter Bridge: la mancanza di quel pizzico di carisma in più che fa la differenza. Certo, con AB gli si può riconoscere la validissima attenuante di avere Myles Kennedy a meno di un metro, ma qui di alibi ce ne sono pochi. Sia come sia, la pur tecnicamente lodevole performance dei Tremonti risulta dispersiva e alla lunga piatta, con pochi supporter a tenere banco in mezzo a una folla che così, a occhio, ci sembra più interessata alla birra che al palco. A similarità di proposta, ridateci i Trivium.
IRON MAIDEN
“Doctor doctor, please, oh, the mess I’m in”: strano destino quello di “Doctor Doctor” degli UFO, diventata richiamo irresistibile per i fan di un’altra band. Non si fa in tempo a captarne le prime note che le ovazioni si fanno frastornanti, tanto che è difficile, quando il brano si interrompe, distinguere la voce dell’allora neoeletto Winston Churchill annunciare ben altro ingresso su ben altro palco. Anche questo è un chiaro segnale di cosa possiamo aspettarci. Ma solo a livello musicale, perché mai si vide inizio più spettacolare per un live show.
Un aereo da guerra decolla, letteralmente, dal retro del palco, mentre gli Iron Maiden si lanciano nell’ormai preannunciata “Aces High”. Occhi e riflettori sono subito catturati da un Bruce Dickinson più scatenato che mai, fisicamente inesauribile e dalle corde vocali in una forma sbalorditiva. Dopo il noto acuto dell’opener, infatti, Dickinson passa subito a toccare le vette (vocali e narrative) di “Where Eagles Dare”, mettendo perentoriamente in chiaro chi abbia vinto, tra lui e il tumore alla lingua che lo ha colpito qualche anno fa. Inutile dire che la sua performance sarà da manuale per tutto lo show, tanto sui vecchi, irrinunciabili classici (“2 Minutes To Midnight”, terzo episodio della setlist, o la sempre carichissima “The Trooper”), quanto sugli episodi dell’era Blaze, che, pur con tutto l’affetto che possiamo nutrire per il buon Bayley, risultano assai più espressivi e coinvolgenti rispetto alla versione originale. L’istrionismo e il talento del frontman non oscurano, tuttavia, l’eccellente performance del resto della band: Steve Harris, che come da tradizione non lesina di puntarci contro il suo basso, regala una parentesi acustica sull’epica “The Clansman”; alle pelli, Nicko McBrain non risparmia il suo consueto, poderoso drumming; mentre i tre axeman Smith, Murray e Gers si rimbalzano assoli, intrecci armonici e melodie con divertita disinvoltura. Proprio a Janick Gers, anche in questa occasione, va secondo noi l’altra palma della presenza scenica: grande chitarrista, showman formidabile, quasi ruba la scena ai più pacati colleghi di sei corde.
Settimo, fondamentale membro della band (ottavo, se contiamo Eddie) è però lo show in sé e per sé. Se l’apertura ci ha lasciati tutti a bocca aperta, il resto dello spettacolo è un continuo susseguirsi di sorprese e meraviglie. Non bastassero i continui cambi di costume di Dickinson (aviatore, schermidore, quasi un Jack the Ripper su “Fear Of The Dark”) e i backdrop che regalano ad ogni brano uno scenario diverso, ecco che “For The Greater Good Of God” risuona in una vera e propria cattedrale gotica, con rosoni colossali e candelieri che pendono dall’alto; su “The Flight of Icarus” l’eroe mitologico prende il volo verso il cielo; e l’immancabile demonio sbuca dagli inferi sulle note, purtroppo quasi conclusive, di “The Number Of The Beast”.
Come dei bambini a Natale, vorremmo che la festa non finisse mai. E i Maiden ci accontentano con un bis esplosivo: “The Evil That Men Do”, “Hallowed Be Thy Name” e, infine, la galoppata sulle colline (anche materiale, con Dickinson in sella a un cavallo giocattolo) di “Run To The Hills”. Un vero paese dei balocchi per metallari di tutte le età, questo Legacy Of The Beast Tour, con quella che è indiscutibilmente la più grande heavy metal band al mondo nella sua forma migliore, uno show straordinario e la carica di emozioni che solo due ore di (quasi solo) vecchi classici sanno regalare.
Ma a proposito di cosa lascia dentro questa serata, vorremmo concederci una riflessione a luci spente, mentre fischiettiamo “Always Look On The Bright Side Of Life” insieme ai crocifissi del noto film dei Monty Python: il discorso di Churchill era un invito alla lotta senza quartiere per la libertà e proprio questo, insieme alle parole che lo stesso Bruce Dickinson ha speso a metà concerto e ad uno sguardo (forse suggestionato?) ai primi brani in scaletta, ci sembra il cuore di quell’eredità della Bestia che dà il titolo a questo tour.
Setlist:
Aces High
Where Eagles Dare
2 Minutes to Midnight
The Clansman
The Trooper
Revelations
For the Greater Good of God
The Wicker Man
Sign of the Cross
Flight of Icarus
Fear of the Dark
The Number of the Beast
Iron Maiden
The Evil That Men Do
Hallowed Be Thy Name
Run to the Hills