Quando si assiste a un concerto di un gigante della musica, specialmente del rock, si ha sempre un po’ il timore che le cose non possano essere come ce le si era aspettate. La sfilza dei ‘dinosauri’ (detto in modo affettuosamente amichevole) che ancora non si rassegnano alla pensione è lunga, ma di questi solo una manciata sono davvero meritevoli di una visita concertistica, per cui il dubbio era: ce la farà il buon Ian Anderson a tenere ancora il palco?
A settantasei anni suonati, il leader dei Jethro Tull non si è evidentemente ancora rassegnato ad appendere il flauto traverso al chiodo: forte di due dischi comunque buoni come il pregevole “The Zealot Gene” e il più recente (e forse meno brillante) “RökFlöte”, la band britannica nella sua nuova incarnazione si è imbarcata in un megatour estivo che ha toccato anche la location del Lazzaretto di Bergamo.
Complice il posto – e nonostante i prezzi piuttosto alti di birra e panini (molti hanno preferito cenare nei baretti adiacenti lo stadio della mitica Dea Atalanta) – architettonicamente incredibile per un concerto, la bella atmosfera creatasi e l’attesa dell’attempato pubblico nel vedere uno degli idoli della propria adolescenza, comunque, il concerto del 29 luglio è stato più piacevole di quello che si potesse pensare, tant’è che nessuno si è spaventato quando, in modo molto scenografico, durante l’immortale “Aqualung” si è pure scatenato un temporale con tanto di saette e tuoni.
Come Bob Dylan insegna, poi, tutti i vecchietti della musica mal sopportano i telefoni, quindi anche in questo caso era vietato fare video e foto prima del bis, sia per il pubblico che per la stampa di settore. Certo, è una consuetudine di un altro secolo che nel giro di una generazione perderà – crediamo – di senso, ma possiamo dire che una volta tanto è stato bello non doversi vedere il concerto dallo schermo del maxitelefono di ultima generazione del nostro dirimpettaio di sedia.
Fa impressione pensare come oggi questa sia musica considerata ‘colta’, quando una volta il progressive rock era considerato una colonna sonora per adolescenti ribelli: forse anche il nostro Ian vive in quel limbo assurdo per cui suonando questo genere sei abbastanza bravo da essere una star del rock, ma non abbastanza da essere ben considerato negli ambienti ‘musicofili’. Ma bando alle considerazioni filosofiche: scopriamo come è stato questo live.
Qualunque dubbio sulla possibilità che Ian Anderson potesse o meno avere ancora un po’ di presenza scenica viene completamente spazzato via quando il folletto del rock entra saltellando e soffiando nel suo flauto magico sulle note della mitica “Nothing is Easy”, direttamente da “Stand Up”, la seconda prova in studio della band del lontano 1969. Purtroppo notiamo subito una cosa: la difficoltà del nostro a prendere le note più alte cantando, evidentemente dovuta all’età che avanza, ma questo non rovina un concerto che a conti fatti si dimostra più che soddisfacente.
Supportato anche da dei musicisti di tutto rispetto, tutti provenienti da ambiti jazz, classici e rock (come e soprattutto nel caso del giovanissimo chitarrista Joe Parrish), i nostri imbroccano un buono spettacolo che spazia nella prima parte dai classici del passato come “With You There To Help Me” e “Sweet Dream”, entrambe dai primissimi dischi composti dal buon vecchio flauto magico, ma andando anche a pescare sorprese come “Holly Herald” da quel “The Jethro Tull Christmas Album”, abbastanza fuori stagione rispetto al periodo.
Da “Stand Up” viene poi recuperata anche “We Used To Know”, introdotta da uno Ian Anderson che parla e ci racconta della famosa diatriba su “Hotel California” che avrebbe preso proprio spunto da questo pezzo (basta che facciate una ricerca su Google e vi appariranno intere pagine di forum con gente che si scanna su questa cosa), e che nell’assolo riprende scherzosamente il noto pezzo degli Eagles. Bisogna anche però far sentire qualcosa dei nuovi dischi, per cui vengono suonate “Hammer On Hammer” e “Mine Is The Mountain”, i singoli delle ultime due prove in studio su cui Anderson si trova molto meglio e non deve sforzarsi per raggiungere note troppo alte per l’ugola di un signore di quasi ottant’anni.
Le due vengono inframezzate poi dalla trasognante ‘folk-folk’ song (così come definita dal leader della band) “Songs From The Wood”, dall’omonimo album, dove il controcanto del bassista David Goodier all’inizio causa qualche incertezza, ma poi ci trasporta poi subito in un bosco inglese a suonare la chitarra acustica circondati da fate e folletti.
Due parole sulla bravura dei musicisti che circondano Anderson comunque meritano di essere spese: tutti davvero bravissimi e molto professionali, tant’è che spesso e volentieri sembrava di essere a un concerto di musica classica se non fosse per gli assoli quasi metallari di Joe Parrish (con un passato, effettivamente, in diverse band metal) e la precisione meccanica ma potentissima della batteria di Scott Hammond.
La prima parte setlist viene chiusa da un pezzo assolutamente immancabile per i Jethro Tull: il “Bourée in E Minore” di Bach che ha reso “Stand Up” uno dei migliori dischi della storia del rock, sulla quale i nostri si concedono diversi assoli ciascuno divagando dalla forma canzone originaria.
Il tempo di bersi una birra, scambiare due chiacchiere con i vicini di ‘poltrona’ (se così possiamo chiamare le sedie piuttosto scomode del Lazzaretto), e dopo venti minuti i nostri ricominciano con un’altra sorpresa: “Heavy Horses”, dall’omonimo disco del 1978 che segnò un periodo di sonorità molto più dure per il combo britannico.
Non sappiamo cosa abbia bevuto Anderson nella pausa, ma la voce inizia decisamente a stare meglio. Anche nella seconda parte del concerto non possono mancare due pezzi dai nuovi dischi, così arrivano “The Navigators” e “Mrs Tibbets”, giusto inframezzate dal folklore di “Warm Sporran”. In particolare, il secondo dei due nuovi brani è introdotto da una riflessione di Anderson sul rischio di una nuova apocalisse nucleare riferita ai più recenti sviluppi in materia, visto che la canzone è dedicata alla madre di Paul Tibbets, che il 6 agosto 1945 guidò l’Enola Gay sui cieli di Hiroshima.
E giusto per restare di buon umore, dopo questo pezzo viene suonata “Dark Ages”, direttamente da “Stormwatch” del 1979, che con uno humor decisamente tutto british viene introdotta dal frontman dicendo «Beh, restiamo ottimisti con una canzone che parla della fine dei tempi!».
Mentre le prime gocce di pioggia cominciano a cadere sulla platea, la tastiera di Jon O’Hara inizia a suonare sei note che sono assolutamente inconfodibili: dopo una lunghissima introduzione strumentale basata su una improvvisazione su tutti i pezzi di quel disco leggendario (sulla quale uno scocciato Anderson si presenta in proscenio facendo cenno a un ragazzo di mettere via il telefono), non può che partire per la gioia di tutti i presenti “Aqualung”, che in via teorica dovrebbe chiudere la serata.
I presenti però se ne infischiano dell’infradiciata che si stanno prendendo mentre il temporale arriva su Bergamo, e la band sale nuovamente sul palco per l’immancabile “Locomotive Breath”, vero e proprio inno generazionale insieme agli altri classici di “Aqualung”, sulla quale ci alziamo e andiamo a occupare le prime file per dimostrare tutto il nostro calore a Anderson e soci, mentre molti dei presenti preferiscono stare sotto ai portici riparati dall’acqua.
E così cala il sipario sull’ennesima scorribanda in Italia del folletto del folk rock e dei suoi bravissimi turnisti. Che dire: i Jethro Tull sono stati tante cose nella loro lunga carriera, e forse lascia un po’ l’amaro in bocca vedere Ian Anderson così in difficoltà dal punto di vista canoro.
Nonostante questo, come ha commentato qualcuno, «Il flauto magico c’è ancora»: i Nostri sono ancora in grado di fare un bel concerto e coinvolgere i presenti in un viaggio nel passato, nello humor britannico e nella religiosità (non proprio ortodossa) del loro leader maximo.
Lasciamo il Lazzaretto zuppi di pioggia ma soddisfatti: certo, ci avrebbe fatto piacere sentire qualche estratto dai dischi più prog del combo come “A Passion Play” e “Thick As A Brick”, ma per un distinto signore di 76 anni che è ancora in grado di cantare e suonare il flauto traverso facendo alcuni dei suoi mitici saltellini a gamba alzata va bene così.
Setlist:
Nothing Is Easy
With You There to Help Me
Sweet Dream
We Used to Know
Holly Herald
Hammer on Hammer
Songs From the Wood
Mine Is the Mountain
Bourrée in E minor
Heavy Horses
The Navigators
Warm Sporran
Mrs Tibbets
Dark Ages
Aqualung
Locomotive Breath