Report a cura di Carlo Paleari
Alla base di questo lungo tour celebrativo c’è una curiosa contraddizione di fondo: i Jethro Tull, che hanno pubblicato il loro debutto nell’ormai lontanissimo 1968, stanno festeggiando cinquant’anni di carriera; eppure i Jethro Tull, come vera e propria band, non esistono più. E’ tale la sovrapposizione tra Ian Anderson e la sua creatura, portata avanti con caparbia tenacia per più di mezzo secolo, che i confini si fanno indistinti. Lo stesso manipolo di musicisti ha realizzato diversi tour, suonando talvolta sotto il nome di Ian Anderson, talvolta come Jethro Tull, a seconda delle occasioni. Per questa serie di concerti, perfino la comunicazione sulla stampa e sui vari mezzi di comunicazione è indefinita: si sceglie una formula intermedia, Jethro Tull by Ian Anderson. Perché sì, nella band saranno anche transitati qualcosa come trenta diversi musicisti, ma al centro della scena c’è sempre stato Lui, con il suo flauto magico e la postura da folletto, ritto su una gamba sola…
Per partecipare a questa grande festa di compleanno ci rechiamo al Teatro Colosseo di Torino, una bella struttura in pieno centro, dal sapore retrò, proprio come la musica che andremo ad ascoltare di lì a poco. Non è un grande teatro e risulta quasi nascosto alla vista, fino a che non ci si trova davanti alle sue porte, ma l’atmosfera è calda. Unica nota negativa, la pianta è sviluppata tutta nella lunghezza, andando un po’ a penalizzare chi si trova nelle ultime file. Il popolo dei ‘Tulliani’ si accomoda sulle poltrone e, nel mentre, dalle casse vengono ripetuti messaggi minatori degni di un concerto dei King Crimson: no foto, no video, pena l’interruzione definitiva dello spettacolo.
Finalmente si spengono le luci e la band sale sul palco, aprendo le danze con “My Sunday Feeling”: per ultimo entra Anderson e per qualche secondo tratteniamo il respiro, in attesa di capire lo stato di salute della sua voce. Ormai è noto come il tempo non sia stato clemente con le corde vocali di Ian e, purtroppo, la cosa ha ormai raggiunto dei livelli drammatici. Il cantante non solo non raggiunge le note più alte, cosa gestibile abbassando la tonalità, ma risulta proprio a corto di fiato, affaticato e soverchiato dagli altri strumenti. Il disastro sarebbe alle porte per chiunque altro nelle sue condizioni, ma Ian Anderson non è ‘solo’ un cantante: tra le mani stringe il suo flauto e, quando lo porta alle labbra, è lì che scatta il vero brivido di piacere. Quello che non riesce a fare più con la voce, Anderson lo compensa con ciò che l’ha reso una Leggenda: con il flauto resta una forza della Natura, con quel suo stile inconfondibile e unico.
Lo spettacolo è perfettamente costruito intorno al tema della celebrazione. Si parte dal passato remoto della band, quel “This Was” del 1968, che viene ampiamente saccheggiato e, da lì, si procede poi in ordine cronologico, andando a costruire un compendio della carriera storica del gruppo. Tra una canzone e l’altra vengono proiettati sul megaschermo alle spalle della band dei veri e propri messaggi di auguri. Si tratta di piccoli filmati in cui vecchi membri dei Tull, o altri artisti influenzati dalla musica di Ian Anderson, salutano il pubblico, presentando la canzone successiva, condividendo magari un piccolo ricordo personale. E parliamo di nomi pazzeschi, da Joe Elliott dei Def Leppard a Steve Harris, passando per Slash, Joe Bonamassa, fino a Tony Iommi che, ricordiamo, fu per brevissimo tempo arruolato nella band, quando i Black Sabbath erano alle prime armi e si facevano chiamare ancora Earth. L’idea funziona, non spezza la tensione, perché ben dosata, e coinvolge i presenti aumentando la sensazione di trovarsi in mezzo ad una grande festa di compleanno.
Il primo set del concerto permette al pubblico di ascoltare gemme come “Love Story”, il blues di “Some Day The Sun Won’t Shine For You” (con Ian Anderson che abbandona il flauto in favore dell’armonica), la strumentale “Dharma For One”. Non mancano i classici irrinunciabili, come il “Bourée” di Bach diventato un vero e proprio cavallo di battaglia, oppure la maestosa “My God”, primo estratto dal capolavoro “Aqualung”. Trova anche spazio “Thick As A Brick”, ma si tratta solo di un piccolo estratto, ancora più ridotta rispetto alla versione da dieci-dodici minuti che i Jethro Tull erano soliti proporre. Lo stesso trattamento, purtroppo, viene riservato anche a “A Passion Play”, giusto accennata in apertura del secondo set, prima di passare a qualche episodio (relativamente) più recente. La carica di “Too Old To Rock ‘N’ Roll, Too Young To Die” fa venire voglia di alzarsi e correre sotto il palco e lascia emergere il riffing corposo di Florian Opahle, segnando uno dei momenti più avvincenti del concerto, assieme ad un’ottima versione di “Heavy Horses”. Parlando della band, inutile dire come tutti i musicisti siano preparatissimi e professionali, ma bisogna ammettere che sul palco si nota immediatamente come il loro sia un ruolo di contorno, ineccepibile, certo, ma teso a non adombrare mai la figura carismatica del leader. Si tratta di sfumature, però, perché la performance resta sempre di alto livello e soprattutto, avendo a disposizione un catalogo di tale levatura, molti difetti vengono superati con la pura e semplice forza delle canzoni.
Dopo una splendida “Pastime With Good Company”, composizione popolare scritta nel XVI secolo da Re Enrico VIII in persona, e “Farm On The Freeway”, il pezzo più ‘giovane’ della serata (comunque trentadue anni!), ci si avvia al gran finale con la più classica delle accoppiate: prima “Aqualung”, musicalmente splendida ma ormai inaccessibile nel cantato, tanto da dover obbligare Anderson a delle parti pre-registrate, e poi il bis con “Locomotive Breath”, che infiamma il pubblico, soddisfatto e partecipe nonostante le incertezze. Durante l’esibizione ci siamo chiesti più volte se fosse possibile immaginare una versione dei Jethro Tull con un nuovo cantante, più giovane, ed il buon Ian a fare ancora fuoco e fiamme tra flauti e chitarre acustiche. Sicuramente la qualità dello show ne gioverebbe, però con un po’ di realismo sappiamo anche che, con settantuno candeline spente e cinquant’anni di carriera, avrebbe anche poco senso rimettersi in gioco in modo così profondo. Forse è sufficiente l’opportunità di godersi queste ultime occasioni, con tutti i loro pregi e difetti, affidandoci alla buona volontà di questi arzilli vecchietti che ancora non vogliono arrendersi: ‘troppo vecchi per il rock ‘n’ roll, troppo giovani per morire’… Chi è che lo diceva?