Report a cura di Carlo Paleari
Eravamo già pronti all’ennesima cancellazione dell’ultimo momento, invece il vecchio Ian Anderson non ci ha deluso e, a dispetto delle restrizioni che stanno rendendo quasi impossibile la gestione di un tour internazionale, ha portato nel nostro Paese i suoi Jethro Tull, forti della pubblicazione del nuovo album “The Zealot Gene”, che ci ha regalato una lucida fotografia del mondo di oggi, un mondo in bianco e nero, dai forti contrasti, in cui emozioni positive e negative si polarizzano in uno scontro dai connotati fondamentalisti. Abbiamo avuto il piacere di assistere alla prima delle cinque tappe italiane del tour dei Jethro Tull, ospitata dal Teatro di Varese, che ha potuto contare sulla capienza al 100%, con l’unica restrizione rappresentata dall’uso della mascherina FFP2 per l’intera durata dello spettacolo.
Le luci del Teatro di Varese si abbassano e sul maxischermo posto alle spalle degli strumenti parte un’animazione che sfoglia le copertine di tanti capolavori della storia del progressive rock, dai King Crimson ai Gentle Giant, passando per Camel, Van Der Graaf Generator e tanti altri, per concludere, ovviamente con i Jethro Tull stessi. La grafica del tour recita “The Prog Years” ed in effetti non ci potrebbe essere sintesi migliore per un concerto che cerca di condensare in meno di due ore l’intera carriera della band di Ian Anderson. Si parte da lontano, dagli albori della band, con una doppietta formata da “Nothing Is Easy” e “Love Story” e fin da subito possiamo fare un paio di considerazioni sulla tenuta della attuale formazione dei Jethro Tull. La sezione ritmica formata da Scott Hammond e David Goodier non ha bisogno di molte presentazioni, con il bassista in particolare a ricoprire un ruolo di primo piano, non solo ritmico ma anche armonico; allo stesso modo anche il tastierista e arrangiatore John O’Hara è sempre più un partner creativo per Ian, in grado di arricchire la performance con hammond e tastiere, suonati sempre con gusto e perizia. Eravamo invece molto curiosi di vedere all’opera l’ultimo acquisto della band, il chitarrista Joe Parrish, chiamato a sostituire il dimissionario Florian Opahle, un professionista capace e preciso che, però, non è mai riuscito a tenere il passo di una colonna portante come Martin Barre. Parrish appare inizialmente un po’ rigido, un fatto più che comprensibile essendo quella di Varese la prima data del tour, ma ben presto il chitarrista acquisisce confidenza e riesce a convincerci anche più del suo predecessore. Più giovane, più genuinamente rock, il musicista dà uno slancio alla formazione e l’intera performance ne esce rafforzata. L’ultimo punto da smarcare, invece, è legato alla performance di Anderson stesso, tanto una certezza quando si trova a suonare il suo iconico flauto (o la chitarra acustica), quanto incerto nella sua tenuta vocale. Su questo aspetto, ci dispiace ammetterlo, probabilmente non c’è più nulla da fare: Anderson ha delle difficoltà evidenti, che cerca di compensare modificando le linee melodiche dove possibile, sfruttando al massimo il suo carisma e la sua abilità al flauto e facendosi supportare in certi passaggi da Joe Parrish, nel ruolo di seconda voce.
Lo spettacolo intanto entra nel vivo e ci accorgiamo di come la band stia ben dosando la propria discografia, alternando classici senza tempo a qualche ripescaggio meno noto. Se, infatti, non riusciamo a pensare ad un concerto dei Jethro Tull senza capolavori come “Living In The Past”, “Bourée”, “My God” o “Thick As A Brick” (per quanto in una versione super condensata di sei-sette minuti), allo stesso modo non ci aspettavamo di vedere Ian Anderson rispolverare lavori degli anni Ottanta come “A” e “The Broadsword And The Beast”, dai quali vengono estratte “Black Sunday” e “Clasp”. Sebbene la differenza qualitativa tra questi album e i grandi classici della band sia evidente, fa comunque sempre piacere ascoltare un autore che si impegna a valorizzare anche qualche capitolo minore, meno noto, ma magari capace di aggiungere colori diversi alla performance. Un solo episodio tratto dal nuovo album, la titletrack, che ci è parsa particolarmente efficace in versione live, mentre ci preme segnalare un altro momento eccellente, rappresentato da “Pavane”, un’altra composizione classica che avevamo amato già ai tempi di “The Christmas Album”. Per l’occasione la band accantona parzialmente l’atmosfera spagnola della versione in studio, dando più risalto alla chitarra elettrica oltre che, ovviamente, al flauto di Anderson. Il tripudio sul finale, invece, è tutto per due veri e propri capolavori, prima “Aqualung”, in una versione particolarmente potente, introdotta da una lunga jam strumentale, e poi “Locomotive Breath”, accolta da un’ovazione fin dalle prime note di pianoforte.
Insomma, Ian Anderson oggi non sarà più una forza della natura e una serata come questa non può considerarsi esente da difetti, tuttavia in un momento storico come questo vedere un artista imbarcarsi in un tour con una tenacia ed un’energia invidiabili, invece di stare sul divano a godersi la pensione, riscalda l’animo di ogni appassionato di musica. “Troppo vecchi per il rock ‘n’ roll”? Non ci sembra proprio.
Setlist:
Primo set
Nothing Is Easy
Love Story
Thick As A Brick (short version)
Living In The Past
Hunt By Numbers
Bourée
Black Sunday
My God
Secondo set
Clasp
Wicked Windows
The Zealot Gene
Pavane
Songs From The Wood
Aqualung
Encore
Locomotive Breath
The Dambusters March