Report a cura di Giovanni Mascherpa
Coincidenza volle che Valient Thorr e Jex Thoth avessero una concomitanza di date per il loro tour autunnale. Così, giovando di quest’occasione, ecco confluire entrambe le band sul palco del Lo-Fi nella medesima serata. Punti in comune? Nessuno. Proprio qui sta il bello. Mentre il quintetto di Valient Himself si nutre e genera divertimento a getto continuo, in una giostra esagitata di rock’n’roll, heavy metal, punk e goliardia, un fiume in piena di energia cinetica condito da una spensieratezza deflagrante meglio di un centinaio di bombe atomiche, Jex Thoth è l’epitome del raccoglimento, della genuflessione a un misticismo densisissimo e crepuscolare; un doom stregonesco punteggiato di folk, profezie, magia subliminale, dark/prog che affonda le sue radici in umori sonori vecchi di quaranta-cinquant’anni. Un confronto assai interessante, perché se è vero che qualcuno è qui esclusivamente per uno dei due gruppi, molti altri colgono benissimo l’occasione di ammirare due metodologie metalliche agli antipodi. In apertura, i due supporter dei Valient Thorr per questo tour europeo si impegnano a dare un carattere tradizionalmente hard rock alla serata, prima di passare ai pezzi da novanta del programma.
BLACK BONE
Terzetto olandese di poche pretese ma solidi fondamentali quello dei Black Bone: si tratta di un manipolo di giovanissimi musicisti, all’anagrafe avranno poco più di vent’anni e comprensibilmente non ci possiamo attendere chissà cosa in termini di inventiva e coraggio. Trattandosi di una band di rock tradizionale gli chiediamo soprattutto energia, ritmo e quel minimo di strafottenza che fa decollare un concerto e tenere avvinti per la mezz’ora di competenza. In questo i ragazzi di Eindhoven non hanno grandi difficoltà a soddisfare le attese: i giri chitarristici, per quanto semplici e abbastanza somiglianti gli uni agli altri, sono discretamente incalzanti e ben mediati fra agitati assalti punk e respiro melodico alla Thin Lizzy. La presenza di due voci potrebbe essere sfruttata con maggiore convinzione: quando le cadenze si fanno più aperte e bassista e chitarrista interagiscono al microfono sembra quasi di ascoltare una versione meno metallica dei connazionali Vanderbuyst e non sarebbe male se in futuro dessero costantemente spazio a queste soluzioni, a discapito di quelle più irruente ma anche un poco dozzinali. In ogni caso, l’impeto della sezione ritmica copre con sufficiente efficacia le carenze di songwriting e pur senza sconvolgere nessuno i Black Bone passano la prova del fuoco della seconda data del tour.
CHILD
Rimaniamo su coordinate classic rock, ma coi Child prendiamo la macchina del tempo e ripercorriamo a ritroso la storia della musica suonata con chitarre distorte e batteria tonante per esplorarne le sue primigenie origini. Caldo, procace, morbido blues interviene a bagnare l’hard diluito della formazione, Zeppeliniana quando non Hendrixiana, lontana da qualsiasi tipo di irruenza e ricerca dell’impatto. È musica sonnacchiosa quella del Bambino, trascinata da solismi di chitarra che si espandono a dismisura, non conoscono confini e non hanno alcuna intenzione di conformarsi agli spazi angusti di una normale canzone. Sarebbe corretto pensare ai Child come a degli improvvisatori che, in un barlume di raziocinio, si ricordino di non essere in sala prove a rincorrere il riff perfetto e infine adempiano alla necessità di comprensione del pubblico dando un minimo di coerenza ai lunghi, torridi viaggi di watt crepitanti che formano l’architrave di questa musica. Le urla fra Robert Plant e Ian Gillian di Mathais Northway sono il fiore all’occhiello di una proposta fuori dal tempo, non l’ideale probabilmente in questo contesto ma tutt’altro che disdicevole qualitativamente. Chi scrive non è la persona più idonea a soppesare il valore dei Child, la lontananza dagli ascolti abituali non ci permette un coinvolgimento esagerato e ammettiamo che alla lunga l’attenzione è andata scemando. Crediamo comunque che in ambito hard/blues questi australiani, in attività soltanto dal 2012, possano dire la loro e confrontarsi senza complessi d’inferiorità con band più blasonate.
VALIENT THORR
Il sottoscritto finirà per ripetere a se stesso e al prossimo questa domanda finché i cinque della North Carolina avranno voglia di consumare le gomme dei tourbus per girare il mondo e farci divertire tutte le volte che li incontreremo: perché i Valient Thorr non sono ancora della superstar della scena rock contemporanea? In attesa di avere una risposta esaustiva a tale quesito e di capire se, grazie al contratto appena firmato con l’austriaca Napalm Records, Valient Himself e compagni tradurranno tutta la classe, gli attributi e la faccia tosta di cui sono dotati in un successo all’altezza del loro valore, li riaccogliamo per l’ennesimo tour, in un paese come il nostro che, se da alcuni calibri medio-grossi viene a volte trascurato, per un corposo nugolo di ensemble underground resta terreno di caccia privilegiato. “Our Own Masters” è vecchio di due anni, i Valient Thorr sono passati su questo stesso palco sia nel 2013 che nel 2014, eppure siamo tutto fuorché assuefatti a quanto hanno da offrirci. Tre elementi su cinque sono cambiati dal tour immediatamente successivo all’ultimo album, la fitta programmazione concertistica mette a dura prova gli elementi del gruppo e il turnover diventa giocoforza l’unica possibilità per tirare avanti. A conti fatti, però, nulla è veramente mutato: non inganni la semplicità della musica, l’accorpamento di generi e fedi stilistiche (si passa tranquillamente dai Motorhead agli AC/DC, dagli ZZ Top alla NWOBHM, da Iggy Pop al rock stradaiolo losangelino o al punk statunitense più easy) richiede menti sveglie e dita svelte e dai movimenti febbrili. Basta poco a incendiare la polveriera, l’essere più mite perde il controllo di se stesso quando Valient Himself inizia a sbraitare. E facesse solo quello. Conformazione fisica da Midwest per il frontman: barba rossiccia lasciata crescere come fosse sterpaglia a bordo strada, i pochi capelli tenuti lunghi e scarmigliati, lo stivaletto rosso rosso come Cappuccetto ad attirare gli sguardi (non lo vedrete mai senza queste calzature), lo sguardo stralunato e la ciccetta affiorante sotto la camiciola si sommano in un figuro tra i più buffi e vistosi visionabili su un palco. Ma è quando si muove, corre sul posto, mima nuotate e sproloquia non si sa bene cosa con un’aria fintamente corrucciata e mefistofelica, che il cantante assume i contorni di un essere di sovrumana presenza scenica, espressivo come e meglio di un teatrante uso all’esagerazione, al surrealismo, alla presa in giro in qualsiasi frangente. Il sudore scorre a ettolitri, Valient rimane a torso nudo e agita l’irsuto torso secondo movenze da ballerino del ventre coi risultati comici che tutti potete immaginare; oppure muove le braccia in una specie di macarena disordinata intanto che scivola in ginocchio facendo air-guitar. Perdiamo il conto di quanti e quali brani i Valient Thorr suonino, catturati dal gorgo di frenesia sussultoria nel quale ci sospingono; “Tomorrow Police”, “Sleeper Awakes”, “Master Collider”, “Manipulation”, “Double Crossed” sono alcuni degli inni scalcianti riproposti in questa occasione, mandati in overdrive da cinque ragazzi che non mancheranno di farci assaporare il gusto sapido del rock privo di convenzioni e rigidità fino a quando avranno energia in corpo da consumare. Pur costretti a un minutaggio lievemente contenuto – siamo sotto l’ora di concerto – i Valient Thorr creano scompiglio ai massimi livelli anche questa volta: ora attendiamo trepidanti il prossimo album e l’affermazione planetaria. Chiediamo troppo?
JEX THOTH
Il cambio palco è lungo, si scivola nella notte mentre lo stage subisce un brusco restyling e da pista da ballo per party scatenati va ad assumere i contorni di una cappella dalle vestigia severe, avvolta dalla luce emanata dai lumi delle candele. Lo stacco visivo è ulteriormente sottolineato dal quasi completo immobilismo delle luci di scena, di un rosso terrificante, sanguigno, puntate sempre nella stessa direzione e tendenti a lasciare nella penombra la cantante. Jex Thoth, prima del suo show più volte in mezzo al pubblico, col cappuccio in testa, ad ammirare con attenzione le altre band in programma, entra in scena per ultima, il passo lento modulato a velocità dimezzate rispetto a quelle già catatoniche della musica. C’è molto, tanto, forse troppo doom psichedelico in giro innalzato a vette di grazia sinistra da soavi voci femminili, ma nel caso dei Jex Thoth ci sono motivi di interesse superiori, una profondità nell’esplorare gli anfratti più cupi dell’heavy metal e una speciale compenetrazione fra il dark/prog, la rivisitazione del suono Sabbathiano e la vocalità unica di questa esile ragazza del Wisconsin. La voce carismatica della singer, unita alle sue doti di teatrante genuinamente succube di forze oscure che ne guidano l’agire in totale trance, è un’aurora boreale declinata in colori violacei, grigiastri, blu sfumanti nel nero. Sussurri e urla sono altrettanto efficaci, la voce non ha da offrire chissà quale sconfinato bagaglio tecnico, ma sa fuggire le convenzioni e decantare emozioni rare, in balia di un bizzarro misticismo, un lirismo rivolto a odi alla natura e a una magia che non sappiamo riconoscere se sia buona o cattiva, quelle delle fiabe per bambini o degli incantesimi atroci di un film dell’orrore. L’impianto ritmico essenziale ha il pregio di assecondare le bellezze vocali senza occultarle e l’intero lavoro d’assieme, ricco nonostante non vada a cercare soluzioni ardite né vi sia alcuno strumento che vada a ritagliarsi ruoli da protagonista, rifulge di una preziosità lontana da altri colleghi operanti nel medesimo sottogenere. Le tastiere, a volte suonate soltanto dal placido organista e in altre occasioni infarcite anche del tocco del bassista, hanno il potere di far scorrere brividi di timore degni di quelli di un film di Dario Argento mentre Jex, pienamente posseduta da entità misteriose che ne agitano tutto il corpo e recitando una parte studiata nei dettagli, scende dal palco e va ad inginocchiarsi in mezzo alla sala, prima di risalire senza degnare di uno sguardo chi le sta attorno. Nonostante l’ora tarda, non sono in tantissimi ad avviarsi anzitempo verso le auto per tornare verso casa e saranno circa le due quando, dopo un acclamato encore, i doomster statunitensi si congedano e chiudono una serata/nottata altamente suggestiva.