DOMINE
Sono le venti in punto quando le luci del Mazda Palace sispengono e i toscani salgono sul palco: il palazzetto è già abbastanzagremito, anche se non farà registrare il tutto esaurito, e il nome deiDomine viene scandito a gran voce da un nutrito gruppo di fan. On stagei ragazzi dimostrano di saperci fare, il sound è abbastanza buono e ilpubblico acclama a gran voce sia pezzi dell’ultimo album che i classicicavalli di battaglia della band. La parte del leone la fa sicuramenteMorby che offre la solita prestazione superlativa con una prova vocaleda manuale del metal…La band, ormai rodata da anni di esperienza onstage, esegue con piglio e risolutezza tutti i pezzi, in particolare lalunghissima “The Aquilonia Suite” che occupa quasi metà dello show;particolarmente acclamati e cantati a gran voce da tutto il pubblicorisultano essere “Thunderstorm” e “The Hurricane Master”. Dopo trequarti d’ora di concerto i Domine lasciano il palco tra gli applausi ditutto il pubblico, anche se dispiace che dal primo splendido “ChampionEternal” non sia stato tratto neppure un brano.
JUDAS PRIEST
L’atmosfera si fa bollente quando alle ventuno il buio del palcoè rotto da un enorme raggio laser che esce da un occhio posto allespalle dello stage, come se stesse scrutando uno ad uno i presenti; unavolta che la gigantesca sentinella ha appurato che non vi sono pericoliimminenti ecco partire, non certo a sorpresa data la premessa, lamitica “Electric Eye”, accolta da una vera e propria ovazione da tuttoil palazzetto. Quando poi dalla pupilla dell’occhio esce Rob agghindatocome suo solito di pelle, borchie e amenità varie, ed inizia a cantare”Up here in space, I’m looking down on you…” il delirio della folla ècompleto e da lì in poi, fino al termine del concerto, sarà tutto unsusseguirsi di canzoni che hanno fatto la storia del metal, tutteurlate a squarciagola dai fan di tutte le età, dai coetanei della bandai loro nipoti. Lo stage è molto ben studiato, con la batteria di ScottTravis a sovrastare tutto, posta su un soppalco che, proprio a partiredal drumkit si allunga sui due lati del palcoscenico. Tre piattaformeelevatrici nascoste permettono ad Halford di apparire escomparire a suo piacimento dalla parte superiore della scenografia. IJudas suonano per due ore, attingendo a piene mani dal loro passato eproponendo, oltre a moltissimi pezzi storici come “The Ripper”, “VictimOf Changes”, “Diamonds And Rust”, “Breaking The Law”, “Turbo Lover”,”Painkiller”, “Living After Midnight” e “You’ve Got Another ThingComin”, anche dei gustosi ripescaggi come “Riding On The Wind” e “TheGreen Manalishi”. Il loro ultimo discreto “Angel Of Retribution” vienerappresentato dal primo singolo “Revolution”, “Hellrider”, “Deal WithThe Devil” e dalla splendida “Judas Rising”, con un Halford che,novella fenice, sorge da un braciere contenente le ceneri di”Demolition” e “Jugulator” per dirci che la band è ancora viva evegeta. Ad onor del vero, purtroppo bisogna dire che la band non è piùquella di una volta, escludendo la sezione ritmica, con un Travisdisumano e il buon Hill che non perde un colpo. Le due asce di Glen eK.K. svolgono ancora un ottimo lavoro sia in fase di riffing che infase di assolo, ma il duo sembra reggere a fatica tutto lo show. Verotasto delente della serata è però Rob Halford: il singer ha carisma davendere, è splendido vederlo durante l’esecuzione di “A Touch Of Evil”con un mantello e delle movenze in tutto e per tutto simili a quelledel Nosferatu di Klaus Kinsky, quando entra in Harley a cantare “HellBent For Leather” si prova sempre un’emozione fortissima…però glianni lo hanno limitato a livello vocale, forse in modo irreparabile.Bisogna dire che con una buona dose di esperienza Rob riesce a limitaregli acuti, comunque notevoli, al minimo indispensabile, per tutto ilconcerto fa uso di filtri e riverberi che lo aiutano a “tenere” la notae oltretutto a dargli man forte c’è Tipton che, quando Halford devesalire di tonalità lo accompagna con la chitarra, che in più diun’occasione si è sostituita alla voce vera e propria quando, altermine di un urlo o di un acuto, al metal god non usciva altro che unrantolo strozzato. Viene quasi il sospetto che vere e proprie perlecome “Dreamer Deceiver” e “The Hell Patrol” siano state escluse dalloshow perché oramai assolutamente proibitive per le corde vocali di Rob.Una prestazione la sua tra alti e bassi quindi, che ha avuto comevertice negativo l’esecuzione della splendida “Beyond The Realms OfDeath”, letteralmente deturpata dal singer all’altezza del chorus, chenon solo invece di cantare parla, ma sbaglia completamente tempi etonalità! Nel complesso comunque un concerto piacevole, graziesoprattutto alla qualità del materiale più che all’esecuzione dellaband…e a fine serata resta solamente un dubbio: siamo davvero sicuriche l’accantonamento del fenomenale Tim Owens sia stata la scelta piùgiusta per la band? Ai posteri l’ardua sentenza.