Introduzione di Carlo Paleari
Foto di Simona Luchini
Report di Giuseppe Caterino e Carlo Paleari
Erano anni che non si vedeva un’affluenza di questo tipo per una data dai Judas Priest che non fosse all’interno di un festival. Un ennesimo segnale positivo per la scena metal italiana che, dopo aver regalato numerosi sold out in contesti medio-grandi, oggi torna a riempire uno dei palazzetti più celebri per la musica dal vivo, il Forum di Assago.
I motivi di questo successo sono tanti. Potremmo partire da un semplice motivo di opportunità, perché quando una band ha mezzo secolo di storia alle sue spalle, c’è sempre la possibilità che il sipario si chiuda e, quindi, diventa sempre più rischioso rimandare il concerto alla ‘prossima volta’. Poi, ovviamente, c’è il fatto di aver messo in campo una tripletta di prim’ordine per gli appassionati del metallo della vecchia scuola, che vede ovviamente i Judas Priest come nome principale, ma che trova una sponda di livello altissimo anche negli inarrestabili Saxon e nel buon Phil Campbell, chiamato con i suoi Bastard Sons a coprire lo slot che in altre sezioni del tour era dedicato agli Uriah Heep.
Ma c’è un ultimo punto da citare, il più importante, per motivare il successo di questa serata: i Judas Priest, con il loro “Invincible Shield”, hanno firmato un grande disco, un lavoro all’altezza del loro nome e della loro storia, che scaccia con forza il timore di andare a vedere dal vivo un pezzo da museo, e che conferma come sia possibile per una band storica continuare ad essere credibile pur senza scomodare paragoni con un passato glorioso. Come in una sorta di pellegrinaggio, dunque, metallari di ogni età e generazione, si sono assiepati all’interno del forum, per rendere omaggio ancora in una volta agli Dèi del Metallo.
Sono circa le 18.45 quando le luci si abbassano per la prima volta stasera, favorendo l’ingresso di PHIL CAMPBELL AND THE BASTARD SONS, band che vede lo storico chitarrista dei Motorhead e la sua prole bastarda coadiuvati dal cantante Joel Peters che, occhiali scuri, barba lunga e microfono anni ‘50, si mette immediatamente a proprio agio sul palco milanese. La band attacca senza tanti complimenti con “We’re The Bastards” ma, vuoi per dei suoni un po’ impastati (almeno dalla nostra postazione, a destra guardando il palco), vuoi per un brano forse non così brillante, l’adrenalina ci mette un attimo a scorrere. I suoni migliorano vagamente nel corso della seconda canzone, “Schizophrenia”, e gli applausi del pubblico milanese (già molto folto, anche se non siamo troppo pressati davanti al palco e, sugli spalti, si vedono ancora diversi seggiolini vuoti) scaldano l’ambiente tra un brano e l’altro.
L’impressione è che da Mr. Campbell ci si aspettasse un certo focus attorno ai Motorhead, mentre i brani autografi del quintetto sembrano raffreddare un po’ le pur buone intenzioni dei presenti, cosa che percepiamo anche con la citata “Schizophrenia”, unico estratto dall’ultimo “Kings Of The Asylum”. A confermare le impressioni ci pensa “Going To Brazil”, che rianima la serata e fa respirare tutt’altra aria. Ovviamente fare da opener ha il suo peso in tal senso, ma Campbell è un professionista rodato e la band gioca moltissimo col suo hard rock, tanto che ci sentiamo di fare un plauso a Peters, mattatore instancabile, che si muove senza sosta sul palco.
Il pubblico apprezza e si lascia coinvolgere in tutti gli inviti ai vari battimano o ‘hey hey hey’ richiesti, ma è evidente che pochi conoscano i brani, ed è sempre quando si torna ai Motorhead che cambia la musica, letteralmente. “Born To Raise Hell” viene cantata da chiunque, ed è teatro di un gioco classico del rock and roll, coi vari botta e risposta imposti dal cantante tra le due metà del pubblico, e alla fine il divertimento di un classico concerto hard rock è quello che sembrano cercare Campbell e i suoi. Si va avanti ancora brevemente con la ‘sabbathiana’ “Dark Days” per arrivare al pezzo forte dell’esibizione, una “Ace Of Spades” accolta con un boato sin dal suo incipit, suonata come si deve, per poi concludere, un po’ in sordina invero, con “Strike The Match”. Insomma, chi sperava in qualcosa di più dal repertorio precedente di Campbell (chi scrive, ad esempio) non sarà rimasto particolarmente entusiasta, ma in fin dei conti non si può mai voler male a del sano e onesto rock and roll come quello proposto. (Giuseppe Caterino)
Mancano cinque minuti alle 20.00 quando scocca l’ora dei SAXON, che tra fumi e pomposità irrompono sulle note della title-track dell’ultima fatica, “Hell, Fire And Damnation”, brano che, pur non sembrando conosciutissimo, fa cantare un po’ tutti in particolare sul ritornello. Il tiro si alza non poco con la band di Biff Byford che, saggiamente, nella prima parte del concerto, alterna pezzi più o meno recenti (“Sacrifice”, del 2013, possiamo considerarla recente?) a proiettili di metallo fuso forgiato qualche decennio fa, come “Motorcycle Man”, come seconda, o “And The Bands Played On”. La band è in forma smagliante, sia per quanto riguarda l’aspetto vocale ineccepibile (che Byford abbia venduto l’anima allo stesso diavolo a cui l’ha venduta Rob Halford?), che per quanto riguarda l’amalgama sul palco; in tal senso è un piacere vedere Brian Tatler (storico fondatore dei Diamond Head, di recente entrato nella band) suonare quei brani come se fosse sempre stato nel gruppo.
Un alternarsi di brani classici e nuovi, dicevamo, fino a “Madame Guillotine” (che invece mostra un po’ il fianco dal vivo), ultimo episodio di questo ‘giochetto’: da qui in poi i Saxon cambiano ritmo e, dopo una furibonda “Heavy Metal Thunder”, saranno solo classici a prenderci a schiaffi.
La band chiede al pubblico milanese cosa suonare tra “Crusader”, “Dallas 1 PM” e “Strong Arm Of The Law”, e la scelta ricade su quest’ultima per acclamazione popolare: siparietto divertente, ma che forse sta a denotare una qualche sottostima dei tempi, visto che, a giudicare dalle scalette online, in altri show queste canzoni sono state suonate tutte. Poco male, visto che la scelta ripaga completamente gli astanti, con una versione spaccaossa del classico del 1980, la quale a sua volta lascia il posto senza troppi indugi a un inno assoluto della band, “747 (Strangers In The Night)”, che può permettersi il lusso di non essere ancora il picco dell’esibizione (che sarà alla fine), ma poco ci manca.
Lo show è davvero entusiasmante, con molta interazione col pubblico, bottigliette d’acqua lanciate dal palco e persino la firma di un vinile durante il concerto: scena piacevole, visto anche il sorriso con cui Biff ha firmato quella copia di “Wheels Of Steel”, spuntata fuori dal pubblico. E’ proprio la canzone che dà il titolo a quell’album a portarci alla conclusione dello show dei Saxon, affidata alla celeberrima “Princess Of The Night”, salmodiata in ogni sua sillaba da un pubblico a questo punto davvero in visibilio per questi inossidabili britannici, stupefacenti e coriacei, capaci di entusiasmare e sembrare divertiti come dei ventenni. Giro di applausi più che meritato e veloce birretta in attesa di un altro gruppetto inglese di qualche decennio fa… (Giuseppe Caterino)
Setlist
Hell, Fire and Damnation
Motorcycle Man
Sacrifice
There’s Something in Roswell
And the Bands Played On
Madame Guillotine
Heavy Metal Thunder
Strong Arm of the Law
747 (Strangers in the Night)
Denim and Leather
Wheels of Steel
Princess of the Night
In perfetto orario, le luci del Forum si spengono e le note di “War Pigs” dei Black Sabbath fanno da preludio all’ingresso dei JUDAS PRIEST, che danno fuoco alle polveri con “Panick Attack”, lo straordinario singolo di apertura di “Invincible Shield”.
La batteria di Scott Travis domina la scena dall’alto, Ian Hill staziona granitico nelle retrovie, mentre Richie Faulkner ed Andy Sneap prendono possesso dei due lati del palco. Il centro della scena, invece, è appannaggio del Metal God che, ricoperto di metallo, come si conviene, ci aggredisce con la sua voce tagliente.
Molti dei presenti si sono chiesti, ascoltando il disco, se Rob Halford sarebbe riuscito a tenere quel livello vocale anche dal vivo, ma fortunatamente quello che ci siamo trovati davanti è una delle migliori versioni di Halford degli ultimi anni. Certo, non tutto è perfetto nella sua prova e la tecnologia interviene spesso per nascondere qualche magagna di troppo (ad esempio con un abbondante uso di delay), ma vedere Rob Halford cantare ancora con questa potenza alle soglie dei 73 anni è un toccasana.
La scaletta bilancia con sapienza classici senza tempo, brani più recenti e qualche interessante ritorno dal passato. Il pubblico, quindi, può cantare a squarciagola “You’ve Got Another Thing Comin’” e “Breaking The Law”; ma non è minore l’entusiasmo quando i Priest si lanciano in una “Lightning Strike”, nella potentissima “Invincible Shield”, o in “Crown Of Horns”, un brano cadenzato e malinconico che funziona perfettamente anche dal vivo e che, anzi, permette ad Halford di mostrare tutte le sfumature del suo timbro più maturo. Per chiudere questa rapida panoramica sulla scaletta, vogliamo citare senza dubbio altre due canzoni: la prima è “Devil’s Child”, che fino alla data milanese non aveva ancora trovato spazio nella scaletta; e poi “Saints In Hell”, un pezzo di una difficoltà vocale estrema, che Halford si è portato a casa con tanto mestiere in maniera stupefacente.
Il palco di questo nuovo tour dei Priest è meno ricco di altre occasioni: nessuna scenografia ingombrante o effetti speciali, solo un ottimo impianto luci, dei ledwall con delle azzeccate animazioni ad accompagnare le varie canzoni e la croce-tridente mastodontica che avevamo già apprezzato al Rock The Castle di due anni fa. D’altra parte, non serve altro ai Priest per catalizzare l’attenzione del proprio pubblico: Halford tiene la platea in pugno, con quell’atteggiamento a metà tra la consapevolezza di essere una leggenda vivente ed il sincero affetto nei confronti di una comunità di fan appassionati. La sezione ritmica non perde un colpo e anche l’intesa tra le due chitarre è ormai totale, con un Richie Faulkner che sta diventando sempre di più uno dei pilastri su cui si poggia l’intero sound della band. Suona con precisione assoluta assoli e riff, ha carisma, si pone sul palco con grande naturalezza, senza mai sgomitare per risultare una primadonna e con grande rispetto nei confronti di un’eredità che ha saputo raccogliere con assoluto talento.
Il set principale della serata si chiude alla grande con la sempre devastante “Painkiller” (l’unico brano su cui abbiamo visto Halford comprensibilmente in difficoltà), ma non dobbiamo aspettare nemmeno un minuto prima dei bis: si parte con “Electric Eye” e si prosegue poi con quel manifesto di metallo incontaminato che è “Hell Bent For Leather”, che vede come sempre Rob Halford salire sul palco con la sua Harley-Davidson, armato di frustino e cappello di pelle in testa.
Già così, parleremmo di un concerto spettacolare, ma c’è ancora una sorpresa in serbo per il pubblico milanese, la più bella di tutte. Terminata la canzone, Rob Halford si avvicina alle quinte e sul palco fa il suo ingresso Glenn Tipton. Lo storico chitarrista viene accolto da una ovazione semplicemente travolgente e sebbene ci si stringa il cuore nel trovarlo così curvo e segnato, vedere quest’uomo che resiste alla sua malattia e ancora oggi trova la forza di salire sul palco è un’immagine che più di mille parole restituisce la magia di questa musica. Musica che fa del non arrendersi mai alle avversità la propria bandiera, che celebra la ribellione ad un fato avverso, che trova risorse ed energie in luoghi sconosciuti, che fa sì che dove gli altri vedano rumore, mostri e brutture, noi ci vediamo un senso di appartenenza, di fratellanza ed una inesplicabile bellezza. Glenn Tipton, su quel palco, è stata una delle cose più metal che ci sia capitata di vedere e non siamo affatto stupiti di sentire così tante persone definire quel momento con la parola commovente.
Con una tenerezza infinita, i Judas Priest si sono raccolti intorno a Glenn e assieme hanno suonato “Metal Gods” e “Living After Midnight”, prima di accomiatarsi tra le ovazioni del pubblico. Difficile aggiungere altro, dopo aver assistito ad un momento così intenso. Il metal è senza dubbio uno dei generi che maggiormente ha la capacità di adattarsi alle influenze più disparate. Noi, come cerchiamo di dimostrare ogni giorno, trattiamo tutti i sottogeneri con la medesima cura, ma di tanto in tanto è anche utile tornare ai fondamentali. E l’heavy metal è questo, cuoio, borchie, fuoco, acciaio, una moto sul palco. O, più semplicemente, in due parole, Judas. Priest. (Carlo Paleari)
Setlist
Panic Attack
You’ve Got Another Thing Comin’
Rapid Fire
Breaking the Law
Lightning Strike
Devil’s Child
Saints in Hell
Crown of Horns
Turbo Lover
Invincible Shield
Victim of Changes
The Green Manalishi (With the Two Prong Crown)
Painkiller
The Hellion / Electric Eye
Hell Bent for Leather
Metal Gods (con Glenn Tipton)
Living After Midnight (con Glenn Tipton)
PHIL CAMPBELL & THE BASTARD SONS
SAXON
JUDAS PRIEST