Report a cura di Mattia Alagna
Foto a cura di Taylor Keahey
Impossibile non assistere alla tappa californiana di un tour americano che vede due delle band in bill – Katatonia e Cult of Luna in primis – capitare poco sul suolo americano ma entrambe storiche a modo loro e per diversi ma validissimi motivi. Vederle insieme nell’arco della stessa serata oltretutto ha davvero rappresentato per noi un boccone troppo appetibile per non presiedere all’evento e vedere la strana coppia in azione, accompagnata oltretutto da due band che possono essere considerate astri nascenti del progressive metal moderno. La serata è stata per lo più lineare e tutto sommato anche prevedibile: molte le riconferme, qualche delusione, qualche immane sorpresa e un colpo di scena nel finale che avrebbe spiazzato chiunque….
INTRONAUT
Aprono le danze gli americani Intronaut, band che gode ormai di una più che discreta popolarità in ambito neo-prog grazie alle notevolissime capacità tecniche di cui dispone, appannaggio soprattutto della sezione ritmica, e che anche grazie all’abbandono (purtroppo o per fortuna, a fan e detrattori la scelta) degli elementi sludge e hardcore che caratterizzavano i primi lavori ha ora potuto definitivamente abbracciare un’estetica progressive rock molto più matura e melodica, seppur molto meno impattante rispetto agli esordi. E, come prevedibile, lo show della band è stato praticamente uno showcase delle capacità tecniche disumane del bassista Joe Lester, esponente di spicco dell’estetica fretless nel metal, e del batterista Danny Walker, mago indiscusso dei poliritmi e di contorsioni jazzate e fusion tra le più complesse nell’attuale panorama heavy. Ridotti praticamente al ruolo di supporter logistici i due chitarristi Sasha Dunable e Dave Timnick, lontani anni luce dalle capacità tecniche dei loro due compagni di band, ma forse proprio per questo maestri nel “gonfiare” e impomposire ancor di più con le loro linee di chitarra fluide e massicce lo sconcertante marasma di virtuosismi e iperboli tecniche sviluppate dalla sezione ritmica. Un limite, quello dei due, che alla fine si è rivelato da sempre uno dei punti di di forza e di tipicità degli americani, segno inequivocabile che la band sa come suonare questa roba e cosa significa essere efficiente nonostante dei limiti inevitabili in ambiti simili. Da dimenticare completamente la delivery vocale di Dunable, anche lui notoriamente sofferente della “sindrome Mastodon” ovvero di quell’uso di vocals cantate e pulite che rendono benissimo in studio di registrazione ma che trasposte in sede live rivelano tutti i limiti di un vocalist non certo all’altezza in questi contesti e sempre sofferente con l’intonazione in molti dei passaggi in questione. Fin qua dunque, tutte le carte sono in regola: chi ama certi tecnicismi e certi virtuosismi deve essere rimasto spazzato via dalla maestria dei Nostri, i quali hanno infatti prediletto un set maggiormente incentrato sugli ultimi lavori più melodici, fluidi e ricercati e focalizzato sul trionfo neo-prog di “Prehistoricisms”. Pochi i capitoli dal periodo sludge dei Nostri (secondo noi il migliore), una traccia da “Void” e nessuna da “Null”. Prossima allo zero la presenza scenica della band, vuoi perché l’esecuzione di pezzi tanto carichi di complessità e tecnicismi richiedono concentrazione elevatissima che lasciano poco spazio ad attività “interattive” pubblico-palco, vuoi perché i membri stessi della band non sono certo conosciuti per essere mostri di simpatia o animali da palco. Fatto sta comunque che oggi giorno per essere coinvolti da uno show degli Intronaut bisogna essere aficionados patologici del progressive metal più sontuoso e della tecnica più autoreferenziale e virtuosistica, campo in cui la band eccelle senz’altro, ma per il resto, per chi cerca altro dalla pura tecnica di esecuzione, c’è ben poco di cui esaltarsi nel vedere questa band dal vivo.
Setlist:
Killing Birds With Stones
Milk Leg
The Welding
Core Relations
Harmonomicon
Sore Sight for Eyes
Prehistoricisms
Gleamer
The Literal Black Cloud
Australopithecus
TESSERACT
Quanto detto per gli Intronaut si può tranquillamente dire anche per i pupilli del djent inglese, ovvero i Tesseract, che però a differenza degli americani hanno più assi nella manica da tirare fuori nei momenti più sterili e autoreferenziali di enorme, ma spesso distaccata, magniloquenza prog di cui sono autori. I Nostri sono molto più furbi degli americani nel coinvolgere il pubblico e la loro musica, soprattutto dal vivo, assume connotati di grande ambiguità spesso sconfinando nel campo dell’onirico vero e proprio o comunque di un astrattismo palpabile e molto introverso che alla fine riesce nell’arduo obiettivo di far rimanere l’attenzione della platea a livelli decenti. La band non sempre appare fiduciosa dei propri mezzi e spesso mostra di approcciare molti passaggi con timidezza e senza quella travolgente intensità sentita sui lavori in studio, ma tutto sommato non si può negare, nel vederli suonare, che la loro popolarità ha un fondamento innegabile e la loro reputazione di virtuosi e leader del settore djent ha fondamenta più che solide. Noi abbiamo apprezzato maggiormente i (rari) momenti più aggressivi proposti dai Nostri, quando la band intera, in preda a spasmi di rabbia incontenibile, mette praticamente da parte il fin troppo delicato (e pavido) frontman Ashe O’Hara per sprigionare da sé delle urla a tre rabbiose e inferocite in grado di elevare all’istante l’intensità della musica evitando la mielosità derivante dalle soavi vocals di O’Hara, spesso invadente e ancor più spesso pervasiva e anche pacchiana. In tali frangenti la band è stata in grado di attuare quella graditissima metamorfosi heavy che li ha avvicinati ai lidi più cerebrali e incompromissori dei Meshuggah, e secondo noi è in questi istanti – e non nella loro innocua e zuccherina melodia – che la stella della band brilla con maggiore intensità. Se in studio il giochetto delle voci soavi ed iper-melodiche funziona, dal vivo e senza un’equalizzazione delle voci studiata a tavolino (cosa che in questa sede mancava completamente) questa rappresenta rischi enormi per la tenuta della band sul palco, e infatti questi rischi sono divenuti realtà in più occasioni.
CULT OF LUNA
La band svedese invece ha come trivellato un buco nella serata. Si è fatta terra bruciata attorno, e ha offerto uno squarcio completamente diverso dal resto delle band. Detta in maniera franca e onesta, nessuna delle band in bill si è potuta anche lontanamente sognare di rivaleggiare gli svedesi, ad alcun livello e su nessun piano. Neanche la differenza di generi e l’effettiva inconfrontabilità stilistica tra le band è stata in grado di giustificare l’immane divergenza di intensità, personalità, attitudine e semplice talento che esiste tra i Cult of Luna da un lato e gli Intronaut, i Tesseract e i Katatonia dall’altro. Sono davvero troppi i punti di forza di cui i Cult of Luna sono in possesso che rendono questa band sublime in ogni suo comparto e al di sopra di qualunque media. Il tiro mostrato dalla band è stato travolgente, e le montagnose architetture doom-sludge costruite dai Nostri hanno livellato il pubblico in maniera implacabile. Canzoni come “Owlwood”, “Finland” e “I: The Weapon” sono monoliti talmente enormi e ardui da scardinare che nulla e nessuno ne ha potuto impedire il loro incedere titanico e implacabile. Altro appunto da fare è che, sebbene persi in una timidezza cronica e in un atteggiamento notoriamente introspettivo in cui il contatto con il pubblico è praticamente inesistente, i Nostri si sono presentati sul palco con una personalità travolgente mostrando che non è solo la musica della band ad avere un fascino magnetico, ma che anche le persone che vi stanno dietro, a partire dallo scalpitante leader Johannes Persson, sono individui che trasudano personalità da ogni poro. E inevitabilmente questa sostanza “umana” e artistica poi si è tradotta in uno show sul palco dai connotati epici, diventando sinonimo di una performance totale e caratterizzata da un’intensità e da un impatto sonico-visuale inarrestabile. Incredibile vedere come passaggi intricatissimi di fumoso e polverizzato post-rock vengono alternate dai Nostri a sciabolate hardcore feroci e brucianti con una fluidità incredibile, e vederli materializzare svettanti inerpicazioni sludge-doom per poi vaporizzarle in incredibili radure shoegaze e ambient in maniera così pregevole. E’ talmente tanta la materia musicale lavorata dai Nostri entro i limiti di un solo show, che ci è risultato anche difficile capire come faccia la band a far entrare “tutto quel suono” all’interno della sua forma umana a terrena. Chi li ha visti suonare, in definitiva – e senza dilungarci troppo – probabilmente sa esattamente di cosa stiamo parlando, e chi invece non li ha mai visti forse ora sa un tantino meglio di prima cosa si è perso in tutti questi anni.
Setlist:
The One
I: The Weapon
Ghost Trail
Finland
Owlwood
Dark City, Dead Man
Passing Through
Disharmonia
In Awe Of
KATATONIA
Far chiudere la serata ai Katatonia, nello stato di “pacatezza” in cui sono in questi ultimi tempi oltretutto, e farli suonare dopo la belva Cult of Luna, è stato un errore immane e una scelta che ha materializzato di lì a poco uno spettacolo impietoso. Seppur con le dovute e ovvie differenze stilistiche e considerando tutte le variabili e le contingenze del caso, è praticamente impossibile non notare la “pochezza” della band di Anders “Blakkheim” Nyström e soci, rispetto all’enorme peso sostanziale del colosso Cult of Luna. La musica dei Katatonia subito dopo lo show dei loro compatrioti si è subito mostrata fiacca e “piccola” in proporzione, e caratterizzata da un sound piatto, misero e incolore. La band non ha neanche usato degli ampli sul palco ma ha preferito mandare il segnale delle chitarre direttamente nel soundboard, materializzando così un sound della sei corde sterile e digitalizzato e dall’impatto emotivo e dal feel uditivo praticamente prossimo allo zero. Solo la voce (assolutamente e innegabilmente) stellare di Jonas Renkse ha contribuito ad elevare le sorti della band, come anche la riproposizione di alcuni vecchi cavalli di battaglia della band del periodo più recente (“My Twin” in testa), ma per il resto lo show dei Katatonia ha offerto lo spettacolo desolante di una band una volta enorme ed influente ed oggi evidentemente stanca, sgonfia e disaffezionata e slegata dal pubblico. L’enorme predominanza di brani in scaletta presi dagli album più recenti hanno creato un’uniformità nel sound e nella esecuzione davvero incomprensibile. I mood tutti simili dei pezzi, l’uniformità delle linee vocali (nonostante le capacità di Renkse), dei riff e degli assoli hanno generato una sorta di onda continua di noia e disappunto in una sala che inevitabilmente si è svuotata in maniera lenta ma implacabile fino a risultare mezza vuota già a metà set dopo il bagno di sudore provocato dai Cult of Luna. Lo studio di registrazione è un luogo molto vantaggioso in cui molti accorgimenti tecnici, e svariate altre variabili logistiche possono creare un prodotto indubbiamente sempre pregno di coinvolgimento e sostanza, ma la sede live è diversa, e se i Katatonia sono ancora in grado di nascondere le loro recenti lacune in studio con dischi tutto sommato ancora dotati di personalità, sul palco invece la band appare completamente nuda nella sua mancanza di mordente e motivazione e totalmente incapace di nascondere la propria carenza di voglia e passione per quello che fa. La platea era senz’altro piena in primis di fan dei Cult of Luna, quello è apparso ovvio, ma uno spettacolo simile non si sarebbe mai verificato se al posto dei Katatonia di oggi ci fosse stata una band minimamente interessata al pubblico e piena di passione per quello che fa. Peccato.
Setlist:
Ashen
Hypnone
In the White
Ambitions
My Twin
Lethean
Quiet World
Undo You
Ghost of the Sun
Leech
Dissolving Bonds
Forsaker
Soil’s Song
July
Unfurl