Riteniamo che nessun evento, se parliamo di sonorità classiche da intenditori, possa vantare lo stesso affetto incondizionato di cui gode il Keep It True, perlomeno da parte di coloro che ancora si identificano come degli autentici appassionati di ciò che l’heavy metal più puro rappresenta ancora oggi.
Il celebre evento tedesco è infatti una vera e propria istituzione, con la capacità di elevare l’underground oltre il limite consentito dalla definizione stessa, rendendolo fruibile da una folla volutamente non troppo numerosa, ma comunque superiore alla media, soprattutto se parliamo di formazioni iconiche, ma in molti casi dimenticate dal mercato più inflazionato. Se poi pensiamo che ogni anno il sold-out è pressoché garantito, capite benissimo la portata che può avere una celebrazione di questo tipo, sia nella sua incarnazione primaverile, sia in quella autunnale denominata ‘Rising’. Se poi, a tutto questo, abbinate il succulento metal market e l’aftershow con un dj set non esattamente tra i più prevedibili, di modo da continuare la festa ogni sera anche dopo la fine dei concerti, il pacchetto è completo.
Considerando i rinvii dovuti alla pandemia, a questo giro gli organizzatori hanno deciso di fare le cose in grande, confezionando non due, ma ben tre giornate a base di metallo purissimo nell’ormai nota località di Lauda-Konighsofen, con in più un succulento warm-up in una location dalle dimensioni più ridotte.
Purtroppo non tutto è andato secondo i piani, considerando la mole di sostituzioni e rimedi in corsa a seguito di annullamenti vari, non ultimo quello dei Loudness, ma ciò nonostante siamo lieti di confermare che lo spettacolo è stato portato a casa con successo e classe. Tra l’altro, per chi volesse immergersi parzialmente nell’atmosfera del Keep It True, sul loro canale YouTube ci sono le riprese ufficiali di tutte le esibizioni avvenute sul main stage, tranne quella di Geoff Tate (non chiedeteci il perché).
Infine, facciamo un plauso all’introduzione trasmessa tutte le mattine all’apertura dei cancelli, recitata dalla riconoscibile voce di Sua Maestà Joey DeMaio. Non sappiamo se si tratti davvero di lui o di una riproduzione artefatta, ma il risultato ci fomenta indubbiamente. Buona lettura!
MERCOLEDÌ 19 APRILE (WARM-UP)
La prima band a dare il via al proverbiale riscaldamento, prima di iniziare a fare sul serio a partire dalla giornata di giovedì, sono i francesi HERZEL, ancora abbastanza freschi dell’uscita del loro debutto “Le Dernier Rempart”, cantato peraltro interamente in lingua madre. Il significato letterale del titolo è ‘Gli Ultimi Baluardi’, e ciò la dice lunga sul target cui questi ragazzi ambiscono con il loro epic metal dalla parvenza relativamente oscura, ma comunque melodica e ricca di tutti quegli spunti alla base di ciò che sentiremo nei prossimi giorni. Magari non ci sono guizzi dalla qualità estrema e si avverte qualche sbavatura tecnica, dal vivo come su disco, ma bisogna ammettere che i pochi brani proposti svolgono adeguatamente il proprio dovere, in particolare grazie all’interpretazione vocale del frontman Thomas Guillesser. Speriamo di sentirne ancora parlare in futuro, perché la strada è quella giusta senza subbio.
Ancora epic metal coi leggermente più navigati e tedeschi OLD MOTHER HELL, che alzano parzialmente l’asticella, proseguendo con uno show nuovamente non perfetto, in cui si intravede qualche limite tecnico, soprattutto quando si entra nel merito degli assoli di chitarra e di determinati sfoggi vocali, ma esattamente come per chi li ha preceduti vale un discorso sulla qualità generale delle canzoni proposte, che in questa sede si dimostrano di buona efficacia e composte con una sana dose di amore per il genere proposto.
La percezione dei suddetti limiti non è materia di chiunque, come dimostrato dall’accoglienza da parte degli astanti, che in effetti sembrano gradire quanto proposto, prestando più attenzione al tiro di brani come “Betrayal At The Sea”, opener del loro secondo album, che alle doti esecutive. E in effetti, da quel punto di vista i ragazzi se la cavano, quindi bene così.
Si parla di Italia in compagnia dei VULTURES VENGEANCE, fautori di un heavy metal tradizionale e dotato di una componente tecnica molto più curata, tant’è che affermiamo senza ripensamenti che gli sfoggi chitarristici di Tony Scelzi e del frontman Tony Steele dovrebbero insegnare a chi è venuto prima come si confeziona un guitar work. A dirla tutta, anche a livello di energia e attitudine on stage siamo su un livello decisamente più alto, e questo si percepisce tanto nella presenza scenica, quanto dalla grinta trasmessa dai pezzi provenienti dall’apprezzatissimo full-length “The Knightlore” e dagli EP precedenti: letteralmente impossibile infatti non fomentarsi su “Fates Weaver”, “Lord Of The Key” o sulla conclusiva “A Great Spark From The Dark”, traccia di apertura del suddetto lavoro in studio, che consigliamo a tutti i lettori. Tantissima qualità, apprezzata anche dai presenti sottopalco e degna rappresentante di quello che siamo in grado di fare all’interno dei nostri confini, quando ci ricordiamo come si suona l’heavy metal.
Per la prima volta ci spostiamo oltreoceano per assistere all’esibizione dei canadesi SMOULDER, una band che ha fatto tanto parlare di sé grazie agli ottimi album in studio, degni di ritagliarsi un posto tra le uscite più ficcanti della cosiddetta new wave of traditional heavy metal. Il loro sound si colloca a metà tra l’epic doom e il power old-school, come confermato da una scaletta che si adagia su andamenti oscuri e suggestivi, per poi esplodere in determinate parentesi tra sfoggi di velocità e ferocia battagliera: su “Bastard Steel” e “The Talisman And The Blade” l’headbanging è d’obbligo, mentre su “The Sword Woman” e “Violent Creed Of Vengeance” è opportuno rallentare, ma sempre tenendo ben salda la spada tra le mani e il coltello tra i denti. La resa generale della formazione canadese si divide in due: da una parte abbiamo il cuore pulsante della band, ovvero la teatrale frontwoman Sarah Ann (la cui espressività abbinata all’utilizzo dei gesti la rende una degna ‘cantastorie’) e il suo compagno Shon Vincent alla chitarra solista, mentre gli altri tendono a rimanere molto più sullo sfondo, rendendo di fatto la presenza on stage leggermente scostante. A livello esecutivo la cantante se la cava meglio di quanto avremmo pensato, nonostante un paio di cali leggerissimi, mentre il muro sonoro alle sue spalle regge i colpi e di fatto permette alla band di congedarsi con un sentito applauso di conferma, anche da parte nostra.
Il main event di oggi sono i mitici heavy metaller statunitensi HELSTAR, guidati come sempre dal signore di tutti i vampiri James Rivera, la cui voce, lo diciamo subito, sembra non voler sapere di soffrire, anche solo leggermente, i segni del tempo che trascorre, esattamente come la sua spiccata capacità di interagire verbalmente col pubblico. Non a caso, dopo la iniziale “Dark Incarnation (Mother Of The Night)” dalla recente compilation “Clad In Black”, egli si rende fautore di un simpatico siparietto in cui annuncia il programma dello show, garantendo l’esecuzione dei pezzi provenienti dai primissimi due album, ma anche sincerandosi che gli astanti non disdegneranno di certo inni immortali come “Winds Of War”, “The King Is Dead” o “Baptized In Blood”, provenienti dal periodo immediatamente successivo. Personalmente, non avremmo potuto chiedere niente di meglio a James e soci, dal momento che lo show scorre via con una potenza notevole e i brani selezionati non hanno perso una sola virgola del proprio spessore.
Ogni membro fornisce un’ottima prova e ci ha positivamente stupiti il più recente ingresso alla chitarra Andrew Atwood, dotato di una notevole tecnica con la mano sinistra sul piatto corde, pur senza nulla togliere all’ormai storico Larry Barragàn. Sono ben quindici i brani collocati in scaletta, con dei picchi elevatissimi raggiunti in concomitanza delle varie “Remnants Of War”, “Burning Star” e “Run With The Pack”, così come dei sopra menzionati estratti dal terzo e dal quarto album, da molti ritenuti i veri capolavori della band.
Il riscaldamento è ormai finito, l’ora si fa tarda e a noi serve un letto dove riposare dopo il viaggio, nonché dopo questo breve assaggio della goduria di cui si comporranno i prossimi giorni.
GIOVEDÌ 20 APRILE
Per la prima giornata di festival si parte proprio da oltreoceano a suon di heavy metal classicissimo con gli americani BLOOD STAR, con alla voce la biondissima Madeline Smith e alla chitarra Jamison Palmer dei Visigoth (che si esibiranno più tardi). Parliamo anche in questo caso di una formazione esordiente, la cui opera prima “First Sighting” risulta disponibile sul mercato appena pochi giorni prima dell’inizio del festival, che in questo caso rappresenta l’occasione perfetta per testare la resa live di una selezione di brani invero piuttosto convincente, nonostante qualche incertezza esecutiva in fase di assolo. Il quartetto tiene bene il palco e si nota l’esperienza accumulata da Jamison quando si tratta di essere spontaneo sul palco, mentre Madeline appare parzialmente più emozionata, confezionando comunque una buonissima prova, sugli inediti così come sulla graditissima cover di “Wild Child” degli W.A.S.P., che in questo momento ci mette un po’ di amaro in bocca, dopo l’annullamento delle date italiane a causa di problemi di salute di Blackie Lawless.
Si rimane sulla voce femminile e negli States coi SANHEDRIN, dediti anch’essi a un’ottima miscela di elementi tipici dell’heavy metal, con in più una sapiente spruzzata di elementi anni ’70, ben amalgamati comunque in un sound che spinge forte.
Trattandosi di un trio bisogna ammettere che il tiro generale, trasmesso con brani dalle velocità variabili, non è assolutamente da sottovalutare: l’inizio con “Riding On The Dawn” e “Wind On The Storm” mantiene un timing medio e quasi rockeggiante, ma già con “Blood From A Stone” si iniziano a vedere gli artigli della band guidata dalla frontwoman Erica Stoltz, impegnata anche nell’esecuzione sulle quattro corde del basso. Il suo timbro nelle fasi più arrabbiate ci ricorda parzialmente quello della nostrana Federica De Boni dei White Skull, e bisogna ammettere che il songwriting sfoggiato nei dieci brani che compongono la setlist si dimostra funzionale e accattivante, culminando nella breve e velocissima “Scythian Women”, su cui la band si congeda con fare adrenalinico. Come di consueto, non avrebbe guastato una seconda chitarra, ma tutto sommato anche il solo Nathan Honor con la sua Les Paul è più che sufficiente.
Meno convincenti i thrasher svedesi MEZZROW, il cui ritorno discografico sulle scene, avvenuto quest’anno con l’album “Summon Thy Demons”, non ci ha fatto esattamente impazzire, e lo stesso si può dire per la performance live: i pezzi provenienti dal loro unico album iconico “Then Came The Killing”, datato 1990, risultano gradevoli e proposti con una buona dose di grinta, pur sfoggiando una presenza scenica che non coinvolge più di tanto, mentre gli estratti più recenti soffrono parecchio il confronto con quanto composto prima, finendo col rendere il concerto una sorta di saliscendi qualitativo, e se consideriamo che questi occupano la quasi totalità della setlist, si può capire bene il nostro disappunto. Ci scappa qualche headbanging sulla titletrack del sopracitato lavoro composto oltre trent’anni fa, così come su “Ancient Terror”, ma per il resto, a livello di fomento puro, non giunge quella botta in cui avremmo confidato. Peccato, anche perché parliamo della prima thrash metal band di questa edizione, e va da sé che i prossimi dovranno impegnarsi per tenere alta l’efficacia del genere.
Secondo giro per i canadesi SMOULDER di cui vi abbiamo già parlato nel trafiletto dedicato al warm-up, tornati oggi per sostituire i Witchfynde, impossibilitati ad esibirsi per via di un cluster di Covid-19 avvenuto tra le fila della band. Lo show degli Smoulder si discosta poco da quello proposto la sera prima, dove peraltro la band ci è parsa più a suo agio rispetto a oggi, forse per via dell’emozione che può provocare essere sul main stage di uno degli eventi più amati del genere. La vera chicca odierna è rappresentata da “Shadowy Sisterhood”, collocata in scaletta al posto di “Sword Woman”, ed eseguita on stage con la presenza in veste di ospiti di altre tre cantanti presenti in loco, incluse quelle delle prime due band di oggi, che tuttavia impallidiscono nel momento che al loro fianco si palesa la possente Amy Lee Carlson dei Solicitor, ma ne parleremo meglio in occasione della sua esibizione, prevista per il terzo giorno.
Prima realtà inglese a esibirsi sono i SWEET SAVAGE, di cui francamente si era un po’ perso il ricordo, considerando che parliamo di una band con all’attivo due soli full-length usciti negli anni ’90, ma i cui brani di maggior successo risalgono al primo demo datato 1981, in piena new wave of british heavy metal; uno in particolare è “Killing Time”, qui proposto come chiusura e a noi familiare grazie ai Metallica, che ne hanno fatto una cover a suo tempo. Decisamente un’operazione per pochi, insomma, e la poca affluenza presente durante il loro concerto ne è una discreta testimonianza, malgrado i tre membri della band facciano il possibile per metterci del loro, sfoggiando un’attitudine che ci è parsa onestamente un po’ artificiosa e con qualche connotazione quasi punk, più che metal. La scaletta proposta rispecchia a sua volta la natura del progetto ora come ora, trasmettendo sì alcune sensazioni positive, ma anche facendo sembrare il tutto una sorta di jam session tra amici, anche per via dell’esecuzione a tratti un po’ dilettantesca e dei suoni non dotati del giusto gain. Simpatici, ma anche dimenticabili.
Torniamo in territorio statunitense in compagnia dei GRIFFIN, anch’essi non esattamente semplici da vedere in sede live e portatori di un nome generalmente associato a un cartone animato ormai spremuto all’inverosimile, ed è un peccato se consideriamo che al leader William McKay si deve la stesura di due grandissimi album di genere old school power/speed metal degli anni ’80.
Nuovamente dieci i brani presenti in scaletta, interpretati dal simpatico vocalist ed eseguiti da un combo di musicisti provenienti da diversi angoli dell’underground, inclusi Andreas Neuderth (ex Manilla Road) e l’accoppiata basso/chitarra dei Masters Of Disguise Mario Lang e Eric Kaldschmidt. Il primo trittico proviene interamente dal secondo album “Protectors Of The Lair”, con un risultato convincente sin da subito e dotato di un tiro che rispecchia perfettamente quello che vogliamo percepire di fronte al palco del Keep It True, a scanso anche in questo caso di un paio di incertezze sul versante vocale – ma non trattandosi di una band che macina live ogni sera è una sbavatura che si può perdonare. Col procedere dello show c’è posto persino per qualche capatina ai primissimi demo, anche se le attenzioni maggiori sono tutte per l’iconica “Heavy Metal Attack” e per la conclusiva “Hell Runneth Over”, che nel loro piccolo rappresentano degli inni per tutti coloro che hanno deciso di scavare sotto la superficie della musica metal. Probabilmente non li annovereremo tra i migliori del festival, ma sicuro lo show viene portato a casa con ottimi risultati, anche sul versante del gradimento da parte del pubblico.
Trovandoci in Germania ci fa piacere assistere allo show di qualche band locale, e gli speed/heavy metaller TYRANT sono qui per questo, oltre ad incrementare la già notevole dose di adrenalina che inizia a pervaderci in attesa dei piatti forti di oggi. Ad eccezione del chitarrista Ingo Autenrieth la formazione è la stessa ormai da oltre trent’anni, e l’affiatamento che sussiste tra questi signori appare palpabile, così come il loro divertimento nell’esecuzione di una scaletta dalla carica metallica notevole. Oltre agli immancabili classici come “Get Ready”, “Killer Cat” e “Free For All”, la band ci fa dono di ben due nuovi estratti, che ci auguriamo verranno presto inseriti in un nuovo album, considerando che ne manca uno nuovo ormai dal 1990. Essendo ormai giunta la sera, notiamo con piacere che il livello generale sembra essersi decisamente alzato col procedere della giornata, e a parte qualche problema tecnico qui e là, incluso un momento in cui la chitarra si scollega per qualche secondo durante un assolo, bisogna ammettere che Jurgen Kerner e compagni riescono a esaltarci in maniera ottimale, senza inciampi esecutivi di sorta.
Il trittico finale di questa prima giornata di festival inizia con gli americani HALLOWEEN, che quest’oggi hanno in programma l’esecuzione integrale del loro capolavoro storico “Don’t Metal With Evil”, promessa che non solo viene rispettata, ma anche esaltata all’inverosimile grazie alla prova migliore della giornata, almeno finora. Il vocalist munito di ossa Brian Thomas appare percettibilmente migliorato rispetto alle occasioni scorse, e insieme al bassista George Neal ormai sono una piccola istituzione del sottobosco musicale. Oltre a ciò, l’aver scelto di circondarsi di musicisti più giovani ha decisamente ripagato: la grinta trasmessa e la precisione esecutiva sono infatti maiuscole, in particolare per quanto riguarda il duo di chitarre, che mette in campo tutti i possibili benefici della gioventù in uno show che scorre liscio e pregno di fasi esaltanti. Oltre al sopracitato lavoro iconico, c’è posto anche per qualche brano di provenienza esterna, come la iniziale “Traipsing Through The Blood” e la conclusiva “Black Skies”, che incarnano alla perfezione il sound heavy metal di Detroit, di cui gli Halloween sono degni ambasciatori.
Tra le formazioni più amate della new wave of traditional heavy metal figurano senza dubbio i VISIGOTH, anch’essi provenienti dall’America e dediti ad un epic metal che oramai ha bisogno di ben poche presentazioni, come dimostrato dalla calorosa accoglienza ricevuta dai loro album, così come dalla band stessa quest’oggi. Inoltre, non dimentichiamoci che parliamo di una delle realtà più amate dai metal gamers (come chi scrive), anche grazie all’eEP dedicato alla saga di “Dark Souls” (proposto parzialmente quest’oggi) e/o a pezzi come “Steel & Silver”, il cui testo narra le gesta dello strigo Geralt di Rivia. Il frontman Jake Rogers si presenta sul palco munito di gilet colmo di toppe, ed è proprio col brano da noi appena menzionato che lo show inizia, mandando in visibilio tutti i presenti, orgogliosi peraltro di assistere allo show di una band giovane in una posizione tanto avanzata del bill. Nonostante un attimo di debolezza fisica dello stesso Jake verso tre quarti di concerto, siamo fieri di affermare che i Visigoth non mollano un colpo fino alla fine, toccando l’apice sulle varie “Dungeon Master”, “Warrior Queen” e “Mammoth Rider”, scelta dal pubblico a scapito di “Salt City”.
Ora però, come ci piace spesso dire in casi analoghi, vogliamo uno stramaledetto disco nuovo!
La presenza di una realtà nota a (quasi) tutti come i SODOM al Keep It True ha fatto discutere parecchio, essendo un evento generalmente dedicato a proposte più di culto, però è anche vero che parliamo comunque di una delle più grintose e storiche thrash metal band del panorama teutonico e mondiale, come confermato anche alcuni mesi fa in occasione dell’ultima edizione dei Metalitalia.com festival.
La scaletta ha connotazioni simili, ma è con entusiasmo che ci rendiamo conto delle (poche) sorprese riservateci da messer Tom Angelripper: a partire dal ritorno in sede live di “Let’s Fight” dopo quasi quarant’anni di assenza, fino alla cover di “Leave Me In Hell” dei Venom, che delizia lascia i presenti con un sorriso ben saldo sul volto. Si poteva forse fare qualcosa di più sul fronte delle chicche, e ci dispiace che alcuni pezzi originariamente previsti non sono poi stati suonati, probabilmente per questioni di tempo, tra cui “Exhibition Bout” e “Persecution Mania”, ma uno show dei Sodom è sempre e comunque garanzia di brutalità e ferocia, irrinunciabili per tutti coloro che ancora masticano pane e thrash metal.
Se consideriamo che, malgrado quello che potrebbe sembrare a chi è abituato al pogo, il Keep It True non è propriamente la patria del moshpit, vedere fior di circle pit – alimentati dalle ritmiche di “Nuclear Winter”, “Agent Orange” e “Bombenhagel”, che per un attimo abbiamo temuto fosse stata tagliata dalla scaletta – è sempre un gran bel vedere. Detta come va detta, se volete divertirvi menando le mani su ritmi serrati e riff granitici, i loro concerti, patrimonio storico del metallo europeo, rappresentano un autentico toccasana.
VENERDÌ 21 APRILE
Per la seconda volta partiamo da oltreoceano con l’epic metal dei FER DE LANCE, il cui esordio ci è piaciuto moltissimo, riempiendoci di curiosità in vista della nostra prima volta ad un loro live. I ragazzi della Cruz Del Sur non sbagliano pressoché mai nell’accogliere nuove proposte sotto la propria etichetta, e anche stavolta notiamo che dal vivo i pezzi presenti nel gradevolissimo “The Hyperborean” rendono bene le suggestive atmosfere cui la band ambisce. Peraltro è particolare notare che, a fianco delle due chitarre elettriche, ne è sempre presente una acustica, oramai diventata quasi una sorta di tratto distintivo. L’esecuzione non appare purtroppo pulita come avremmo voluto e si nota un po’ di acidità nelle fasi soliste e/o negli acuti da parte del frontman MP (sì, si fa chiamare così), ma ci pensano fortunatamente le canzoni a tenere alto il livello. E poi, come si fa a non promuovere lo show di una band che si presenta sul palco del Keep It True con le t-shirt di Moonsorrow e Borknagar per poi proporre, in fase conclusiva, una cover modificata e riarrangiata del capolavoro “Hall Of The Mountain King” dei Savatage?
Considerando il pacco tirato dai Loudness, speravamo che i loro connazionali GENOCIDE NIPPON potessero compensare adeguatamente, ma purtroppo ci sbagliavamo: lo show messo in piedi da questi musicisti nipponici inizia fiacco e, di fatto, finisce ancora più fiacco, intaccato da un’esecuzione tecnicamente molto sporca e poco spontanea sul versante scenico, in totale contrapposizione con quanto generalmente propongono le virtuose realtà giapponesi. La scaletta di fatto non prende mai il volo e si nota un’impostazione quasi artificiosa, soprattutto da parte del vocalist Toshihiro Takeuchi, che per quanto agghindato di borchie e catene come un albero di Natale fornisce una prova dal sapore anche troppo amatoriale. Poco a che vedere con quanto fatto ad esempio dagli Anthem sullo stesso palco qualche anno fa. A conti fatti, senza spendere altre parole in merito, riteniamo questa la vera delusione del festival.
Nettamente migliore la situazione coi WITCHSLAYER da Chicago, che sono riusciti solo nel 2022 a immettere sul mercato un full-length, nonostante la loro formazione risalga all’inizio degli anni ’80. Parliamo peraltro un lavoro di qualità non indifferente, che in questa esibizione trova il proprio compimento dal vivo, soprattutto grazie al combo di musicisti assemblato dal vocalist e unico membro originale Jeff Allen: tra questi figurano anche il batterista Gabriel Anthony, membro attivo della band solista di David Shankle, e ben due membri dei gradevoli Damien Thorne. Il sound in perfetto bilico tra heavy, thrash e doom dei Witchslayer giunge quasi a sorpresa per molti presenti, che si mostrano piacevolmente coinvolti e ipoteticamente vogliosi di scoprire di più su questa realtà, che ha visto per decenni nel proprio demo una piccola fonte di views da parte degli appassionati. Pur tendendo bene l’orecchio in attesa delle proverbiali sbavature, di queste non vi è traccia per tutto il concerto, confermando di fatto la partecipazione di questa piccola realtà da cultori come un colpo vincente.
Anche i britannici TRESPASS rientrano di diritto tra le formazioni la cui esistenza trova senso principalmente nell’affezione da parte di determinati appassionati, però in questo caso si nota una spontaneità maggiore rispetto a chi li ha preceduti, anche perché non parliamo di una band improduttiva, considerando che dal momento della reunion abbiamo avuto ben tre album per le mani col loro nome in copertina. Chiaramente, considerando l’occasione, il grosso della scaletta pesca dalla compilation “The Works” del 1990, che consigliamo a tutti gli interessati di recuperare, anche se un paio di pezzi recenti come “Bloody Moon” e “Live Like A King” vengono collocati nel corso dell’esibizione. Chi apprezza la new wave of british heavy metal e le sue diramazioni meno commerciali trova indubbiamente pane per i suoi denti con i Trespass, che con le loro soluzioni rockeggianti stimolano un po’ di sano movimento, seppur senza spiccare mai oltre una certa soglia qualitativa. La classica esibizione non imprescindibile, ma comunque apprezzabile, magari bevendo una birra da una posizione comoda.
Show con un doppio target quello a nome TROJAN/TALION, in quanto la scaletta proposta pesca dal repertorio di entrambi i periodi di questa storica formazione inglese, che dopo quel mezzo capolavoro di “Chasing The Storm” del 1985 si è vista costretta a cambiare per ben due volte il proprio nome, confezionando un altro ottimo lavoro come “Killing The World” appena quattro anni più tardi. Ci aspettano quindi tre quarti d’ora in cui rivivremo proprio i momenti salienti dei due lavori in questione, e in effetti basta l’iniziale titletrack del secondo citato per farci drizzare le antenne in attesa di sentire cos’hanno in serbo per noi i simpatici Greame Wyatt e Pete Wadeson. Si nota sicuramente sin da subito quell’accenno di sporcizia dato da una band non abituata a macinare concerti, però la sostanza abbonda e i pezzi risultano davvero cazzuti e fomentanti ancora oggi, nonostante un calo prevedibile anche dell’estensione vocale e della manualità sul manico della chitarra. Mettiamola così: ci sono esibizioni che si possono apprezzare o odiare per motivi diversi, in questo caso parliamo di due realtà dimenticate da tanti, ma non da noi, e quindi poter sentire una volta nella vita quelle canzoni per noi rappresenta una valida emozione, malgrado le suddette spigolosità.
La vera sorpresa della giornata è rappresentata dai MESSIAH FORCE dal Canada, che col loro speed/power alla vecchissima maniera e suonato con professionalità e cura riportano tutto in una dimensione più pulita e di alto livello. La minuta, ma comunque grintosissima vocalist Lynn Renaud si presenta sul palco sorridente ed emozionata per la possibilità di tornare a smerigliare un po’ di acciaio dinnanzi a un pubblico iconico anche più della band stessa, ossia quello del Keep It True. Un unico album all’attivo, peraltro di inestimabile qualità, intitolato “The Last Day”, per una scaletta che praticamente lo ripropone nella sua interezza, seppur con un’ordine diverso dei brani, il tutto con una forza inaspettata e una capacità di coinvolgimento che non ci farebbe strano trovare in formazioni di professionisti con centinaia di concerti all’attivo: non ci sono note fuori posto, gli assoli sono ben suonati e la sezione ritmica stimola headbanging con un’energia ancora non sprigionata da nessuno oggi. Inoltre, ci teniamo a far notare che abbiamo dinnanzi i cinque membri originali, e non dei professionisti giunti appositamente, il che rende tutto ancora più pregevole, alimentando in noi la speranza di un nuovo album nel prossimo futuro.
L’accoppiata epic heavy/doom prevista per le prossime due ore inizia con gli SLOUGH FEG e con quel matto di Mike Scalzi, che con la sua presenza scenica folle e movimentata meriterebbe il premio come miglior frontman dell’intera edizione, perlomeno se vi piacciono le presenze scatenate sul palco. Il livello si sta nuovamente alzando man mano che ci avviciniamo agli atti principali, e con “Headhunter” e “Sky Chariots” il passo indietro verso gli anni ’90 appare gestito alla perfezione, pur senza nulla togliere a “Uncanny” e agli estratti meno datati, dove peraltro tira fuori la rauca ugola anche il bassista Adrian Maestas. Lo show degli americani regge che è una bellezza, non limitandosi a preparare il terreno di battaglia per gli schieramenti successivi, ma lasciando un solco notevole e che verrà senza dubbio ricordato una volta terminata l’edizione. C’è posto persino per una cover di “Hey, Out There!” di Charles Napier, direttamente da Star Trek, un vero tocco di classe per la gioia di tutti gli appassionati presenti, durante la quale il vulcanico Mike si lancia direttamente di fronte alla transenna, rendendo perfettamente giustizia alla sua inesauribile energia prima di chiudere con “High Passage/Low Passage”.
Il clima inizia ad incupirsi, in tutti i sensi, nel momento in cui i britannici PAGAN ALTAR si apprestano a calcare il palco con la loro sapiente miscela tra heavy metal inglese e doom metal nella sua prima incarnazione. Parliamo di una band a dir poco seminale, anche se molti ne ignorano l’indiscutibile valore storico, e in quanto tale è chiaro che le aspettative sono invero piuttosto alte; da parte nostra ci auguriamo che il chitarrista e leader Alan Jones faccia del proprio meglio. Il concerto si apre col pezzo omonimo, e il risultato appare più che positivo sin dai primi rintocchi, esattamente come la pulizia dell’esecuzione, e sebbene il tempo a disposizione non sia molto ammettiamo che quanto presentato dinnanzi ai nostri occhi ci convince e ci ribadisce il sottovalutato valore dei Pagan Altar, che se c’è da evocare atmosfere dalle tinte magiche ed occulte sono ancora maestri. Anche se il demo del 1983 e il primo full-length “Volume 1” di quindici anni dopo sono le gemme che sono, ci fa molto piacere sentire estratti dalle opere seguenti, tra cui “The Cry Of The Banshee” e “Daemoni Na Hoiche (Demons Of The Night)” dall’album “Mythical & Magical”.
Brendan Radigan si conferma peraltro un ottimo frontman, e tutti i presenti restituiscono un ottimo feedback, confermando quella attuale come un’esibizione da annoverare tra le più convincenti di oggi, anche se saranno i prossimi ad emozionarci più di tutti gli altri.
Parliamo dei FIFTH ANGEL e del loro ritorno al Keep It True dopo relativamente poco tempo dall’ultima volta, che irrompono nell’impianto, con la loro miscela tra heavy/power e hard rock made in U.S., spingendo duro sui bpm grazie a “The Night” e “In The Fallout”, che fanno esplodere l’audience a suon di headbanging e persino stimolando un abbozzato moshpit da parte di noi italiani scatenati e tamarri.
Proseguendo ci si discosta parzialmente dal primo capolavoro omonimo, toccando anche l’ottimo seguito “Time Will Tell”, la cui title-track viene cantata a gran voce, e persino il recente e validissimo “The Third Secret”, di cui ora è in dirittura d’arrivo il seguito, del quale vengono proposti ben due inediti. Ciò nonostante, il grosso della tracklist è dedicato al mitico esordio, che non fatichiamo a collocare tra le uscite più sottovalutate di sempre, e se ci aggiungiamo un’esecuzione maiuscola dal vivo da parte di un combo di musicisti che ha visto il recente ingresso di un frontman come “Steven Carlson”, con in più il contributo del chitarrista Ethan Brosh, si può ben capire la goduria trasmessa. Per quanto i Pagan Altar abbiano fatto uno show davvero ottimo, riteniamo che oggi nessuno possa fare meglio dei Fifth Angel, nemmeno chi suonerà tra poco in veste di headliner.
Un’affermazione forte e senza dubbio controversa la nostra, ma per quanto i CIRITH UNGOL siano un autentico mito dell’epic metal mondiale, dobbiamo ammettere che due ore di concerto da parte loro a fine giornata ci sono parse anche troppe, con un risultato a tratti un po’ prolisso e non sempre all’apice dell’esaltazione possibile. Se a questo aggiungete che sono mancati un paio di estratti a noi molto cari, tra cui la bellissima “Edge Of A Knife”, avrete buona parte dei tasselli per comprendere il nostro parziale disappunto.
Tuttavia è importante chiarire che si tratta di una considerazione strettamente personale e non assoluta, dato che è impossibile non riconoscere l’enorme miglioramento fatto dalla band guidata da Tim Baker negli anni successivi alla reunion, che in quest’edizione si mostra più sciolta e spontanea rispetto alla loro apparizione nel 2018 sullo stesso palco.
Molto apprezzata l’idea di avviare il concerto col nuovo brano “Velocity”, così come di chiuderlo con la cover di “Fire” di The Crazy World Of Arthur Brown, mentre nel mezzo trova posto una lunga selezione di brani provenienti da tutti gli angoli della discografia del combo statunitense, inclusi classici come “Frost & Fire”, “Blood & Iron” e “King Of The Dead”, ma anche estratti da quella specie di miracolo recente che risponde al titolo “Forever Black”.
Un repertorio che, a titolo personale, riteniamo dovrebbe trovare posto nella libreria di ogni metallaro che rispetti. Il risultato è sicuramente suggestivo e degno di un applauso da parte di molti dei presenti (nonché ipoteticamente di quel Elric di Melniboné che mette il volto su tutte le loro copertine), ma che a momenti alterni ci ha provocato qualche sbadiglio di troppo, soprattutto dopo l’esaltazione massima trasmessa dai loro connazionali appena sotto di loro nel bill.
SABATO 22 APRILE
Per la terza e ultima volta cominciamo con una band di formazione statunitense, e per la seconda volta con una realtà appartenente ai ranghi della nostrana Cruz Del Sur. “We are SOLICITOR, we play heavy metal and we play it fast!“: questa è la frase con cui la possente e diabolica vocalist Amy Lee Carlson presenta la sua band, e in effetti si tratta di un’ottimo riassunto dello show con cui questo quintetto di metallari invasati sveglia il pubblico, probabilmente ancora pieno di postumi dall’aftershow della sera precedente. Il sound dei Solicitor, che ci ha pienamente convinto su disco al tempo dell’uscita dell’esordio “Spectral Devastation”, è heavy/speed all’ennesima potenza, con una selezione di brani su basi ritmiche a rotta di collo, pregni però di una sorta di alone battagliero, evidenziato in trovate musicali come i blastbeat così come, banalmente, dalla spada con cui la sopracitata frontwoman si presenta on stage. Gli otto pezzi selezionati sono adrenalina e acciaio purissimi, suonati con professionalità e precisione, e personalmente sono queste le band che vogliamo vedere ora come ora: giovani e furibonde come vorrebbero i grandi miti della nostra musica preferita! E vogliamo parlare dell’attitudine? Vi basti sapere che la band ha passato tutto il festival a far casino in mezzo al pubblico, e una volta finito il concerto li ritroveremo nuovamente vicino a noi a bere e scapocciare come dannati.
Discorso simile, e se possibile ancora più sanguinario, per quanto riguarda i tedeschi VULTURE, divenuti già da qualche anno una degna avanguardia dello speed metal mondiale. Li abbiamo già visti in passato di supporto ad altre realtà, ma bisogna ammettere che sul palco del Keep It True i ragazzi si presentano con una rabbia ferale che non avevamo mai saggiato prima da parte loro, confezionando uno show devastante e tirato oltre l’inverosimile, tanto da mandarci in fiamme il collo, visto che insieme a chi li ha preceduti questi defender hanno davvero spaccato il cosiddetto a tutti i presenti, mettendo in chiaro che le giovani leve nel metal ci sono, e hanno una gran fame! L’unica critica che avremmo da muovere loro è che la setlist pesca esclusivamente dal primo e dal terzo lavoro, lasciando del tutto in disparte il secondo e riuscitissimo “Ghastly Waves & Battered Graves”, di cui avremmo gradito sentire almeno un paio di estratti. La chicca finale con la cover di “A Lesson In Violence” degli Exodus però è una ciliegina sulla torta coi fiocchi!
Gli inglesi ELIXIR sono probabilmente una tra le realtà più sottovalutate della NWOBHM, e noi lo sappiamo molto bene in quanto il loro album “The Son Of Odin” del 1986 è ancora oggi una perla di ottima fattura, e anche le uscite post fine anni ’90 non sono affatto male. In questa sede, nei tre quarti d’ora a disposizione, la band mette in mostra forse qualche leggero limite, inclusa una chitarra solista un po’ titubante già nella iniziale “The Star Of Beshaan”, ma anche tanta classe e un sound heavy metal britannico con punte epiche degno del massimo rispetto, anche se forse un po’ di gain in più non avrebbe guastato. Paul Taylor alla voce rende ancora benissimo, con gli Elixir come con i Desolation Angels, e la band che ormai lo accompagna dalla prima metà degli anni ’80 (escluso il bassista di recente ingresso Mark Mulcaster) si mostra affiatata e con una buona attitudine. Anche in questo caso non sarà un’esibizione di cui ci ricorderemo con troppo affiatamento, ma sentire dal vivo pezzi come “Hold High The Flame” e “Treachery (Ride Like The Wind)” ha indubbiamente il suo perché.
I loro colleghi e connazionali MARQUIS DE SADE sono forse uno degli esempi maggiori di band tornata in auge grazie all’interessamento degli appassionati: vi basti sapere che la compilation “Somewhere Up In The Mountains” datata 2012 è uscita di fatto postuma, in quanto la band ha originariamente cessato la sua attività dopo il primissimo singolo all’inizio degli anni ’80.
Nel 2019 però tre dei membri originali, inclusi i fratelli Gordelier, han ben pensato di riunirsi, e quest’oggi sono qui a proporci la loro interessante interpretazione del genere su cui è basato l’intero festival: una interessante commistione di heavy metal originale, hard rock in stile Deep Purple e persino progressive rock anni ’70 con tanto di tastiere. Il risultato ci stupisce sin da subito, e nonostante ci fossimo accomodati sugli spalti per riposare in vista di chi suonerà dopo non abbiamo esitato ad alzarci in piedi per fornire il nostro sostegno a questi signori, che contro ogni previsione si rendono protagonisti di un concerto che definiremmo intelligente e accattivante. La title-track della compilation sopracitata peraltro è davvero un pezzo bellissimo, e ci fa piacere che molti presenti diano fondo alla propria ugola nel momento della sua esecuzione.
Se dovessimo parlare di una autentica band rivelazione, in questo caso la nostra scelta ricadrebbe sui thrasher belgi CYCLONE, cui inizialmente reagiamo con relativa indifferenza, salvo poi essere completamente pettinati e sbalzati a terra non appena il loro sound terremotante irrompe fuori dall’impianto. Un’idea avrebbe potuto fornircela la presenza del chitarrista dei macellai connazionali Butcher, ossia Kevin Verleysen, ma incredibilmente il vero mostro on stage è il suo collega e membro attivo dal 1985 Stefan Daamen, cui esteticamente non avremmo dato una lira, ma che mostra una mano destra che è letteralmente uno stramaledetto rasoio, con una pennata da thrasher precisa e chirurgica, volta a rappresentare l’aggressività e la forza degli estratti dei due full-length disponibili “Brutal Destruction” e “Inferior To None”. In generale siamo davanti alla perfetta rappresentazione del thrash metal old-school proposto con accuratezza granitica e suoni demolitivi, portando il pubblico a riempire immediatamente la location con lo stupore in volto, per poi scatenarsi nel moshpit più grande dell’intera edizione, incitati dal frontman e fondatore Guido Gevels. Non c’è nemmeno un elemento fuori posto e, una volta finito il concerto, ci fiondiamo al metal market a chiedere se qualcuno ha disponibili due copie dei sopracitati album composti dai Cyclone, che consigliamo immediatamente anche a tutti voi.
Ancora Inghilterra e nuovamente heavy metal insieme agli SLANDER, band che onestamente ci stupisce trovare così in alto nel bill, in quanto non ci sembrava né una realtà popolare, né un qualcosa di troppo caro ai cultori per essere lasciata indietro. In effetti, lo show presentato ci lascia un minimo perplessi, non tanto per una effettiva mancanza di qualità, ma perché in generale traspare un livello di compattezza inferiore a chi li ha preceduti. L’esecuzione appare ben più sporca, soprattutto al sopraggiungere degli assoli di chitarra, i pezzi coinvolgono di meno e si nota un leggero abbassamento dell’asticella, ma è anche vero che nessuno si aspettava dai Cyclone un’esibizione tanto devastante. Nel momento in cui viene rievocato l’album “Careless Talk Cost Lives” si alza parzialmente l’indice di gradimento, in quanto si tratta comunque di un discreto cult, ma continuiamo ad avere un vago senso di amarognolo in bocca per pressoché l’intero concerto; pur facendo un plauso al frontman Martin Moffwood per la sua ottima interazione col pubblico. Inoltre, se pensiamo che lo show in questione funge da antipasto per un poker finale da panico, è inevitabile che quanto fatto dagli Slander non riesca a reggere il confronto, e a giudicare dalla quantità di gente intenta a concedersi una pausa nella zona esterna, è probabile che non siamo i soli ad aver avuto questa impressione.
Il nome HAILMARY potrebbe non dirvi niente, ma sappiate che ciò che ci si para di fronte ora come ora è probabilmente l’incarnazione più fedele dei mitici Leatherwolf cui è possibile imbattersi, nonostante il nome sia ancora di proprietà del batterista Dean Roberts. Non a caso è quel gran bell’uomo di Michael Olivieri ad occupare la posizione del frontman, imbracciando e appoggiando la chitarra in base al brano e svolgendo il proprio compito con eleganza e possanza, accompagnato per l’occasione da un combo di ex componenti della medesima band, attorno alla quale ruota attorno anche l’intera setlist: undici pezzi provenienti da un repertorio tanto sottovalutato quanto storico, degno ambasciatore di quel perfetto punto di incontro tra heavy metal e hard rock californiano. Dalla iniziale “Spiter”, passando per le varie “Endangered Species”, “Too Much”, Hideaway”, “Thunder” e quant’altro, fino a culminare nelle immancabili “The Calling” e “Wicked Days”, con in più una menzione all’album proprio degli Hailmary, grazie al brano “Killing My Dreams”. Uno show atteso da moltissimi astanti, che ripaga perfettamente il desiderio di immergersi nuovamente nella discografia dei Leatherwolf insieme a una line-up che ne incarna perfettamente l’essenza, anche più di quella che da anni si porta appresso il nome, senza però restituire lo stesso feedback.
Con l’incarnazione più fedele degli Acid, denominati in questo caso KATE’S ACID, inizia l’ultimo tris finale che inizia già a farci sognare, soprattutto nel momento in cui lo speed metal made in Belgium ci colpisce in pieno volto, suonato in questo caso da una formazione giovane e colma di energia, volta a valorizzare l’indiscutibile valore storico rappresentato dalla piccola e simpatica frontwoman con la chioma rossa Kate De Lombaert, che appare on stage sulle note del pezzo che dà il nome alla band stessa.
Tre sono gli album degli Acid, e la scaletta non ne risparmia nemmeno uno, componendosi di fatto di quasi tutti gli estratti più ganzi e fomentanti della loro breve, ma comunque illustre, carriera metallica. C’è posto anche per una gradevolissima cover di “Stand Up And Shout” del sommo Ronnie James Dio, ma nonostante si tratti di un autentico inno immortale e indissolubile, le nostre attenzioni sono tutte per fucilate come “Hell On Wheels”, “Exterminator” e la conclusiva “Max Overload”, che sancisce la fine di un concerto tra i più divertenti e fomentanti dell’intero festival, sorretto peraltro da una guerriera che non vuole proprio saperne di abbandonare il campo di battaglia, continuando a impugnare le sue armi al meglio della propria forma e con la dovuta intelligenza, come testimoniato dal battaglione di giovani audaci che mietono vittime insieme a lei, concedendole anche qualche dovuta pausa tramite l’ausilio di un paio di assoli volutamente allungati.
I nostri personali ‘most wanted’ di oggi sono gli statunitensi VICIOUS RUMORS, che promettono uno show incentrato sui classici del loro periodo più amato. I primi album composti da Geoff Thorpe e soci sono degli autentici capolavori, e nonostante i numerosi cambi di line-up che hanno colpito la band nel corso degli anni siamo felici di ammettere che il risultato, questa band, lo ha sempre portato a casa con tutta la grinta necessaria.
In questa sede si nota la cura che è stata messa nella scelta dei nuovi membri, di cui gli ultimi giunti sono il bassista Robin Utbult e cantante Ronny Munroe, già ben noto nel panorama per via della sua sfilza di partecipazioni all’interno di progetti dal piglio non indifferente, tra cui i Metal Church, e che onestamente ci pare una delle migliori scelte che si potessero fare. Con “On The Edge” e “Abandoned” inizia il proverbiale devasto, malgrado un volume della voce inizialmente non tarato alla perfezione, e noi ne approfittiamo subito per iniziare a pogare come infami, trascinati dai riff demolitivi partoriti da una coppia di asce degne di un plotone di barbari, ma soprattutto da una scaletta che sembra finire decisamente troppo presto. Impossibile non volerne ancora quando sono capolavori sottovalutati come “Digital Dictator”, “Hellraiser” o banalmente “Don’t Wait For Me” a caratterizzare lo show di una delle migliori heavy/power band della storia, al punto tale che continuiamo a non capire come abbia fatto a non divenire molto più popolare nel panorama metal mondiale.
L’ultimo headliner della ventitreesima edizione del Keep It True è il mitico ex vocalist dei Queensryche GEOFF TATE, che quest’oggi ha in programma un concerto diviso essenzialmente in due tronconi ben definiti: una prima metà in cui verrà eseguito per intero il secondo album della band originale, ovvero “Rage For Order”, da molti considerato uno dei primi lavori di genere progressive metal della storia. Per quanto riguarda la seconda, il noto frontman ha deciso di giocare sul sicuro, proponendo ancora una volta il capolavoro “Operation: Mindcrime”, con in più una fase finale a sorpresa. Personalmente, riteniamo che entrambi i prodotti presentati siano meritevoli del titolo di pietre miliari, ma dobbiamo ammettere che la prima parte, complice anche l’orario e la posizione tarda nel bill, ci è risultata parzialmente più pesante da trascorrere, mentre sulla seconda ci siamo rianimati per poi esplodere definitivamente nel finale, sulle note di “Take Hold The Flame” e della devastante e inattesa “Queen Of The Reich”, che manda in delirio l’intera audience.
L’esecuzione è pulita e valorizzata da un autentico team di professionisti dietro i vari strumenti, mentre sul buon Geoff, se pure si possono sprecare le critiche sul versante della carriera post-anni d’oro, quando si tratta di cantare non c’è per nessuno e, pur a scanso di qualche compromesso, la sua ugola fa ancora dannatamente una signora figura. Per quanto ci dispiaccia per l’assenza dei Loudness, che avrebbero rappresentato una validissima conclusione, riteniamo di non poterci davvero lamentare.
Si conclude così la nostra esperienza all’edizione canonica del Keep It True, e mentre ci dirigiamo verso il locale accanto per trascorrere un’ultima nottata di festa, il nostro pensiero va all’edizione autunnale, cui contiamo di presenziare già da ora!