25-26/04/2025 - KEEP IT TRUE 2025 @ Tauberfrankenhalle - Lauda-Konigshofen

Pubblicato il 30/05/2025 da

Venticinquesimo anniversario per il celebre festival old-school metal tedesco Keep It True, i cui organizzatori, per l’occasione, avevano già da tempo fatto presente la volontà di attuare un leggero cambiamento strutturale riducendo l’area del festival, di modo da abbassare il costo del biglietto e ritornare alle soluzioni vincenti delle prime edizioni, inclusa un’area merch collocata nuovamente all’interno della venue in quel di Lauda-Königshofen.
Per quanto effettivamente una parte del suddetto merch sia stata spostata indoor, abbiamo notato poche differenze con la scorsa edizione, complice anche il tendone ancora presente all’esterno, seppur con meno stand, di cui molti possono ora esporre poco distanti dalle band intente a suonare, per la gioia di chi vuole fare acquisti senza rinunciare alle varie esibizioni.
Inutile chiarire che lo spirito del festival è quello che ben conosciamo: tanto metallo alla vecchia maniera in un contesto in cui sono gli autentici appassionati a godere al cospetto di autentiche istituzioni, nonché di chicche da intenditori e vecchie glorie dimenticate, il tutto sorseggiando birra e mettendo in mostra gli immancabili acquisti da collezionisti.
L’edizione corrente non ha mancato di riservarci un buon livello di hype, laute conferme, gradite sorprese e, purtroppo, anche cocenti delusioni. Buona lettura!

VENERDì 25 APRILE

Un inizio davvero molto underground quello reso possibile dai DRIFTER, nella cui discografia non figura ancora alcun album ufficiale, ad eccezione di un demo e due singoli. Non quindi il più facile concerto di cui parlare, ma possiamo dire che il sound degli americani mette in mostra delle connotazioni più in linea con un primordiale sound di origine britannica, invero abbastanza gradevole nel momento in cui si è degli amanti della new wave of British heavy metal o di determinate formazioni più vicine all’hard rock, come ad esempio i Thin Lizzy.
In poche parole, un buon concerto d’inizio e un buon segnale per un potenziale futuro, seppur ancora molto amatoriale nelle sue connotazioni.

Nettamente più alto il livello dei canadesi FREEWAYS, anch’essi fautori di un sound a metà tra heavy metal ed hard rock anni ’70, con cui già abbiamo avuto modo di divertirci grazie ai due ottimi full-length disponibili sul mercato e adeguatamente riproposti quest’oggi.
Il loro è un breve set, poco meno di quaranta minuti, quindi anche meno di quanto il running order permetterebbe, il che ci dispiace poiché, volendola dire giusta, la resa live del combo dell’Ontario risulta più efficace e penetrante di quanto preventivato. I pezzi si collocano infatti perfettamente a metà tra i due stili adottati, vantando gran parte delle migliori caratteristiche di entrambi: una musicalità rockeggiante, abbinata però ad un tiro e a una velocità invidiabile, degna dei primi veri headbanging di oggi e dei primi autentici sussulti di esaltazione.
Una nota di merito anche per il frontman Jacob Montgomery che, oltre a fornire un’ottima prova su voce e chitarra, riesce a far sorridere il pubblico durante i pochi scambi di battute tra un pezzo e l’altro, a fronte forse di una lieve timidezza iniziale.

Il primo tuffo nel passato avviene con gli statunitensi DAMIEN, probabilmente sconosciuti ai più, ma i loro primi due album, usciti negli anni ’80, sono delle piccole chicche di heavy/power metal alla vecchia maniera, da riscoprire qualora non lo si fosse mai fatto prima.
L’intera scaletta, peraltro, pesca unicamente dalle due opere in questione, permettendo al pubblico di spremere le ugole su brani come la iniziale “Corpse Grinder”, la più nota “Stop This War” (da dedicare a svariate situazioni in corso oggigiorno) e la conclusiva “Every Dog Has Its Day”, che è anche il loro pezzo più famoso, come confermato dall’esaltazione generale.
L’esecuzione è un po’ ruvida e, alle orecchie più attente, si sente qualche piccola stonatura, anche per quel che riguarda alcuni passaggi chitarristici e un paio di acuti vocali non del tutto centrati, ma ciò nonostante i Nostri dicono la loro con grinta e dignità, facendo respirare il culto e la nostalgia, sui rintocchi di uno show che premia una formazione sfortunata, ma che possiamo dire di aver preso in simpatia.

Un leggero passo in avanti negli anni grazie ai tedeschi SACRED STEEL, che nella cornice attuale non hanno bisogno di alcuna presentazione, anche perché il loro vocalist e leader Gerrit P. Mutz è una figura a dir poco stimata in questi lidi, nonché un assiduo frequentatore del Keep It True, indipendentemente dalla sua presenza on stage.
La musica che propone la conosciamo bene, trattandosi di uno degli esempi più lampanti di heavy/power metal epico e tirato a balestra, dritto nelle viscere di qualsiasi ascoltatore disposto a perdonare la mancanza di fronzoli particolari: non vi sono infatti grandi velleità colte in ciò che propone il quintetto teutonico, ma solo tanta voglia di decantare la gloria del metal attraverso numerosi scenari di battaglie e scontri armati.
Anche lo show rispecchia a pieno questo concetto, trattandosi di tre quarti d’ora di ritmiche sferraglianti e acciaio rovente, affilato e sanguigno, con una scaletta da gustare tutta d’un fiato, compresa la nuova e fiammante “Ritual Supremacy”, che trova la sua collocazione al fianco di mazzate come “Metal Is War”, “Wargods Of Metal” e “Faces Of The Antichrist”.
Si percepisce qualche lacuna tecnica qui e là, e anche in questo caso non sempre il comparto vocale è stato impeccabile, ma non parliamo di una formazione che millanta esecuzioni impeccabili, quanto piuttosto la volontà di trasmettere energia, divertimento e passione illimitata, e da questo punto di vista riteniamo che fosse difficile pretendere di più.

Ci dirigiamo nell’Europa più occidentale con i portoghesi IRONSWORD, un autentico power trio dedito ad un heavy metal epico e graffiante, nonché manifestazione pratica del fatto che, spesso e volentieri, tre membri sono più che sufficienti per gestire sapientemente un palco.
Nella scaletta odierna vengono inseriti svariati rimandi al recente EP “Underground”, ma le attenzioni maggiori sono per estratti come “Nemedian Chronicles”, “Dragons Of The Sea” e, soprattutto, la conclusiva “Burning Metal”, ben rappresentativa dell’estro barbarico che da sempre permea le composizioni del leader Joào Fonseca, che non può che vestire i panni del protagonista assoluto del concerto odierno, provvisto di chitarra e ugola ruggente.
Malgrado un muro sonoro che avrebbe forse necessitato di un po’ di botta sonora in più, lo show degli Ironsword scorre via in un attimo e lascia piacevolmente divertiti gli astanti, consci di aver fatto un breve viaggio in Cimmeria, prima di iniziare a picchiare duro nella seconda metà di questa prima giornata di festival.

Complichiamo un po’ la formula grazie a quei quattro matti che rispondono al difficile nome di SLAUGHTER XSTROYES, fautori di una bizzarra miscela di heavy, power e thrash a tinte fortemente progressive, e quindi con un tasso tecnico invero molto più marcato rispetto a tutte le band presenti oggi.
Il loro show è infatti un susseguirsi di ritmiche variabili, riff a metà tra il catchy e lo sferzante, e fraseggi solisti a loro modo spiazzanti, in piena evidenza sull’intero comparto sonoro, il quale viene volontariamente reso più tagliente e meno impattante, con la chitarra di Paul Kratky intenta a vibrare nelle nostre orecchie. Questa avrebbe forse giovato di una maggiore cura per il sound, lasciato in una forma a suo modo un po’ grezza, probabilmente apposta per dotare la scaletta di un piglio autentico e poco contemporaneo.
Effettivamente, il concerto di questo quartetto statunitense sa proprio di old-school, impreziosito dalla tecnica e dagli sfoggi stilistici, volti a confermare quanto i loro album siano peculiari e relativamente distanti da ciò che la stessa scena proponeva ai tempi; questo vale soprattutto per l’esordio “Winter Kill”, che ancora oggi riesce a risultare un ascolto strano, se inserito nel suo contesto originario.
Insomma,  pur non trattandosi della più immediata tra le proposte odierne, l’esibizione convince e il pubblico mostra il proprio affetto e supporto per tutta la durata del concerto, e non a caso saranno in parecchi dopo il festival a descrivere la loro come una delle prove migliori di oggi.

Aveva fatto non poco scalpore l’annuncio della presenza dei S.A. SLAYER, il cui unico full-length “Go For The Throat” e l’EP “Prepare To Die” rappresentano un autentico gioiello per molti appassionati, se presi insieme. Il combo di San Antonio – dal nome pesante da sostenere per via di un’altra band emersa dalle scene nello stesso periodo – occupa infatti un posto speciale nel cuore di tanti, che di fatto li ritengono una delle heavy metal band più importanti del sottobosco texano di quegli anni; senza contare che parliamo del loro primo concerto in Europa, nonostante i singoli membri abbiano già avuto più volte modo di dire la loro dalle nostre parti.
Peraltro, non parliamo di dilettanti allo sbaraglio, visto che in questa sede, oltre all’immancabile Bob Catlin alla chitarra, sul palco trovano posto figure come Jason McMaster (Watchtower, Ignitor), Dave McClain (Sacred Reich, ex Machine Head) e Don Van Stavern, che si esibirà anche più tardi.
Questo spiega anche come mai quella dei texani sia probabilmente l’esibizione più fomentante tra tutte quelle visionate finora: l’impatto sonoro è di prim’ordine, i pezzi hanno ancora grinta da vendere e l’amalgama tra i musicisti è perfetta, portando così i presenti a darci dentro sulle varie “Upon Us, The End”, “Ride Of The Horsemen” e “Go For The Throat”.
Un concerto da headbanging a rotta di collo e purissimo carattere metallaro con tutti i crismi, il che è sufficiente ad alimentare in noi la speranza di poterli rivedere prima o poi, magari con un nuovo album in studio.

Si inizia a sprigionare ferocia con quello che, a quanto dichiarato dallo stesso leader Frank Fellinger, rischia davvero di essere l’ultimo concerto di sempre degli iconici speed/thrash metaller tedeschi VIOLENT FORCE, il cui unico album “Malevolent Assault Of Tomorrow”, oggi proposto nella sua interezza, è ad oggi considerato uno dei capolavori nascosti del suo genere d’appartenenza.
Il simpatico frontman tedesco per l’occasione ha assunto al proprio fianco membri della recente thrash metal band Rezet, che indubbiamente hanno tutte le capacità e il tocco per trasportare in sede live delle fucilate come “Sign Of Evil”, “The Night” e “Dead City”.
Malgrado non si tratti di un progetto abituato ad operare in sede live, fa molto piacere notare l’ottima intesa tra i musicisti e l’enorme energia sprigionata per tutta la durata dello show, con tanto di moshpit e crowd surfing da parte dei numerosi astanti, visivamente imbizzarriti da un sound aggressivo e terremotante, che forse avrebbe meritato qualche vagito in più nel corso della storia, anziché scomparire letteralmente dopo un solo album, ad eccezione di qualche data sporadica.
Come si suol dire, la speranza è l’ultima a morire e il nostro augurio è che il buon Frank possa un giorno trovare la giusta ispirazione per tirare nuovamente insieme il progetto. Vero che non si tratta della stessa band dei tempi, in quanto egli è l’unico rimasto in attività, ma considerato il risultato ci andrebbe bene anche così.

Ancora più violenza e cattiveria con un’altra band dall’esistenza ancorata alla figura del proprio frontman, e parliamo ovviamente dei VIO-LENCE e di quel pazzoide americano di Sean Killian, che magari non avrà fatto carriera al pari di alcuni suoi ex compagni, ma è fuori da ogni dubbio che siano in larga parte l’attitudine e la passione a spingerlo in questa sua avventura solitaria, da lui gestita con appetito ed energia, come conferma il suo particolare modo di fare spettacolo, a contatto strettissimo con il suo pubblico.
A prescindere che il brano di turno provenga dal capolavoro “Eternal Nightmare” o dall’apprezzato “Oppressing The Masses”, la botta in faccia trasmessa dal frontman e dalla band alle sue spalle, in puro stile thrash metal, risulta a dir poco lacerante, e ad impreziosire il tutto vi è appunto quell’abitudine del mitico Sean di cantare sulla transenna, tra le braccia dei suoi fan, con uno sfoggio perenne di adrenalina quasi più in linea col punk, che col metal.
Per la seconda band di fila il moshpit non accenna a fermarsi, e riteniamo che al Keep It True bisognerebbe dare un po’ di spazio in più al thrash metal, che per sua natura riesce a fomentare le masse in una maniera inimitabile, soprattutto quando vi sono dei suoni adeguati a sostegno, come in questo caso.

Si arriva finalmente al primo headliner del festival, gli statunitensi RIOT (o Riot V, che dir si voglia), in questa sede con uno show speciale, con una lunga scaletta composta da ben venti estratti, tra cui parecchie chicche selezionate ad hoc.
Dopo un full iniziale composto da tre estratti recenti e da due inni immortali come “Fight Or Fall” e “Flight Of The Warrior”, Todd Michael Hall si conferma ancora una volta come uno dei migliori cantanti dell’intero panorama, nonché un frontman con una classe invidiabile, ma quest’oggi egli non è da solo nel suo ruolo, come ci conferma l’arrivo on stage dell’onnipresente Harry Conklin (Jag Panzer, Heir Apparent etc.), di cui si farà un gran parlare anche nel corso della giornata successiva; a lui viene affidata l’accoppiata composta da “On Your Knees” e “Magic Maker”, dopo la quale si palesa anche il secondo ospite, ovvero l’ex chitarrista Rick Ventura, che viene sguinzagliato su ben cinque pezzi provenienti dal periodo in cui egli era membro in pianta stabile della band, comprese delle perle come “Narita” e “Fire Down Under”.
Questi due graditi ospiti torneranno sul palco verso la fine, per l’esecuzione della mitica “Swords And Tequila”, ma in generale c’è ben poco da criticare alla seconda metà del concerto odierno, in cui non potevano che figurare le immancabili “Warrior”, “Thundersteel” e “Bloodstreets”, per la gioia dell’intera venue, ora completamente piena. Non a caso, sulle battute finali di “Johnny’s Back” e “Sign Of The Crimson Storm” le pareti sembrano vibrare per il movimento all’interno e per le ugole spremute all’unisono, mentre sul palco termina il proprio concerto una delle migliori band di sempre, indipendentemente dalle critiche che si potrebbero fare sulla loro attuale incarnazione.
Fa inoltre un certo effetto notare che parliamo di una realtà che, generalmente, vediamo in delle location molto modeste, ma che in questo contesto riesce a trascendere la sua dimensione usuale, grazie al trasporto permesso da un evento di questa portata, in cui riteniamo improbabile vi sia anche solo un partecipante ignaro dell’immenso valore di una formazione come i Riot, dopo i quali possiamo finalmente congedarci, in attesa di una seconda tornata dal piglio equivalente, o almeno… Si spera.

SABATO 26 APRILE

Iniziamo questa seconda e ultima giornata con i giovani peruviani HYENA, il cui primo full-length ufficiale è uscito sul mercato proprio durante questo stesso festival, e considerando che la traccia finale si intitola, per l’appunto, “Keep It True”, riteniamo sia stata una scelta oltremodo ficcante. La loro prova è invero molto più convincente rispetto a quella degli opener del giorno precedente, complice anche una direzione musicale molto meglio definita e improntata al cento per cento su un classico heavy metal adrenalinico e tagliente.
Si può notare anche in questo caso qualche piccola sbavatura esecutiva, come ad esempio delle armonizzazioni non sempre ben calibrate, ma per quanto riguarda lo show nella propria interezza riteniamo che questi ragazzi dal Sud America siano davvero sulla buona strada.

Un livello ben più alto di esperienza e confezionamento dei brani per quanto riguarda i danesi ALIEN FORCE, che quest’oggi ripropongono quella perla di “Hell And High Water” quasi nella sua interezza, per mancanza di tempo, e fa sorridere che l’unico brano escluso si intitoli proprio “Time Is Out”.
Il clima che si respira è quello di cinque amici che ancora conservano una sana voglia di suonare heavy metal, e c’è da dire che si tratta di un impegno che gli riesce molto bene: i brani sono ancora dotati di un grande piglio, anche in sede live, valorizzati da un’esecuzione più che buona e da dei suoni graffianti che centrano perfettamente il loro obiettivo.
Chiaramente non parliamo di un’esibizione piena di fronzoli o trovate valorizzanti, ma è anche per questo che si percepisce l’autenticità, e poi diciamocelo… Non è possibile non esaltarsi nel momento in cui questi signori ci propongono pezzi come “Get It Out” e “Night Of Glory”, a conferma delle ottime idee che gli Alien Force avevano all’inizio degli anni ’80, indipendentemente dalla piega presa successivamente dalla loro carriera.

Non potevamo non piazzarci direttamente in transenna per lo show dei nostrani, leggendari DOMINE, autentico orgoglio italiano se parliamo di sonorità heavy/power classiche, nonché gli unici a figurare sul cartellone odierno del Keep It True, perlomeno a seguito della cancellazione dei Doomsword.
Ebbene, sin dallo scoppio di “Thunderstorm” diviene chiaro che, quest’oggi, non ce ne sarà per nessuno: Morby irrompe nell’impianto con tutta la propria ugola squillante, mentre il comparto strumentale inizia da subito a trasmettere un’energia ineguagliabile, che non può che aumentare nella successiva “The Aquilonia Suite”, proseguendo poi con “The Eternal Champion” e “Dragonlord”, culminando poi nel finale con “The Hurricane Master”.
Solo cinque pezzi purtroppo quest’oggi per la band toscana, ma tanto basta ad elevarli immediatamente sul podio delle migliori esibizioni dell’intero festival, come confermato anche da un’esaltazione generale che parte su livelli medi, impennandosi mano a mano che lo show prosegue, e non è un caso che la venue a fine concerto sia praticamente piena, al pari di alcuni degli atti principali di oggi, se non ancora di più.
Forse qualcuno potrà dire che siamo condizionati, in quanto italiani, ad esprimere così tanta esaltazione per quanto fatto da Enrico Paoli e soci in questa sede, ma potete crederci sulla parola nel momento in cui vi diciamo che, difficilmente, una qualsiasi band di oggi potrà arrivare a sprigionare la stessa potenza dei Domine, dei quali si avverte davvero la necessità di un nuovo disco, vista questa ennesima dimostrazione di quanto il progetto sia vivo e vegeto, nonché ancora provvisto di tutta l’energia necessaria a tenere alto il nome dell’Italia nell’olimpo dell’heavy metal.

Facciamo una capatina in Giappone con i SABBRABELLS, che si prodigano di mantenere alta la bandiera del Sol Levante con uno show compatto e musicalmente ben eseguito, anche se non sempre le doti canore del frontman Cicchi Takahashi appaiono a fuoco, visto che in alcuni stacchi risulta un po’ troppo pungente, sia dal vivo che su disco.
Sul comparto strumentale non possiamo dire niente: l’energia non manca e nemmeno la velocità necessaria a far scatenare un altro po’ i presenti, in concomitanza di brani come la iniziale “Metal Saber” o l’ancora più datata “Devil’s Rondo”, opener dell’esordio autotitolato uscito nel lontano 1983.
Per quanto riteniamo che in Giappone ci siano band di maggior pregio, di cui alcune viste proprio su questo stesso palco, possiamo dirci soddisfatti e divertiti da quanto fatto oggi dai Sabbrabells, che abbiamo deciso di vedere da una posizione decisamente più comoda, dopo aver investito gran parte della nostra adrenalina sottopalco nel corso dell’esibizione precedente.

Primo autentico tasto dolente della giornata con gli statunitensi PURGATORY, band cui dobbiamo l’esistenza di un ottimo album come “Tied To The Trax”, uscito originariamente nel 1986 e considerato oggi un cult dell’heavy metal da parecchi appassionati, in particolare quelli che non disdegnano qualche deriva power e persino thrash all’interno delle composizioni.
Purtroppo quest’oggi è evidente che non sarà possibile rivivere la gloria del suddetto lavoro in studio, in quanto la band appare decisamente disomogenea e fiacca nella sua esecuzione: la voce di Jeff Hatrix non si presenta in forma particolarmente smagliante, e la chitarra di Tony Ross risulta decisamente mal calibrata nella sua resa sonora, tant’è che in più punti ci è sembrato che ci fosse decisamente poco gain rispetto a quanto ne servirebbe per il repertorio attuale, che eseguito in maniera così raffazzonata non riesce decisamente a emozionare come avremmo sperato.
Qualcuno ritiene che band con un solo disco all’attivo, uscito peraltro molto tempo addietro, siano spesso destinate a fare flop in sede live, ma la nostra esperienza ci insegna che non è assolutamente così, e basta pensare a quanto fatto due anni fa dai Messiah Force, che nel 2023 hanno fatto probabilmente uno dei concerti migliori.
Pazienza, non vogliamo soffermarci troppo su questa delusione, anche perché la prossima sarà ben più grave, con in più una punta maliziosa, se analizziamo tutti i fatti.

Gli americani MEDIEVAL STEEL sono l’esempio portato all’estremo di band divenuta un culto per un unico tassello del proprio repertorio, e non ci riferiamo a un disco in questo caso, ma a una sola e unica canzone, ovvero quella “Medieval Steel” dall’EP autotitolato uscito nel 1984. Non che il resto del repertorio di quel periodo sia male, anzi al contrario, infatti le varie “Warlords”, “To Kill A King” e “Battle Beyond The Stars” ci piacciono molto e su disco funzionano bene, ma è innegabile che l’unico vero capolavoro della band di Memphis sia proprio il pezzo in questione, che poi è l’unico su cui il pubblico si fomenta per davvero.
Il problema non è tanto questo, oggi come oggi, quanto più il fatto che la band sembra praticamente avere voglia di fare tutto fuorché suonare: i singoli membri sembrano infatti scocciati e sprovvisti di passione, e persino il frontman Bobby Franklin perde parecchi colpi, e tutto ciò si traduce in uno show con dei suoni migliori rispetto ai già fiacchi Purgatory, ma assolutamente sprovvisto di qualsiasi pathos e quasi noioso, nel suo complesso, soprattutto in concomitanza dei pezzi più recenti, tra cui quello scempio di “Viking Wishing Well”, che continua a sembrarci un plagio di una certa “The Trooper”.
Ciò decisamente spiana la strada a tutti quegli ascoltatori che ritengono i Medieval Steel una realtà sopravvalutata, e considerando il brutto scherzo giocato all’Italia, con la cancellazione della data di Torino i primi di maggio, è inevitabile avere qualche rimostranza da fare.
In poche parole, riteniamo questa l’esibizione più deludente e amareggiante dell’intera edizione, nonché indice che, forse, certe realtà dovrebbero considerare l’idea di smettere, nel momento in cui cessa di esserci una autentica passione.

Ancora con l’amaro in bocca ci approcciamo ai canadesi SACRED BLADE, anch’essi con un unico disco ufficiale nel proprio repertorio datato 1986, ovvero quel “Of The Sun + Moon” molto caro agli appassionati di prog/heavy metal alla vecchia maniera.
A scanso di qualche iniziale difettuccio tecnico, tra cui un fischio persistente nell’impianto e delle chitarre da valorizzare meglio, il livello appare sin da subito ben più alto di quanto fatto dalle due band precedenti, anche grazie ad una evidente voglia di suonare da parte di tutti i musicisti coinvolti.
Il repertorio pesca a piene mani dall’album di cui sopra, ma anche dai vari demo pubblicati dalla band negli anni precedenti e successivi, il che non li rende una formazione particolarmente facile da sviscerare, ma dobbiamo ammettere che il risultato finale trasposto in scena quest’oggi dovrebbe decisamente far drizzare le antenne agli ascoltatori meno informati: il carattere e la classe ci sono, così come la qualità dei pezzi e l’amalgama dei singoli elementi.
Anche il pubblico sembra apprezzare la musica e l’attitudine, soprattutto per quanto riguarda il vocalist James ‘Zed’ Channing, visibilmente entusiasta di essere sul palco di fronte a una platea di appassionati.
Anche in questo caso, magari non lo show migliore di oggi, complice anche qualche errore nell’esecuzione di alcune parti soliste, ma ci fa piacere notare che il livello generale si è nuovamente alzato, dopo ben due delusioni consecutive.

Con l’arrivo dei francesi SORTILÈGE appare chiaro che la fiacchezza esecutiva è ormai roba da dimenticare, visto che stiamo per parlare di un altro buon candidato alla migliore esibizione di oggi, e questo indipendentemente dalle controversie legate alla formazione stessa, in cui ormai figura solamente il talentuoso vocalist Christian ‘Zouille’ Augustine di quelli che erano gli originali.
Lo show di questi defender francesi è un concentrato di classe e limpidezza esecutiva, in cui una corposa selezione di brani heavy metal viene sciorinata senza sbagliare pressoché nulla e riuscendo ad accendere i presenti, anche quelli che non spiccicano una sola parola di francese; poiché, per chi non lo sapesse, siamo forse in presenza della più rappresentativa tra le realtà metal in lingua francese, e ce ne sono più di quel che potreste credere, anche di altissimo livello.
Inoltre, è bene tener presente che parliamo di una setlist interamente dedicata agli anni ’80, e quindi al periodo d’oro di questa band e di tutto l’heavy metal più classico: da “Amazone” e “Chasse Le Dragon”, passando per “Gladiateur” e “Délire D’un Fou”, fino ad arrivare a “Le Cyclope De L’Etang” e “Mourir Pour Une Princesse”, con tutto ciò che c’è nel mezzo, non riusciamo a trovare un autentico difetto al concerto odierno dei Sortilège, che si congedano proprio sulle note del brano che porta il nome della band stessa, dopo aver fatto letteralmente un bagno di ovazioni meritatissime.
Un esempio di come si suona l’heavy metal a prescindere da quale sia la propria provenienza.

Per molti presenti, l’esibizione più attesa è quella degli americani HEIR APPARENT, capitanati come sempre dal chitarrista Terry Gorle e rinforzati dalla presenza del mitico Harry Conklin alla voce, di cui già avevamo parlato nel corso della prima giornata di festival.
Ci fa enormemente piacere che la scia positiva iniziata questa mattina, poi spezzata da un paio di formazioni e ripresa da altre, qua può proseguire in tutto il proprio splendore: gli Heir Apparent sono infatti dei musicisti incredibili, dotati di un repertorio magari non abnorme, ma pieno di buonissimi pezzi da proporre con cura in sede live, compito in cui questo quartetto è maestro.
Ottima la scaletta, tutta incentrata sul capolavoro “Graceful Inheritance” uscito nel 1986, con picchi del calibro di “Hands Of Destiny”, “Dragon’s Lair”, “Another Candle” e “Tear Down The Walls”, anche se un po’ ci dispiace non udire almeno una menzione al successivo “One Small Voice” o all’ottimo “The View From Beyond” uscito qualche anno fa.
Il momento più alto arriva alla fine sulle note di “The Servant”,  sulla quale si palesa l’iconico cantante Paul Davidson, che tanti di noi speravano di vedere on stage sin dall’inizio, considerando che un anno fa era rientrato stabilmente in pianta stabile, seppur per un periodo di tempo brevissimo.
Poco male, del resto il buon Harry ha reso benissimo per tutta a durata dello show, e ci fa sempre piacere accorgerci di quanto il suo talento sia stato notato nel corso degli anni, considerando che ultimamente è abbastanza semplice imbattersi in una qualsivoglia formazione con lui alla voce.
Per molti ascoltatori, il Keep It True potrebbe terminare qui, ma è bene non dimenticare che manca ancora un atto, che si compirà nel più tetro e oscuro dei mood.

Già, perché il ruolo di headliner è stato affidato alla epic doom band texana SOLITUDE AETURNUS, tornati ufficialmente da poco sulle scene internazionali, peraltro col loro primo logo a svettare sui manifesti e sullo sfondo del palco, indice della loro intenzione di mantenere alta l’attenzione sui loro primi due, iconici lavori in studio, da cui infatti proviene la maggior parte del repertorio riproposto in questa occasione, seppur senza tralasciare completamente le opere successive, come ci conferma la presenza in scaletta delle varie “Haunting The Obscure”, “Days Of Prayer” e quant’altro.
Diciamocelo, collocare una band doom metal in coda ad un intero festival, peraltro sprovvisto di altre formazioni analoghe, è una scelta rischiosa, in quanto la stanchezza inizia a farsi sentire e una realtà dedita comunque a un genere così lento e cupo potrebbe non essere la più azzeccata delle scelte, soprattutto per chi si è immerso in ben altro mood musicale per tutta la durata dell’evento, e che quindi potrebbe trovare un po’ pesante l’ora e mezza prevista (ridotta ad un’ora e un quarto a causa di un ritardo).
Non a caso, la venue risulta meno gremita di quanto ci saremmo aspettati, con molta gente seduta sugli spalti e mezzo parterre praticamente vuoto, con quindi un risultato complessivo inferiore a quanto ottenuto, per esempio, dai Sortilège o dagli stessi Domine.
Malgrado queste considerazioni, sul concerto in sé non ci sono molte critiche da fare: il sound risulta impattante e l’atmosfera trasuda atmosfera gloomy, come ben si addice ad una band tanto importante, seppur spesso dimenticata. Inoltre, ci fa un immenso piacere notare che la formazione è quella iconica dei primissimi anni ’90, con il carismatico Robert Lowe a tenere le redini, applicando nel contempo tutta l’esperienza maturata negli anni in altri progetti, tra cui i più noti Candlemass e i più epici Tyrant.
Ci avrebbe fatto piacere goderci questo concerto con più entusiasmo, ma come già anticipato, la stanchezza ci ha messo del suo e, considerando il genere, ci sono stati pochi momenti in grado di risollevare l’adrenalina. Tuttavia, si tratta di un discorso estremamente soggettivo, e anche per questo siamo curiosi all’idea di rivedere presto i Solitude Aeturnus in sede live, magari in un contesto meno sfiancante alla lunga.

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