Report di Federico Orano e Roberto Guerra
Fotografie di Florian Hille
Ultima fermata al Posthalle di Wurzburg per il Keep It True Rising, festival nato per ridare spirito al metallo più puro durante il periodo della pandemia, ma diventato ben presto un appuntamento fisso per tutti gli amanti delle sonorità più classiche ed old-school.
Questa quarta edizione era partita proprio come un addio alla location posizionata a due passi dal centro della cittadina tedesca, che verrà dismessa dal comune ad inizio 2026; la volontà dell’organizzazione era quella di concentrare tutte le energie sul KIT originale, che ha ripreso ad essere una costante durante il mese di aprile e che il prossimo anno festeggerà il venticinquesimo anniversario. Ma il successo di quest’ultimo Rising e le tante richieste da parte dei fan di non chiudere qui quest’avventura, ha portato infine all’annuncio di una nuova ed ultima edizione per il 2025, già denominata “The Final Chapter”!
Le duemilatrecento persone che si sono riversate a Wurzburg durante la tre giorni di festival tra giovedì 3 (per il warm-up), venerdi 4 e sabato 5 Ottobre, hanno potuto godere di uno spettacolo vibrante con alcuni show esclusivi che rimarranno nella memoria di tutti i presenti.
Come al solito, un’organizzazione perfetta ha accompagnato un weekend ricco di emozioni, con show puntuali, suoni (quasi) sempre precisi e la possibilità di occupare ogni secondo della giornata tra le bancherelle di dischi e merch, qualche birretta in compagnia e ore ed ore di musica.
Da segnalare come anche quest’anno – forse anche più che in passato – una folta compagine italiana fosse presente al festival, segno che anche nel nostro paese la passione per il metal classico è ancora presente e viva!
GIOVEDI’ 3 OTTOBRE (Warm-Up)
Riusciamo ad arrivare in tempo per lo show degli HELL FIRE, di cui già vi avevamo parlato in occasione del nostro Metalitalia.com Festival poco più di un mese fa.
In questa sede il nostro parere vuole premiare nuovamente il loro ottimo songwriting, in quanto i pezzi provenienti dai loro quattro album, in particolare il recente “Reckoning”, risultano più che esaltanti nelle loro connotazioni speed/heavy metal, anche se si percepisce ancora un po’ di rigidità da parte dei singoli membri, che tuttavia non mancano di passione e questa viene evidentemente percepita anche da dei presenti, che sembrano gradire quanto proposto.
Personalmente, abbiamo molta fiducia nei confronti di questi quattro ragazzi, e siamo certi che col passare del tempo anche i pochi dubbi attualmente presenti avranno modo di venire meno. (Roberto Guerra)
Discorso parzialmente diverso e più entusiastico per gli HAUNT: chi scrive considera questa band una delle più interessanti e prolifiche del giovane panorama heavy metal, in questo caso proveniente dagli States, e anche in questa sede si continua a percepire la loro sicurezza on stage, in particolare se osserviamo il frontman Trevor William Church, così come una capacità più che papabile di confezionare dell’ottimo metal classico con buone dosi di melodia e anche con qualche accenno di originalità compositiva.
Considerando la loro discografia, invero assai lunga rispetto alla loro giovane età come formazione, è chiaro che non è semplice scegliere i brani da inserire in una setlist destinata ad essere abbastanza breve: in questo caso, vengono portate in scena menzioni ad almeno cinque opere, anche se buona parte delle attenzioni vengono rivolte all’esordio “Burst Into Flame”, del quale vengono proposte la title-track e l’altrettanto ficcante “Frozen In Time”.
Gli astanti sono già una quantità superiore alle nostre aspettative, e tra di loro sono in tanti a gradire quanto proposto dagli Haunt, e senza dubbio anche noi siamo dello stesso avviso. (Roberto Guerra)
Particolare lo show nostalgico messo in piedi dalla frontwoman polacca MARTA GABRIEL che, col supporto dei membri della sua band principale, ovvero gli stessi Crystal Viper in programma per la sera dopo, inscena un’esibizione dedicata tutta alla commemorazione di pezzi iconici del metal underground al femminile, con menzioni a Rock Goddess, Blacklace e quant’altro.
Tuttavia, il momento più esaltante è quando iniziano a palesarsi on stage ospiti illustri del suddetto filone, per l’esecuzione di altrettanti brani: iniziando con la settantaseienne Jutta Weinhold, iconica voce dei sottovalutati Zed Yago, di cui viene proposto il brano “Rebel Ladies”, passando per la rossissima Kate De Lombaert con l’iconica “Max Overload”, scritta originariamente per i belgi Acid, fino ad arrivare a Enid Williams, ex bassista delle Girlschool, cui ovviamente si deve l’esistenza di “Emergency”.
La vera sorpresa, tuttavia, giunge alla fine in compagnia del buon Jarvis Leatherby dei Night Demon, con cui Marta e soci si cimentano nell’esecuzione di “Please Don’t Touch”, originariamente eseguita dalle stesse Girlschool e dai monumentali Motorhead, che accende letteralmente i presenti, spingendoli a ballare in maniera similare al compianto Philty Animal all’epoca del celebre videoclip ufficiale, nonché chiudendo piacevolmente una parentesi divertente e ammirevole per gli amanti del metal classico con un tocco femminile. (Roberto Guerra)
Chiudiamo questo show inaugurale con gli stessi NIGHT DEMON, che ultimamente stanno godendo di una popolarità tale da giustificarne la presenza in una quantità abnorme di eventi in giro per il mondo, compreso ancora una volta il nostro festival.
La loro proposta non ha bisogno di presentazioni, trattandosi di un velocissimo e rockeggiante heavy metal di stampo classico, ma con quella lieve punta di autorialità necessaria per donare a questa band un’identità propria e tangibile, nonché la nomea di live band tra le più fomentanti tra quelle attualmente esistenti.
Dopo l’introduzione a base di “Night Of The Demon” dei Demon, l’energia trasmessa da brani come “Escape From Beyond”, “Screams In The Night”, “Full Speed Ahead” e “Heavy Metal Heat” è indiscutibile, come confermato anche da un pubblico numeroso ed elettrizzato.
Il concerto peraltro dura parecchio, come confermato dalle ben diciassette canzoni eseguite, eppure non si avverte pressoché mai un senso di prolissità o stanchezza, quanto più una forte voglia di far festa insieme ai tre pazzoidi on stage, che qualcuno ritiene anche ‘troppo’ attivi dal punto di vista dei live.
Per quel che ci riguarda, se una formazione esiste proprio per proporre dei concerti ad alto tasso metallico, è bene che continui a farlo nel migliore dei modi, come questa prima sera dell’edizione 2024 del Keep It True Rising. (Roberto Guerra)
VENERDI’ 4 OTTOBRE
Iniziamo questa prima giornata completa in compagnia dei francesi ANIMALIZE, il cui heavy metal dal retrogusto comico ha già fatto parlare di sé nel sottobosco del genere, nonostante un solo full-length ufficiale attualmente sul mercato.
La loro esibizione è infatti piuttosto energica e a tratti colorata, con sfoggi scenici al limite del tamarro e tanto acciaio graffiante, compresa quella motosega che si palesa on stage verso la fine sulle note di “Chainsaw And Boomstick”, a conferma di una spontaneità invidiabile sul palco. Interessante inoltre la dualità tra pezzi in francese e altri in inglese, come confermato ad esempio dall’accoppiata composta da “Sous L’Oleil Du Charognard” e “Jungle Dance”, anche se il momento più alto è rappresentato dalla spassosissima “Pigs From Outer Space”, il cui solo titolo ci riporta alla mente certi B-movie del passato. (Roberto Guerra)
Inizialmente meno efficace l’esibizione degli epic metaller tedeschi WRITHEN HILT, ma in questo potrebbe c’entrare anche una formazione parzialmente rimaneggiata a causa di problemi di salute di vari membri, nonché una produttività discografica che ancora non conta nemmeno un full-length.
Ciò nonostante, possiamo dire che il loro metallo epico di stampo statunitense mette comunque in evidenza dei punti favorevoli, soprattutto sul versante melodico, trovando nel frontman David Kuri una presenza di tutto rispetto, anche se la scaletta della band trova il proprio apice al momento dell’esecuzione della cover di “Deliver Us From Evil” dei Warlord, principale band ispirazione per la formazione proveniente dalla bassa Sassonia.
Le somiglianze con la musica della line-up americana sono papabili, e sebbene i pezzi provenienti dall’EP “Ancient Sword Cult” siano indubbiamente piacevoli, il nostro augurio è che questa band possa trovare presto la propria quadra, magari con un album completo degno del nome. (Roberto Guerra)
Forti di un debutto elettrizzante – intitolato “Street Metal” – anche se molto debitore dei classici cliché del heavy metal ottantiano (Judas Priest in primis, ma anche con riferimenti anche ai più recenti Ambush), riponevamo molte speranze nell’esibizione del quintetto tedesco THRILLER.
Il cantante Julez ha trainato uno show ricco di energia con molti brani capaci di trasmettere carica e passione: su tutti spiccano la fumante “Proud To Be Different” e l’energica “Spikes And Leather”.
Unica pecca, da una band giovane che si affaccia per la prima volta su un palcoscenico di questa importanza ci saremo attesi una maggiore dose di carica sul palco (come era successo nella scorsa esibizione coi terremotanti e giovani Tailgunner, ad esempio) invece, aldilà della grinta e dell’ottima prestazione vocale del già citato frontman tedesco, la band è sembrata un po’ frenata forse dalla tensione, con i due chitarristi Chrizz e Raudy leggermente statici.
I presenti non hanno comunque fatto mancare il proprio calore cantando ogni brano proposto. (Federico Orano)
Altra band molto attesa nella giornata odierna, i canadesi TRAVELER si presentano con alle spalle tre dischi molto validi, non ultimo il recente “Prequel To Madness”. Sbarcati in Europa circa una settimana prima dell’appuntamento al KIT hanno – come molte altre band nella stessa situazione – messo su alcune date in giro per il continente partendo da Londra.
Forse però, le troppe serate concentrate ed un po’ di maltempo che ha imperversato qua e là, non hanno aiutato l’ugola del cantante Jean-Pierre Abboud, che quest’oggi mostra di avere qualche problema vocale. Si salva in corner – come direbbe qualche telecronista sportivo – grazie ad una forte attitudine che non manca mai.
I suoi compagni invece viaggiano alla grande, soprattutto il chitarrista solista Toryin Schadlic, che mostra tecnica e passione, mettendoci anche la voce nei momenti in cui non sopraggiunge da chi di dovere.
Brani come “Starbreaker” e “Speed Queen”, presi dall’omonimo debutto, e la recente e fumante “Heavy Hearts” fanno il resto con il loro impatto heavy deciso e dai ritmi sostenuti. Nella setlist trovano infatti spazio le composizioni più rapide e grintose, e l’impatto è decisivo. Peccato solo per la prestazione vocale, ma nel complesso uno show ricco di adrenalina, come piace a noi! (Federico Orano)
La vera sorpresa della giornata sopraggiunge con la parentesi più estrema del festival, rappresentata dai floridiani HELLWITCH e dal loro thrash/death metal tecnico e demolitivo, messo oggi in scena con una cattiveria e una capacità esecutiva maiuscole, al punto tale che risulta difficile credere che si tratti di una band dalla carriera così frammentaria, con all’attivo tre soli full-length – di cui uno divenuto un vero e proprio cult del genere all’epoca, e ci riferiamo ovviamente a quel “Syzygial Miscreancy” datato 1990.
Pat Ranieri e soci non ne sbagliano una, facendo letteralmente tremare la location con il loro sound terremotante, e ci fa molto piacere notare il batterista dei Night Demon, Brian Wilson, dietro alle pelli in un setting musicale diverso e più impegnativo.
Sebbene pezzi recenti come “Delegated Disruption” e la conclusiva “Torture Chamber” siano accattivanti, le attenzioni maggiori sono tutte per classici come “Pyrophoric Seizure”, “Viral Exogence” e “Purveyor Of Fear”, che in sede live con dei suoni appropriati riescono a risultare ancora più perfide e impattanti che su disco, e il moshpit che inizia a palesarsi è una ulteriore conferma che questa breve fase estrema e violenta del festival può davvero arrivare a confermarsi come uno dei migliori show di oggi, se non il migliore in assoluto. (Roberto Guerra)
Alti e bassi per Marta Gabriel e la sua band, i CRYSTAL VIPER: lo diciamo perché nei vari dischi prodotti – e spesso molto supportati dal pubblico – a nostro avviso è sempre mancata la fiammata vincente, con canzoni nella norma che raramente riescono ad innescare la marcia decisiva.
Ciò viene confermato anche dal vivo: lo show è piacevole certo, ma anche andando a riproporre una sorta di ‘best of’ attraverso i ben nove album pubblicati fin qui, concentrato nei quarantacinque minuti di show, non è che ne venga fuori una scaletta inattaccabile.
Certo, “Fever Of The Gods”, “Still Alive” e la catchy “The Silver Key” sono comunque composizioni ricche di carica, ma non così coinvolgenti. Inoltre ci viene da pensare che probabilmente se Marta abbandonasse il basso a favore di un bassista di ruolo, per concentrarsi sulla voce, secondo noi le cose gioverebbe sull’impatto live della band polacca.
Avrebbe infatti più libertà di correre sul palco e aizzare il pubblico, invece i cinque musicisti risultano un po’ statici e anche questo contribuisce a non azionare quella scarica elettrica capace di creare la connessione perfetta tra il pubblico ed il gruppo. (Federico Orano)
Old-school al potere! Eh si, perché se la partenza di questa prima giornata di KIT non ha entusiasmato del tutto, ci pensano loro ad infiammare lo scenario: gli storici DEMON colpiscono con suoni perfetti, una coesione speciale ed un frontman che porta a scuola tutti come Dave Hill.
Il leader della cult band britannica ci accompagna andando a pescare in particolare tra le produzioni più storiche. Iniziare lo show con l’impatto di “Night Of The Demon” è ciò che dovrebbe fare qualsiasi band e che dovrebbe essere scritto a caratteri cubitali in ogni manuale di come suonare dal vivo!
Il susseguirsi di brani come “The Plague”, “Sign Of The Madman” e la storica “Liar” è irresistibile, le atmosfere più sinfoniche e sognanti di “Remembrance Day (A Song for Peace)”, pescata dal bel “Taking The World By Storm”, appassionano, mentre trova spazio anche la recente “Face The Master”, inserita nell’ultima pubblicazione della band, il buon “Invincible” rilasciato solamente qualche mese fa.
Nel finale, l’inno indiscusso che si lascia cantare a squarciagola da tutti i presenti è ovviamente “Don’t Break The Circle”. Uno dei momenti più esaltanti dell’intero festival: che precisione, che stile, che classe per i Demon! (Federico Orano)
C’è molta curiosità per l’esibizione dei NASTY SAVAGE, anche perché parliamo di una band dalle connotazioni più bizzarre della storia, soprattutto sul versante scenico, memori dei celebri numeri autolesionistici da parte del vocalist Nasty Ronnie, oggi presente in stage in tutta la sua corpulenta possanza.
Purtroppo, detta come va detta, il loro show è probabilmente uno dei più deboli della giornata, poiché in questa sede il buon Ronnie non fornisce decisamente una buona prova a livello vocale, arrivando anche a saltare delle parti di strofa, cercando nel contempo di cimentarsi in qualche sfoggio vocale, con risultati abbastanza scarsi. Similmente, anche i suoi siparietti scenici risultano più che altro comici e un po’ cringe, incluso quello della lametta in fronte e quello del vecchio televisore a tubo catodico, destinato a fare una brutta fine.
Fortunatamente, i pezzi hanno comunque una possibilità di efficacia, soprattutto quelli provenienti dai primissimi lavori e dal nuovissimo “Jeopardy Game”, eseguiti da una band sì un po’ anonima, ma con delle buone mani, necessarie per valorizzare le varie “Gladiator”, “Metal Knights” e “Savage Desire”; questo è sufficiente a rialzare almeno parzialmente l’asticella, insieme a quella possibilità di non prendere troppo sul serio, anche se non possiamo certo ritenere il livello di quanto fatto oggi su livelli più che bassi. (Roberto Guerra)
Precisione ed esperienza: un po’ come successo poco prima per i Demon, anche i PENTAGRAM mostrano come decenni di esperienza non si insegnano e danno i loro frutti quando si innesca uno spettacolo preciso, pulito, adrenalinico come quello messo in piedi dal gruppo originario da Washington, D.C..
Non serve fare i miracoli o avere uno scenario stratosferico, queste band calcano i palchi di tutto il mondo da anni e i loro show sono una sicurezza.
Per un’ora la band americana ci ha accompagnati tra sonorità intense e pungenti, colpendo con pezzi profondi come “Bloodlust”, che apre lo show con riff penetranti e l’ugola unica dell’indissolubile Bobby Liebling.
Lo spettacolo continua senza soste, tra gli applausi sinceri di un pubblico appassionato: “The Ghoul” con le sue atmosfere tetre e le sonorità settantiane di “When the Screams Come” sono altri momenti ricchi di sentimento, così come l’immancabile “Sign Of The Wolf”.
La musica dei Pentagram, più introspettiva ed intima, trova terreno fertile di fronte ad una platea di eterni appassionati di metal primordiale, oscuro e classico e gli applausi nel finale, con l’accoppiata formata da “Forever My Queen” e “Buck Spin”, arrivano forti e scroscianti.
Uno show compatto e senza sbavature. Un esempio di come suonare heavy/doom metal! (Federico Orano)
Giungiamo all’headliner della giornata, i mitici CIRITH UNGOL, apparentemente alla loro ultima data in territorio europeo, che inizia ovviamente sui rintocchi di “Atom Smasher” e “I’m Alive”.
L’accoppiata composta da Tim Baker e Robert Garven trae, come già visto in passato, un enorme giovamento dalla presenza dei più giovani Jarvis Leatherby e Armand Anthony dei Night Demon, anche se pare che nel pubblico ci sia un individuo non dello stesso avviso, come da lui stesso enunciato ad alta voce, col risultato di interrompere lo show per alcuni minuti nel momento in cui lo stesso Jarvis decide di affrontare a muso duro il soggetto in questione. Un atteggiamento comprensibile per certi versi, ma anche poco professionale in un contesto analogo, soprattutto considerando che parliamo di uno show che fa leva sul pathos e sul mood epico e cupo dei singoli brani, minati tra l’altro da un impianto sonoro inizialmente problematico, soprattutto al basso e alla chitarra, che sparisce letteralmente a una certa.
Pazienza, non il migliore degli auspici, ma sta di fatto che queste canzoni per fortuna hanno sempre presa sulle legioni metalliche, e la possibilità di godere ancora una volta con “Chaos Descends”, “Black Machine” e “Join The Legion” non può che risultare succosa, malgrado anche la stanchezza di tutta la giornata in piedi a forza di sferzate d’acciaio.
Conserviamo, a questo punto, la speranza che la band possa eventualmente rivalutare la scelta dello scioglimento al termine del prossimo periodo, come già a volte lasciato intendere dallo stesso Robert Garven. (Roberto Guerra)
SABATO 5 OTTOBRE
Iniziamo questa ultima giornata con una delle esibizioni più attese del festival, almeno per quanto riguarda noi appassionati sempre in cerca di nuove leve vincenti. Dell’esordio dei tedeschi KERRIGAN abbiamo parlato con sommo gaudio in fase di recensione, e ci piace constatare che anche dal vivo i loro pezzi riescono davvero a risultare piacevoli e convincenti, nonché superiori alla media di un filone in cui spesso sembrano volersi fare avanti band con poco da dire.
Magari non proporranno pressoché nulla di nuovo, ma estratti come “Bloodmoon” e “Forces Of Night” andrebbero presi letteralmente ad esempio quando si sceglie di immettere sul mercato un disco di classico heavy metal con poche velleità innovative, ma con molti spunti per essere ficcante.
Ogni membro coinvolto svolge ottimamente il proprio compito, e il frontman Jonas Weber mostra disinvoltura e divertimento nella sua posizione, e anche tra gli astanti sembrano essere in tanti a ritenere quanto proposto da questi ragazzi qualcosa da tenere assolutamente d’occhio. (Roberto Guerra)
Meno entusiasti invece per quanto riguarda gli staunitensi LEGENDRY, la cui popolarità nell’underground ci è sempre parsa un po’ sovradimensionata per via di alcune loro soluzioni non del tutto conformi con ciò che servirebbe ad una line-up di primordine, tra cui una produzione inutilmente arcaica dei dischi, decisamente non valorizzante per dei brani come “The Wizard And The Throne Keep” e “Sigil Strider” che, al contrario, avrebbero del potenziale, perlomeno su disco.
Dal vivo, a titolo personale riteniamo che i Legendry non rappresentino esattamente l’esempio più eclatante di live band, in quanto riteniamo che il loro show possa sì stimolare delle emozioni a chi mangia pane ed heavy/power, ma anche qualche sbadiglio per via di una sorta di prolissità e lentezza di fondo.
Ciò nonostante, i punti di forza non mancano, compresa una sorta di ricerca dell’atmosfera anche tramite l’ausilio di chitarre con due manici, nonché la chicca di “Necropolis” dei Manilla Road in veste di omaggio all’iconica band americana, in chiusura di uno show composto da soli sei brani, cover compresa. (Roberto Guerra)
Facciamo tappa in territorio giapponese con il trio FASTKILL, il cui concerto si potrebbe riassumere banalmente con il concetto di fare casino per divertirsi insieme. Questo trio di matti è dedito infatti ad una sorta di speed metal con influenze punk, proposto in maniera a dir poco caotica e, a tratti, confusionaria nella sua aggressiva semplicità; un po’ come se la volontà di tener fede a determinati stilemi legati alla pulizia esecutiva fosse stato del tutto messo da parte, in favore della più becera volontà di spaccare tutto strimpellando chitarra e basso a velocità ragguardevoli, mentre la batteria tiene un ritmo forsennato. Ciò compone il mosaico di un concerto non così facile da etichettare come positivo o negativo, in quanto riteniamo dipenda tutto da quanto ci ha permesso di divertirci, e da quel punto di vista non ci sentiamo di lamentarci, e tra i presenti sono molti a risultare piacevolmente divertiti.
Sul fronte puramente musicale, tecnico ed esecutivo, invece, siamo decisamente su uno scalino piuttosto basso, a causa dell’eccessiva presenza di imprecisioni e momenti di pura caciara. In poche parole, simpatici quanto evitabili. (Roberto Guerra)
La vecchia guardia torna di nuovo al comando quando alle 15.15 partono, puntualissimi, i grandi inglesi PRAYING MANTIS con una situazione speciale per la data odierna, che vede impegnati al microfono entrambi gli storici fratelli Troy e con una scaletta dedicata al periodo storico della band, in particolare al loro disco più glorioso ovvero “Time Tells No Lies”.
La partenza grintosa e decisa con “Panic In The Streets” mette subito in chiaro le cose: il gruppo vuole onorare l’occasione, divertire e divertirsi; il pubblico da parte sua canta e si esalta, continuando ad emozionarsi quando le note di “Lovers To The Grave” escono dalle casse.
Fa il suo ingresso sul palco anche John Cujpers, cantante attuale della band, e i tre si dividono così i restanti pezzi da interpretare. La patinata “Borderline” pescata dall’altro loro gran disco, “Predator In Disguise”, conquista con il suo refrain catchy, assieme alla più scrosciante “Time Slipping Away”.
Tino Troy alla chitarra è carico come una molla, incita i presenti e l’esplosiva “Flirting With Suicide” e la conclusiva “Children Of The Earth” sono da esaltazione pura.
La NWOBHM, nella sua forma più melodica, fa pieno centro con gli immortali Praying Mantis! (Federico Orano)
Abbastanza evitabile la parentesi dedicata all’accoppiata STRESS/METAL LADY, che per chi non lo sapesse, altro non sono che due realtà più o meno storiche dell’heavy metal ungherese, anche se in questo caso sarebbe più giusto dire che la prima parte del concerto è dedicata appunto agli Stress, che però nella seconda parte si rendono accompagnatori della bionda vocalist Ilona Bíró per l’esecuzione di alcuni estratti del suo progetto Metal Lady, datato 1989, appena in tempo per la caduta del muro.
Il risultato è curioso e bizzarro, soprattutto considerando che stiamo ascoltando dell’heavy metal in lingua ungherese, ma l’efficacia e la cura esecutiva ci risultano piuttosto arcaiche e traballanti, rendendo questo show una sorta di vero e proprio richiamo prevalentemente per gli ungheresi e per chi vive di glorie mai scoperte del genere, magari provenienti dai paesi meno conosciuti per il genere espresso. In breve, un concerto non memorabile, ma apprezzabile per chi non è mai sazio di formazioni passate in sordina. (Roberto Guerra)
Pochi fronzoli, nessuna inutile perdita di tempo e limitatissime anche le parole spese con il pubblico; solamente tanta dedizione per quarantacinque minuti di heavy metal old-school dalle atmosfere esoteriche con i SAVAGE MASTER.
A dettare tempi e siparietti sul palco la brava cantante Julien Fried, che dopo un brano o due scalda l’ugola e convince con la propria performance: forse non una voce da tramandare ai posteri, ma una personalità importante che tra fruste, spade e sangue (che compaiono sul palco qui e lì), detta legge, circondata dai suoi fidati musicisti tutti incappucciati e ‘schiavi’ della frontgirl americana.
La band del Kentucky spinge subito forte con la massiccia “Ready To Sin” prima di tuffarsi sui ritmi spediti di “The Hangman’s Tree”. Le chitarre si fanno sentire, con il loro sound molto rètro, e i cori danno il loro supporto alla voce ruvida di Julien durante il midtempo bellicoso “With Whips And Chains”, e nella massiccia “The Ripper In Black”, dai connotati thrash.
Che grinta per i Savage Master, capace di mettere in piedi uno show energico, teatrale e coinvolgente, che si chiude con la spigolosa “Hunt At Night” e la possente “Spirit Of Death”. Bravi! (Federico Orano)
All’interno di un festival strapieno di band heavy metal, spesso anche di quello roccioso e possente, i VICTORY potevano rischiare di essere un po’ fuori posto? Certo che no, perchè l’hard rock potente e corposo dei nostri si esalta dal vivo.
La band di casa – visto che è originaria della regione della Bassa Sassonia – può contare su un sound corposo e diretto, e l’ugola ruvida di Gianni Pontillo, unita alla grinta dello storico chitarrista Herman Frank e dei suoi colleghi, fanno dello show dei Victory uno dei più eccitanti dell’intero festival.
La setlist si concentra sui brani storici, pescati dalle super produzioni degli anni Ottanta: come resistere all’impatto anthemico di “Rock The Neighbours” e alla grintosa “Are You Ready”? L’esaltazione del pubblico è infatti palpabile. Rocker o metaller, come li si voglia chiamare, più datati o di giovane età, tutti si uniscono insieme per cantare i brani più rappresentativi della band, come la diretta “Take The Pace”, estratta anch’essa dall’amatissimo disco “Temples Of Gold”, la più datata “Hungry Hearts” ed il super inno tutto “Always The Same”.
La prestazione di Gianni al microfono è perfetta, ed i brani dei Victory si prestano ad essere detonati dal vivo, conquistando l’intera platea.
Uno show infuocato che nei sessanta minuti a disposizione riesce a proporre ben quattrodici canzoni, senza perdite di tempo, assoli vari e cose simili: solo una vagonata hard’n’heavy che si chiude sulle note tumultuose di “On The Loose” e con la possente “Check’s In The Mail”.
Che energia per i Victory, band di casa che ha messo a ferro e fuoco il Posthalle con uno show davvero maiuscolo! (Federico Orano)
Con la ruggente LEATHER si va sempre incontro a emozioni, e questo lo pensiamo da quando ci siamo imbattuti nei vecchi lavori dei Chastain, ma sarebbe ingiusto relegare il ben fatto da parte della iconica cantante statunitense alla sua sola band storica principale.
Infatti, i suoi lavori solisti ci sono piaciuti molto, incluso il recentissimo “We Are The Chosen”, una delle migliori uscite heavy metal del 2022. Dal suddetto lavoro viene oggi proposta solamente la title-track, mentre il resto dello show è tutto dedicato alla sopracitata e storica epic metal band, con brani del calibro di “Ruler Of The Wasteland”, “Live Hard”, “Angels Of Mercy” e “Voice Of The Cult”, eseguite in questa sede con passione ed energia, anche grazie all’ausilio di un turnista di primordine come Bryce VanHoosen dei Silver Talon, che con la sua vena da shredder dona un sapore aguzzo ed elettrizzante ai numerosi assoli.
La asciuttissima cantante conserva ancora un’ugola invidiabile e grinta da vendere, nonché un autentico amore per l’heavy metal che l’ha accompagnata nel corso della sua vita, nonostante una carriera un po’ travagliata a tratti, e possiamo affermare come sia stata in grado di confezionare uno show sorprendente e ben superiore rispetto all’ultima volta che avevamo avuto modo di vederla in azione.
Peccato per la scarsa presenza di suoi estratti solisti, ma poco male, anche perché non si può assolutamente sputare su una rievocazione della storia del metal di tale portata. (Roberto Guerra)
Se la giornata del venerdì ha presentato alti e bassi, il sabato è stato leggendario! Con ancora l’adrenalina ben presente e palpabile a seguito degli show precedenti (soprattutto l’accoppiata Victory-Leather), si apprestano a salire sul palco i veterani Y&T, band dalla classe infinita e autori di grandi dischi in passato.
Trattandosi infatti del tour del cinquantesimo anniversario, le aspettative erano alte, ma il risultato è stato anche superiore: ciò che abbiamo vissuto in quel di Wurzburg è stato uno show di una precisione, di un coinvolgimento, di un calore unici.
Tutta la band ha funzionato alla grande, ma un musicista ha attirato ovviamente le attenzioni di tutti: parliamo dello storico leader Dave Meniketti. Raramente, crediamo, si sia visto su un palco un unico musicista capace di prendersi sulle spalle l’intero show e dare spettacolo per un’ora e quindici minuti. Cantante e chitarrista solista superlativo, ma anche ottimo showman capace di coinvolgere i presenti: insomma una personalità unica, che quasi ha messo in ombra i pur bravissimi compagni di palco.
Al resto ci hanno pensato i brani, pescati dalla lunga discografia dei Y&T, e poter iniziare la scaletta con un brano come “Black Tiger” non è da tutti. Proseguire poi lo show con eterne hit come “Rock & Roll’s Gonna Save the World”, “Struck Down”, “Rescue Me” e “Mean Streak” è da band di livello superiore.
“Don’t Stop Runnin’” ha fatto perdere la voce a molti dei presenti durante il suo refrain, mentre il melodic rock dell’era più patinata della band di San Francisco (ci riferiamo allo splendido album “Ten”) ha conquistato con “Don’t Be Afraid Of The Dark”, ma i momenti più esaltanti sono arrivati con la sognante “Winds Of Change”, grazie ad un Meniketti ancora sopra le righe, e poi con le più rockeggianti “Midnight In Tokyo” e “Forever”, due inni dall’impatto esplosivo.
Cinquant’anni di musica per i Y&T, che ancora restano maestri indiscussi. Tutti in piedi per questi fenomeni! (Federico Orano)
Diciamo la verità, dopo una giornata del genere e a seguito di uno show leggendario da parte dei Y&T, si poteva chiudere già così la serata; saremmo tornati tutti in albergo contenti e soddisfatti, già con la pancia bella piena e ripagati del viaggio fatto per arrivare fino a Wurzburg.
‘Peccato’ che all’appello mancassero ancora i veri headliner del festival, una band attesissima – visto il ritorno in azione dal vivo dopo tanti anni – anche per la presentazione di un nuovo cantante, Travis Willis, che si porta dietro la pesante responsabilità di non far rimpiangere troppo il grandissimo e compianto Midnight.
Ecco quindi i CRIMSON GLORY, che fanno il loro ingresso sul palco sulle note tumultuose di “Valhalla”. Manca all’appello Ben Jackson, chitarrista storico, che vediamo apparire solo dopo un po’; forse qualche problema tecnico o forse una scenetta studiata a tavolino? Non sappiamo darci la risposta corretta. Quel che è certo è che la voce di Travis risulta un po’ troppo bassa, nascosta da chitarre corpose.
L’esaltazione è alle stelle, tanti si muovono, saltano, pogano e iniziano a volare corpi, trasportati con un crowd surfing che tiene impegnati a lungo gli addetti alla sicurezza.
“Dragon Lady” è un altro pezzo leggendario, sparato a mille e cantato da tutti. Il microfono viene alzato, i suoni riequilibrati, e finalmente si riesce a gustare lo show in tutta la sua completezza.
Ci si accorge quindi subito che Willis è un cantante fenomenale: ripetere alla perfezione ciò che faceva Midnight è impossibile, ma Travis ci va davvero vicino ed esordisce alla grande meritandosi subito il rispetto e l’amore di tutti i fan della storica band della Florida, che riconoscono il suo valore.
La setlist è incentrata sui due dischi leggendari del gruppo, due capisaldi dell’heavy americano: “Crimson Glory” e “Transcendence”.
“Lady Of Winter” e “Where Dragons Rule” sono due pezzi magniloquenti, e la band dimostra un certo affiatamento, anche se questo show è l’esordio su un palco con questa formazione. Siamo certi che abbiano sentito un po’ di pressione, ma l’accoppiata alle chitarre formata da Mark Borgmeyer con il già citato Ben Jackson, fa spettacolo: quello di cui siamo testimoni è un livello tecnico elevatissimo, al quale partecipa ovviamente anche la sessione ritmica con i notevoli Dana Burnell e Jeff Burns, entrambi membri storici.
Quando la chitarra acustica fa il suo ingresso intonando le note della meravigliosa ballata “Painted Skies”, qualcuno si è certamente emozionato, ed ritornello è cantato a gran voce da tutti. La possente “Masque Of The Red Death” colpisce invece con il suo tocco sci-fi, mentre trova spazio anche la nuova “Chasing The Hydra”, che andrà a formare il prossimo disco in lavorazione. Dopo l’anthemica “Eternal World”, la favolosa “Azrael” colpisce senza pietà con gli acuti taglienti di Travis.
La band saluta il pubblico ma torna presto sul palco per un encore da brividi: l’intensa e profonda “Lost Reflection” è interpretata in maniera formidabile dal nuovo cantante, risultando uno dei momenti indimenticabili dello show, e l’accoppiata “Lonely” – “Red Sharks” è da manuale e chiude lo spettacolo in maniera straordinaria.
Un’autentica bolgia per uno show che rimarrà impresso nella storia: bentornati Crimson Glory! (Federico Orano)