2-4/10/2025 - KEEP IT TRUE RISING 2025 @ Posthalle - Wurzburg (Germania)

Pubblicato il 02/11/2025 da

Report di Federico Orano e Roberto Guerra

Addio Posthalle, Auf Wiedersehen Wurzburg. Sì, stavolta è proprio l’ultima edizione del Keep It True Festival nella sua versione denominata ‘Rising’, quell’evento nato durante il Covid-19 per dare la possibilità a band e fan di tornare a vivere la musica dal vivo, quando l’originale Keep It True di Aprile venne annullato.
Da lì ben cinque edizioni, quest’ultima arrivata in extremis, forte di una richiesta decisa da parte dei tanti seguaci dell’heavy metal più classico che lo scorso anno hanno rifiutato di accettare la conclusione di questo evento.
Non ci sarà una nuova edizione nel 2026, questo è certo. Il Posthalle, storico edificio che erge a fianco della stazione dei treni di Wurzburg che tanti anni fa svolgeva il compito di magazzino e smistamento della posta, verrà dismesso e ristrutturato per essere poi dedicato ad altri scopi. Ma possiamo già anticipare che la mente che muove i fili di questi eventi, Oliver Weinsheimer , sta già lavorando a qualcosa di nuovo che verrà rivelato a breve.

Intanto possiamo archiviare questa quinta edizione in grado di regalarci delle grosse emozioni fin dalla serata di giovedì 2 ottobre, con un warm-up ricco di energia che poteva già contare su numerosi e fedelissimi appassionati presenti.
E poi nelle giornate di venerdì e sabato con una full-immersion di musica dal vivo a partire dal mezzogiorno fino ad oltre mezzanotte, con dieci band che per ogni singola giornata si sono susseguite sul palco.
Delusioni? Poche! Esaltazione? Tanta! All’interno di un ambiente per molti ormai familiare, tra saluti e brindisi (prosit!) tra amici, un giretto al sempre folto mercatino musicale con così tante bancarelle delle migliori label del settore (No Remorse, Dying Victims e tante altre; assente stavolta la nostra Cruz Del Sur) – per la gioia delle nostre tasche! – ed un giretto nell’area esterna per una pausa cibo.
Probabilmente quest’ultima edizione non sarà stata la migliore in fatto di qualità generale delle band presenti – anche se ciò, a dire la verità, è abbastanza legato ai gusti personali, ma un’organizzazione ancora impeccabile e la presenza di alcune chicche di gruppi altrimenti difficili da incontrare in giro per il nostro continente (RisingFall dal Giappone e Phantom dal Messico, ad esempio) oltre che a molte setlist speciali, rendono sempre il Keep It True un evento unico ed irrinunciabile. A voi il resoconto di come è andata.

GIOVEDI’ 2 OTTOBRE

Uno dei motivi che rendono il Keep It True unico nel suo genere è la possibilità di incontrare band che altrimenti mai verrebbero in europa a suonare; per esempio, praticamente in ogni edizione la presenza di un gruppo giapponese è pressocchè assicurata.
Stavolta tocca ai RISINGFALL, band di Tokyo che con il debutto “Rise Or Fall” del 2022 ha dimostrato di saperci fare con un heavy metal esplosivo. Tanti altri gli EP pubblicati, e quando è ora di aprire le danze della quinta edizione del festival, il quartetto nipponico fa proprio ciò che una band giovane e che si sta giocando le sue carte davanti a così tanta gente dovrebbe fare: eseguire bene i brani e dimostrare una gran carica.
I RisingFall ci riescono perfettamente, spinti in particolare da un indiavolato G.Itoh, cantante che corre su e giù per il palco senza mai fermarsi e mostrando una grinta notevole.
Per il gruppo è un’occasione immensa poter esibirsi  davanti al pubblico più appassionato e preparato del mondo, che infatti conosce alcuni brani proposti e li canta con decisione, alzando così alle stelle l’adrenalina generale. Rispetto alle versioni su disco, qui i pezzi vengono eseguiti ancora più veloci.
La trascinante “Rock Fantasy”, la tagliente “RisingFall” e la grintosa “Kamikaze” sono certamente gli highlight di questo show. Che dedizione per questi RisingFall! (Federico Orano)

I primi vocalizzi al femminile per l’edizione corrente sono affidati agli americani LADY BEAST, il cui ultimo album “The Inner Alchemist” ha visto la luce a marzo di questo stesso anno.
Gran parte della setlist pesca dall’opera in questione, inclusa la iniziale “Through The Eyes Of War” e la conclusiva “Crone’s Crossroads”, che chiude lo show a suon di mazzate e velocità; il tutto con, in più, parecchi estratti dal predecessore “The Vulture’s Amulet” e qualche menzione isolata ai dischi più datati, anche se parliamo comunque di una formazione relativamente giovane.
L’energia e l’attitudine non mancano, e la frontwoman Deborah Levine fa del suo meglio per intrattenere al meglio gli astanti, svolgendo in maniera più che adeguata il proprio compito sul fronte scenico. Leggermente meno efficace l’esecuzione nuda e pura: riteniamo che sarebbe servito qualche sfoggio caratteristico e tecnico in più, per valorizzare un songwriting piacevole, ma anche abbastanza basico nelle sue soluzioni heavy/power alla vecchia maniera.
Tuttavia, riconosciamo di aver trovato in sede live una grinta maggiore, rispetto a quanto riscontrabile su disco, stupendoci in positivo e permettendoci di salutare la band di Pittsburgh con un sincero applauso, nonché con una discreta dose di esaltazione accumulata. (Roberto Guerra)

I SEVEN SISTERS sono attesi da molti fan che si avvicinano, occupando le prime file, pronti a cantare i brani proposti dal gruppo inglese. Un approccio più elegante e melodico caratterizza infatti il gruppo che qualche mese fa ha dato alle stampe la seconda parte dell’opera “Shadow Of A Fallen Star. Pt.2”, un disco capace di far fare un ulteriore passo in avanti ai Seven Sisters.
La partenza però arriva con “Blood And Fire”, midtempo che si esalta sulle note vocali esemplari cantate da Kyle McNeill, artista che ha conquistato i cuori di tanti ascoltatori anche con il suo progetto (maggiormente prog-rock) Phantom Spell.
I suoni sono puliti, l’esecuzione è perfetta; forse alla band manca un pizzico di energia sul palco, ma è anche vero che il gruppo londinese punta più sulla raffinatezza che sulla grinta. “Heart Of The Sun” estratta proprio dal nuovo disco, ha un impatto superlativo con i suoi ritmi più scroscianti e melodie celestiali.
Il pubblico è in sintonia con la band e canta senza esitare un attimo, e si esalta quando è il turno di “The Artiface”, pezzo diventato ormai immancabile all’interno delle loro setlist. In effetti, il suo incedere riesce a conquistare e la ciliegina sulla torta arriva con un refrain irresistibile.
A sopresa lo show si chiude con la riproposizione della lunga suite presente su “Shadow Of A Fallen Star, Pt.2” e intitolata “Andromeda Descending (A Fallen Star Rises)”; oltre venti minuti di heavy-power metal progressivo eseguiti a regola d’arte dal gruppo che ringrazia per il calore ricevuto.
Suonare al Keep It True è sempre un traguardo importante, ritornarci non è da tutti: i Seven Sisters lo fanno da protagonisti e se ne vanno tra gli applausi! (Federico Orano)

C’era attesa per BLAZE BAYLEY, che non solo fa tappa a Wurzburg durante il tour che omaggia i trent’anni di “X-Factor” – primo disco che il cantante inglese pubblicò con gli Iron Maiden – ma che esattamente  il 2 Ottobre di trent’anni fa veniva dato alle stampe.
Lo ricorda proprio Blaze quando sale sul palco, eseguendo l’album in rapida successione dalla prima all’ultima traccia, raccontando tra un brano e l’altro qualche aneddoto riguardante quei tempi: di come la sua vita sia cambiata grazie a quella chiamata dei Maiden, di come molte sue idee siano state accolte da Harris e soci per la composizione di questi brani, di come i sogni di un ragazzo che in quel momento della sua vita era fortemente demotivato da un lavoro che lo disgustava (la canzone “2 A.M.” è scritta da Blaze e racconta della sua vita quotidiana prima di entrare nei Maiden) si sono avverati continuando a crederci.
Lo show è stato davvero entusiasmante; la band che Blaze si porta dietro sa suonare davvero ed il cantante londinese ha regalato una prestazione vocale di livello; i tantissimi anni di esperienza che si porta sulle spalle si notano nel modo con il quale tiene il palco ed interagisce coi presenti, dimostrandosi un vero intrattenitore oltre che cantante.
I momenti migliori arrivano con l’opener “Sign Of The Cross”, che parte dopo la classica intro usata anche dai Maiden, “Doctor Doctor” degli UFO – e che verrà usata e suonata anche come outro finale – e la classica “Man On The Edge” ma dobbiamo ammettere che hanno funzionato alla grande anche la più cupa e teatrale “Fortunes Of War” e la malinconica lenta “2 A.M.”, brani che incarnano proprio il mood portante di un disco spesso sottovalutato.
Da segnalare nell’encore l’esecuzione di “Virus”, brano mai suonato prima in sede live, e bonus track di quel “X-Factor” (presente anche nella raccolta e best-of “Best Of The Beast”) e la raggiante “Futureal”, pezzo che ha avuto un impatto davvero caloroso.
Onore a Blaze, cantante che incarna davvero lo spirito dell’heavy metal! (Federico Orano)

Alcune gioie e parecchi dolori invece per il progetto REMEMBER TOMORROW, assemblato proprio per commemorare il nome del compianto Paul Di’Anno. Già, perché riteniamo lapalissiano che non sia sufficiente mettere insieme alcuni vecchi musicisti, di cui alcuni con – come unico ‘merito’ noto – l’essere stati parte di una versione embrionale degli Iron Maiden, come Terry Wapram, Terry Rance e Barry Graham Purkis, che dei tre rimane quello più professionale, complice una carriera degna di rispetto.
Certo, il contributo dell’onnipresente Tino Troy (Praying Mantis), del cantante Roger Stockbroeks e del buon Andread Neuderth fornisce una valida spinta verso l’alto, ma sentire pezzi mitici ed immortali del vecchio repertorio degli Iron Maiden, come “Prowler” e “Wrathchild”, suonati con una dose così massiccia di imprecisioni, errori, cambiamenti e storture non è esattamente il massimo, il che spiega anche il progressivo svuotamento della venue, nonostante una scaletta così leggendaria nelle sue connotazioni generali. Volendo fare un esempio, senza esagerare, sentire “Purgatory” con strofa e ritornello totalmente mischiati ci ha fatto digrignare i denti non poco.
Fa piacere anche udire un paio di menzioni ad altre parti della carriera di Paul, e ci riferiamo a quelle “The Beast Arises” e “Children Of Madness”, rispettivamente dai progetti Killers e Battlezone, davvero rare da sentire in sede live e da non dimenticare.
Il punto è che troviamo davvero pochi elogi da fare allo show in questione, a parte ovviamente la fortissima impronta nostalgica, poiché il tutto si presenta quasi più simile ad una jam session tra vecchi amici, rispetto allo show conclusivo della giornata di riscaldamento di un importante festival di settore.
A maggior ragione dopo un’esibizione tanto sfavillante da parte di Blaze Bayley, anch’egli parte integrante della storia degli Iron Maiden, per quanto ingiustamente sottovalutato. (Roberto Guerra)


VENERDI’ 3 OTTOBRE

Inauguriamo la prima giornata ufficiale di festival con i messicani PHANTOM, giovanissima formazione di genere speed/thrash e con all’attivo già due album che potremmo definire simpatici e gradevoli, soprattutto se si è degli amanti della classica formula consacrata da illustri colleghi come gli Slayer o i Kreator.
Il loro show è breve, conciso e diretto al punto, con una buona impostazione di base, anche se il tutto tende a risultare un tantino piatto e ridondante col procedere della scaletta, seppur non in modo grave o meritevole di una critica esageratamente mirata.
Alla fine dei conti la loro proposta è impattante, e considerando che parliamo di una band di ventenni, messi peraltro in una posizione abbastanza impegnativa all’interno del bill, riteniamo di poterci pure lasciar andare ai primi headbanging della giornata sui graffianti rintocchi di “Thunderbeast”, “Violent Invasion” e “Handed To Execution”, che più di qualcuno in sala ascolta con un bel sorriso da thrasher stampato in faccia.
Ci sarebbero un po’ di dettagli da limare, come una personalità musicale ancora in fase di definizione e un tiro generale anche troppo costante, ma nella loro piacevole ignoranza i ragazzi la portano a casa con entusiasmo. (Roberto Guerra)

Dopo i quarantacinque minuti fin troppo cupi e monocorde dei Phantom, ci voleva una sterzata che purtroppo non è arrivata con i francesi PALANTYR, band che ha colpito alcuni appassionati del genere con il disco uscito da qualche mese intitolato “The Ascent & The Hunger”.
Il loro è un heavy metal che deve molto alle sonorità settantiane e che musicalmente possiede dei buoni spunti, anche se risulta a tratti ancora un po’ acerbo. Ma in sede live a non funzionare per niente è la voce della cantante Athéna, che già su disco ci aveva lasciati con qualche dubbio. Qui proprio non ci siamo: non sappiamo se abbia avuto qualche problema di salute, ma la partenza è proprio da dimenticare con più di qualche stonatura.
Le cose migliorano un po’ con l’andare dello show ma le difficoltà, in particolare sulle note alte, sono evidenti. Ci chiediamo, forse sono proprio i pezzi a non essere adatti alla sua voce? E anche i brani, ben eseguiti ma ai quali manca quell’impatto capace di conquistare con facilità in sede live (con un coro, un ritornello, un riff esaltante) faticano ad incendiare il pubblico, che ascolta con attenzione, mentre qualcuno decide di approfittarne subito per un break in direzione mercatino dei dischi o bar.
Per la band francese c’è ancora molta strada da fare e questa loro esibizione ne è la dimostrazione. (Federico Orano)

Che carica, invece, i POWER SURGE! Il loro debutto “Shadows Warning” ci aveva conquistati con un mix di heavy classico, heavy rock e US power e dal vivo la band formata da musicisti internazionali –  il cantante Nikolic dalla Croazia, il chitarrista Srđan Bilić dalla Bosnia assieme a Calvin Lever dall’Inghilterra, e poi una sessione ritmica con Milan Jejina, Serbia, al basso e Radek Koval, inglese di origini serbe, alla batteria – non delude le aspettative riproponendo praticamente tutti i pezzi dell’esordio.
Se la partenza è a marce medio-basse con “Breathe New Life”, ci pensano le super hit “A Dream Into A Nightmare”, “Last Man Standing” e “Shadows Warning” a far scoppiare le prime file che saltano, alzano il pugno al cielo e cantano a gran voce. Nikolic è un bravo intrattenitore e non fa mai mancare una buona dose di energia e i suoi compagni sul palco sono precisi e determinati. Una bella occasione anche per loro per mettersi in mostra davanti al pubblico più preparato probabilmente dell’intero globo. Se qualcuno non conosceva ancora i Power Surge, dopo questo show crediamo si sia subito fiondato a comprare il disco.
La band ha messo in campo uno degli show più infuocati della giornata per quarantacinque minuti ricchi di passione ed energia! (Federico Orano)

Ci perdoneranno la band e gli organizzatori se definiamo gli HELVETETS PORT come un gruppo strampalato, nel bene e nel male. Portano la loro musica festaiola, spensierata e goliardica vestiti da barbari sul palco, sguainando una spada palesemente comprata in qalche negozio di paccottiglia.
Eppure, questi svedesi hanno anche dei pezzi capaci di far cantare gli appassionati (ciò che mancava ai Palantyr ad esempio) come la piacevole “Black Knight”, presa dal disco “Warlords” del 2024. Ma canzoni come la stessa “Helvetets Port” e “Helvete På Larvfötter” cantata in svedese, mostrano dei limiti compositivi evidenti.
Certo che, se anche su disco l’esecuzione è abbastanza scolastica, dal vivo non cambia, anzi. Con gli anni la band è leggermente migliorata, ma continua a restare a galla su livelli solamente discreti.
Il finale con la discutibile “Lightning Rod Avenger”, un po’ sconclusionata, racchiude un po’ il mood dello show.
Una prestazione divertente, ma onestamente siamo sicuri che la band sia degna di calcare un palco così importante, con tutte le band che ci sono là fuori – un po’ da tutto il mondo, Italia compresa – molto più meritevoli? (Federico Orano)

Si torna a menar legnate con i teutonici DARKNESS, che a distanza di quarant’anni dalla loro formazione riescono ancora a far scuotere la testa al pubblico, soprattutto quando partono rasoiate come “Death Squad”, “Burial At Sea” e “Iron Force”, provenienti da quella perla che è ancora il loro disco d’esordio.
Purtroppo, quando si tratta di sfociare nei lavori successivi, la band capitanata dal batterista Andreas Lakaw sembra arrancare, non riuscendo a colpire con la stessa efficienza riscontrabile nei pezzi sopracitati, rendendo il concerto attuale abbastanza scostante nella sua volontà di infliggere colpi possenti agli ascoltatori possenti.
Se poi consideriamo che il thrash metal avrà parecchio da dire nelle ore successive, capite bene che lo show dei Darkness è destinato a uscirne con un voto superiore alla sufficienza, ma comunque lontano dall’eccellenza, sebbene non ci sia affatto dispiaciuto concederci qualche primo accenno di moshpit in loro compagnia. (Roberto Guerra)

HIGH SPIRITS è sinonimo di qualità! Certo, disco dopo disco il gruppo americano non ha saputo rinnovarsi e il loro sound è diventato un po’ ripetitivo, ma il loro heavy metal frizzante e melodico riesce sempre a conquistare, eseguito a perfezione dalla band.
Ce ne vorrebbero di più, di band oneste e sincere come gli High Spirits, che per quarantacinque minuti tirano dritti senza pause piazzando pezzi esaltanti come l’opener “Flying High” con i suoi ritmi scroscianti e la diretta “In The Moonlight”, capace di conquistare già al primo ascolto. La voce pulita e limpida di Chris Black, assoluto mastermind del gruppo, accompagna i presenti senza mai fermarsi; gli altri musicisti sul palco che lo accompagnano sono decisamente validi e competenti e non sbagliano un colpo.
Trova spazio anche “Memories”, cover degli Europe, e nel finale non poteva mancare la super hit “High Spirits”, tutta da cantare prima di lasciar spazio all’elegante “Nights In Black” per chiudere in gran stile tra gli applausi.
Gli High Spirits, forse in Italia conosciuti da pochissimi, sono una band meritevole: hanno grinta, i loro pezzi possiedono sempre un gran tiro e dal vivo sono una sicurezza. (Federico Orano)

I doomster americani THE OBSESSED rappresentano probabilmente la formazione più oscura e introspettiva tra quelle presenti in questa ultima edizione del Keep It True Rising, capitanati come sempre da quel frontman grintosissimo che risponde al nome di Scott ‘Wino’ Weinrich, che in molti considerano il principale promotore del celebre sound sabbathiano sul continente americano.
Difficile negargli questo onore, anche e soprattutto in questa sede, in cui il musicista del Maryland porta in scena uno spettacolo tutto incentrato su uno dei suoi lavori più discussi, ovvero quel “The Church Within” datato 1994, di cui vengono proposti ben undici estratti in ordine sparso, eseguiti con cura e creando un’atmosfera oscura che rimarrà ineguagliata per tutto il resto del festival.
Il sound è cupo e cavernoso come da prassi, e il mitico Wino è un leader con tutti i crismi, dotato di un’attitudine maiuscola e di un timbro vocale perfetto per il genere proposto. Qualcuno qui e là lamenta l’assenza di estratti dai primi due album di inizio anno ’90, ma trattandosi di uno show commemorativo la band decide di dedicare l’intera setlist al lavoro sopracitato, con un risultato invero molto convincente e in linea con le aspettative.
Tutti gli amanti di doom metal presenti sorridono di gusto, la band si mostra coinvolta e noi possiamo serenamente riconoscere che, finalmente, siamo entrati nel vivo del festival! (Roberto Guerra)

Parentesi a base di purissimo death metal classico con i LEFT TO DIE, che entrano in scena sui rintocchi di “E5150” dei Black Sabbath, prima di irrompere nell’impianto con una setlist micidiale e dedicata interamente a quel capolavoro immortale di “Scream Bloody Gore” dei Death, il quale non può che rappresentare, per tutti gli astanti, un autentico tuffo nel passato, agli albori del genere metal estremo per antonomasia.
Matt Harvey, direttamente dai Gruesome, sceglie consapevolmente di omaggiare Sua Maestà Chuck Schuldiner, fornendo nel contempo una prova da frontman, vocalist e chitarrista maiuscola e pregna di personalità, anche se le attenzioni maggiori vanno tutte a Rick Rozz e Terry Butler, rispettivamente chitarrista e bassista dei Death verso la fine degli anni ’80.
Inutile dire che il moshpit non tarda ad impadronirsi dei presenti, ottenendo risvolti a dir poco sanguinari in pressoché ogni brano, mentre Gus Rios pesta la batteria con precisione chirurgica: dalla iniziale “Infernal Death”, passando per le varie “Sacrificial” e “Baptized In Blood”, toccando l’apice su quella “Evil Dead” che incarna alla perfezione tutto lo spirito del death metal old-school, sulla quale ogni presente si spreme l’ugola fino a sputare i polmoni.
Dulcis in fundo, la band ci propone anche una sapiente uscita di scena con quella perla di “Pull The Plug”, opener del B-side del successivo “Leprosy”, altro album da incorniciare ed insegnare nelle scuole, esattamente come l’intera discografia dei Death.
Per quanto possiamo ritenere comprensibili le critiche che vengono mosse ad operazioni come questa, il risultato finale risulta talmente demolitivo, coinvolgente e, per certi versi, commovente da permetterci di soprassedere su qualsivoglia rimostranza. Se avete dei dubbi sul fatto che possa essere possibile piangere ad un concerto death metal, potete crederci sulla parola, e riteniamo che il mitico Chuck sarebbe fiero di quanto proposto in questa sede. Senza dubbio i migliori della giornata, finora. (Roberto Guerra)

Il concerto forse più atteso dell’intero festival è stato probabilmente quello degli ATLANTEAN KODEX, band che ritorna sul palco per la prima volta dopo un paio di anni di stop.
Il gruppo bavarese – entrato di diritto nel firmamento del genere grazie alla pubblicazione di tre capolavori con appunto “The Golden Bough (A Study in Magic and Religion)” del 2010, “The White Goddess (A Grammar of Poetic Myth)” del 2013 e “The Course of Empire” del 2019 – gioca in casa, ma in fin dei conti fa poco la differenza; anche gli appassionati arrivati da lontanissimo (Sud America e Giappone), hanno dimostrato il proprio affetto verso questi brani.
I Kodex non sono una band eccessivamente tecnica, ma suona brani articolati che riescono a conquistare con linee melodiche appassionanti. E mai come in questa occasione il pubblico ha cantato a squarciagola ogni testo accompagnando l’ugola del bravo ma non perfetto Markus Becker, a partire dalla maestosa “The Alpha And The Occident”, presa dal disco più recente, e con la massiccia “Lion Of Chaldea”, con il suo coro possente che esplode con gran vigore. L’immancabile e più diretta “The Atlantean Kodex” pescata dall’esordio, spinta dai riff di chitarra di Manuel Trummer e Coralie Baier, e la maestosa “Heresiarch” compongono un’accoppiata davvero mozzafiato, essendo due autentici inni di heavy metal epico.
La buona notizia, a sei anni dall’ultima vera pubblicazione, è che la band è pronta per registrare un nuovo disco; “Pattern” è il pezzo inedito che gli Atlantean Kodex vogliono presentare questa sera al loro pubblico, e possiamo ammettere che seguendo il classico sound del passato, la canzone sembra funzionare alla grande.
Il gran finale è apparecchiato, quindi ecco servite una dopo l’altra alcune delle hit irrinunciabili che la band ha composto negli anni: “Sol Invictus”, con il suo incedere imponente ed un coro al quale è impossibile resistere, la magniloquente “Twelve Stars And An Azure Gown” che rapisce con le sue melodie celestiali e infine la lunga suite “The Course Of Empire” ricca di sfumature che anche dal vivo riescono a conquistare riecheggiando e riprendendo la melodia che apre il disco ed anche la setlist.
Uno show stratosferico per pathos e calore, i Kodex sono tornati e sembrano pronti a regalarci ancora tante altre emozioni! (Federico Orano)

Chiudono le danze di questa prima giornata ufficiale gli inossidabili thrasher tedeschi DESTRUCTION, anch’essi intenti a rievocare uno dei loro album di punta, ovvero quella perla demolitiva di “Infernal Overkill”, loro disco d’esordio che quest’anno spegne quaranta candeline.
La prima parte della scaletta è composta dalle otto tracce dell’album di cui sopra, incluse “Invincibile Force”, “Tormentor” e l’immancabile “Bestial Invasion”, mentre nella seconda parte il tutto mantiene comunque la vena nostalgica, in quanto l’estratto più recente risulta essere proprio la conclusiva “Release From Agony” dall’album ominimo, datato 1987.
Oltre al piglio dato da una setlist pressoché impeccabile, il godimento vero e proprio origina dalla ritrovata energia con cui i Destruction ci battezzano ultimamente durante i loro concerti: la band capitanata da Marcel ‘Schmier’ Schirmer ultimamente non fa prigionieri, mietendo direttamente un numero imprecisato di vittime ad ogni concerto e suonando al massimo della velocità, mentre un moshpit violentissimo si impossessa degli astanti a ritmo di thrash metal inossidabile e distruttivo; probabilmente anche grazie alla coppia d’asce subentrate recentemente, durante il rinnovamento della line-up avvenuto negli ultimi anni.
Considerando lo scetticismo manifestato da alcuni sul web, in merito ad un headliner apparentemente più banale rispetto ad altre edizioni, non possiamo che essere entusiasti di essere colpiti in piena faccia per un’ora e mezza da una band che ha, evidentemente, ancora parecchie cartucce da sparare, nonché da insegnare come si mette su un concerto thrash violento e diretto al punto, che ricorderemo probabilmente come uno dei migliori del festival. (Roberto Guerra)

 

SABATO 4 OTTOBRE

Sono delle furie gli ANTAGONIZOR, terzetto americano giunto in Europa per colpire con un sound grezzo, diretto e aggressivo, presentando il loro disco di debutto “Edgelords From Hell”.
Venom e Motorhead si incontrano attraverso un sound che vira a tratti anche verso il punk (quasi alla Misfits) ed il thrash in un miscuglio sonoro che potrebbe non soddisfare tutti, ma che – va riconosciuto – riesce a tenere tutti i presenti concentrati sull’esibizione dell’indiavolata Sarah Antagonizör, cantante e chitarrista della band; un personaggio unico con il suo approccio blasfemo e la sua voce ruvida e gutturale.
La compagna Tzu Wei si muove al basso con dedizione, così come dietro le pelli fa lo stesso un grintoso Drum Slave, nickname che viene confermato sul palco visto che la band durante lo spettacolo esce con catene e fruste simulando una specie di rapporto sadomaso.
La durata breve delle canzoni consentono al gruppo di riproporne ben dodici, tra le dirette “Motorcycle Girl” e “Into the Fire”, con chitarre dal suono grezzo e linee vocali incisive, passando per la demoniaca “Desire” fino al rock più classico e settantiano di “Smoke Grass, Eat Ass”.
Ben oltre le aspettative, queste sono le band perfette per scaldare l’audience ed iniziare al meglio (e così presto) i festival come questo! (Federico Orano)

Relativamente atipici, in proporzione al bill corrente, i tedeschi GRENDEL’S SYSTER, con la loro commistione di heavy e folk metal, concepita però in una maniera ancora potenzialmente affine con i gusti dei defender presenti in sala, in quanto la prima band che sovviene come esempio simile sono gli iconici Skyclad.
Un sound quindi orecchiabile, ma comunque relativamente ruvido, con un cantato gestito sia in lingua madre tedesca, sia in inglese, rigorosamente ad opera della frontwoman Caro, che in questa sede veste i panni di un autentico bardo cantore, intonando brani del recente full-length “Katabasis Into The Abaton/Abstieg In Die Traumkammer”, anch’esso proposto in due diverse lingue.
L’esibizione ha il suo perché, ci sono spunti per divertirsi e la band sembra piacevolmente coinvolta in quanto messo in scena quest’oggi. A livello di efficacia potremmo invece avere qualcosa da dire, in quanto l’impatto nudo e puro non è propriamente di casa e in alcuni frangenti sembra venire un po’ meno l’energia trascinante che ci piace tanto trovare a questi eventi.
Tuttavia, si tratta di considerazioni legate in buona parte al gusto dell’ascoltatore, e in fin dei conti un sorriso ci è spuntato nel lasso di tempo a loro dedicato, rigorosamente sorseggiando la prima birra della giornata. (Roberto Guerra)

La vera sorpresa del festival giunge con gli americani VOID, direttamente dalla Louisiana, i quali hanno un compito importante da svolgere: innanzitutto tenere alto il vessillo di un genere come il technical thrash, non propriamente il primo a cui verrebbe da pensare con in mente un posto come Lafayette; in seconda istanza, dare un fondamento alle numerose voci che hanno accompagnato la loro prima calata in territorio europeo. Già, perché raramente si è parlato così tanto di una band di musicisti poco più che ventenni, per quanto i loro due album ci siano piaciuti parecchio.
Ebbene, allo scoppiare di “Forbidden Morals” ogni dubbio lascia immediatamente spazio all’esaltazione più pura: la band si presenta infatti con classe, tecnica e arroganza sonora, sprigionando un muro sonoro devastante e arricchendo il tutto con una presenza scenica a dire poco invidiabile, soprattutto per quanto riguarda il giovane frontman Jackson Davenport, esteticamente e vocalmente molto in linea con quanto proposto dal sottovalutato Randy Rampage, cui si deve la performance sul primo disco dei mitici Annihilator, chiara band ispiratrice per i cinque ragazzi qui presenti, musicalmente e tematicamente, considerando il guitar work saettante e i rimandi horror.
C’è chiaramente qualche angolino da limare qui e là sul fronte esecutivo, ma vedere una formazione così giovane mettere letteralmente a ferro e fuoco un importante festival di settore è un qualcosa che ci scalda il cuore, soprattutto considerando che parliamo di un genere aggressivo, ma anche piuttosto difficile da suonare, il che conferma le nostre buone impressioni e ci spinge a investire denaro in dischi e magliette al loro angolo del merch, una volta finito il concerto.
Senza se e senza ma, una delle formazioni più promettenti del panorama, nonché una delle migliori esibizioni del festival. (Roberto Guerra)

Non giocano con il fioretto gli inglesi INSULT, band di casa che presenta alcuni ex membri provenienti dagli storici Onslaught. Il loro heavy-thrash è sparato a tutto volume, è massiccio e forse a tratti un po’ confusionario, ma di certo riesce a trasmettere tanta energia.
Certo, è dura esibirsi dopo la sfavillante prestazione dei Void, band certamente più tecnica e scenica, ma gli Insult puntano al sodo con brani che sono un bel macigno sonoro.
Piazzano subito quattro pezzi proprio estratti dall’era Onslaught con il thrash aggressivo di “Angels of Death” e “Onslaught (Power From Hell)” con i suoi riff marci ed estremi. Poi passano al loro disco di debutto, uscito di recente ed intitolato “Reside Infernus”, arrivando ad un heavy più classico.
La title-track è davvero bella, energica ma con un tocco melodico ben assestato. Il pubblico – non numerosissimo – apprezza e nelle prime file cresce l’esaltazione. E poi arrivano le tiratissime “0-60, Death or Glory” e “Broken Mind” cantate dall’ugola ruvida e vibrante di Jase Howell.
Non è lo show che ricorderemo con maggior calore durante questo KIT Rising, ma gli Insult hanno fatto il loro, niente più e niente meno. (Federico Orano)

Che attesa per gli americani WINGS OF STEEL; il loro heavy metal dalle tinge powereggianti ha conquistato con l’elegante debutto del 2023 “Gates of Twilight” – senza dimenticare l’anno prima il bellissimo e promettente omonimo EP – si prepara a colpire con ancora maggior devisione grazie al nuovo “Winds Of Time” in uscita in questi giorni. A causa della cancellazione dello show dei RIOT CITY, per problemi con il volo da Stoccolma, il gruppo ha a disposizione un’ora intera per impressionare e presenti e ci riesce, grazie alla perizia tecnica di ogni membro della band e a brani davvero notevoli.
L’ugola squillante di Leo Unnermark tocca vette altissime subito dall’apertura con la roboante “Fall In Line” per passare in rapida successione alla cadenzata “Liar In Love” mentre le note magiche e dalle tinte progressive di “She Cries” ci riportano ai magniloquenti Queensryche.
Dal nuovo disco ecco riproposte alla perfezione il singolo “Burning Sands”, pezzo che dimostra subito un buon impatto live, ma non viene dimenticato neppure il primo EP, dal quale vengono pescate “Rhythm Of Desire” e la conclusiva ed immancabile “Wings Of Steel”.
Nota a parte per riproposizione di “Am I Evil?” (cover dei Diamond Head) in una versione decisamente più possente, ma il picco della serata arriva con la strepitosa e lunga title-track del nuovo disco, un brano di oltre dieci minuti che si muove tra cambi di tempo ed atmosfere con una sapienza enorme, conquistando dal vivo anche grazie ad aperture melodiche e parentesi strumentali (che classe per il chitarrista Parker Halub!) di livello eccelso.
Uno show leggendario per i Wings Of Steel, che assieme ai Void dimostrano come ci siano tante band giovani che sono prontissime per dominare la scena, ma necessitano del supporto e delle attenzioni di tutti i fan! (Federico Orano)

AMBUSH è sinonimo di heavy metal classico! La band svedese lanciata dal nuovo album in studio, il riuscitissimo “Evil In All Dimensions”, è pronta ad incendiare lo scenario.
I loro brani sono dei veri e propri inni facili da cantare per il folto e caldissimo pubblico, che infatti non si risparmia un attimo.
La partenza arriva a sorpresa con uno dei loro cavalli di battaglia, la micidiale “Firestorm” e subito dopo con la grintosa “Possessed By Evil”. Un inizio subito con le marce altissime!
La band è alla prima data del proprio tour che purtroppo non prevede alcuna tappa nel nostro paese. Meglio goderseli qui quindi, per chi ha potuto presenziare. Dieci i pezzi a disposizione, per una setlist che dimostra come il gruppo abbia ormai tante canzoni di alto livello da sparare. Anche i brani nuovi funzionano alla grande dal vivo; la title-track è davvero convincente con il suo incedere, ancor meglio il midtempo “Maskirovka”, autentico anthem da apprezzare su disco ma ancor di più on stage.
La tecnica generale di questi musicisti non è niente di eclatante, anzi, e anche l’ugola di Oskar Jacobsson svolge il suo senza strafare. Ma gli Ambush vanno dritti al sodo dimostrando che, per far muovere le capocce dei presenti, non è necessario essere né Malmsteen né Portnoy!
I ritmi rapidi di “Desacrator” e l’immancabile “Natural Born Killers” sono protagoniste del gran finale. Tra birrette seccate tra un brano e l’altro e qualche bel siparietto ben studiato per far esplodere il boato del pubblico, si concluce uno show forse non perfetto ma certamente infuocato; insomma, esattamente quello che ci aspettavamo! (Federico Orano)

Impossibile non fare un salto agli albori del genere con quel mito britannico che risponde al nome di Kevin Heybourne, leader dei fondamentali e indiscutibili ANGEL WITCH, i quali ancora oggi ci stupiscono con la loro capacità di mettere insieme gli stilemi più classici dell’heavy metal britannico e del doom metal di inizio anni ’80.
Sebbene la formazione non sia più quella di una volta, il carattere di certi pezzi immortali rimane invariato, e sentire dal vivo inni come “Atlantis”, “Baphomet”, “Angel Of Death” e l’immancabile “Angel Witch” non può che ricordarci perché amiamo tanto questa musica, senza contare il pallido carisma ancora sprigionato dallo stesso Kevin con chitarra alla mano e microfono davanti.
Il punto debole è, come da parecchio tempo a questa parte, la formazione che lo accompagna, decisamente troppo essenziale nel suo contributo generale e scenicamente non all’altezza, sebbene le capacità esecutive non manchino e il risultato sia ben visibile a tutti gli astanti, palesemente in visibilio e intenti a scaldare per bene le ugole sui brani di questa storica realtà anglosassone, mai dimenticata.
Non uno degli show migliori del festival a tutto tondo, ma senza dubbio uno dalla più alta carica di vibes storiche e nostalgiche, e finché il livello rimane questo possiamo dirci soddisfatti. (Roberto Guerra)

L’evento più atteso del festival è probabilmente la calata degli ASHES OF ARES e del leggendario cantante Matthew Barlow, che per l’occasione farà un tuffo indietro nel tempo e proporrà una scaletta dedicata quasi interamente al capolavoro degli Iced Earth “The Dark Saga”, che è anche uno dei preferiti in assoluto di chi scrive.
Dopo un inizio dedicato a due pezzi più recenti e appartenenti al repertorio degli stessi Ashes Of Ares, sui quali Matt sembra volersi scaldare, l’intera venue prende letteralmente fuoco allo scoppiare della title-track dell’album di cui sopra, sulla quale tutti sfoderano la voce e si gettano nella mischia, mentre sul palco una delle voci meglio conservate del panorama sciorina una selezione inattaccabile, in grado di coprire tutta l’opera datata 1996, e arrivando persino a farci una sorpresa verso la fine con “Burning Times” (direttamente da “Something Wicked This Way Comes”).
L’operazione nostalgia è evidente, e qualcuno avverte la mancanza del discusso Jon Schaffer, ma fino a che punto si può essere puntigliosi per avere qualcosa da criticare a quanto sta avvenendo on stage?
I suoni sono terremotanti e l’intera band manifesta una preparazione totale, nonché un amore sincero e genuino per il repertorio suonato, che Matt interpreta con una cura maniacale e lasciando a bocca aperta tutti i presenti su ogni singolo sfoggio vocale, confermando nel contempo il nostro desiderio di poter un giorno assistere ad un ritorno degli Iced Earth, malgrado tutte le controversie di cui si è parlato anche troppo.
Quest’oggi a farla da padrone sono le emozioni, la grinta e l’amore per l’heavy metal, che negli anni ’90 ci ha proposto delle autentiche perle anche grazie all’uomo dai capelli rossi che, per oltre un’ora e venti, trascina letteralmente il pubblico e facendo di esso ciò che vuole, non senza lesinare su qualche piccola parentesi personale nei momenti di pausa.
A titolo personale, questo è il vero evento portante dell’edizione, e forse anche lo show più impattante su tutta la linea. Rimane ora da chiedersi cosa avrà in serbo il futuro per Matthew e per dei brani preziosissimi, da riportare in auge e riproporre ancora e ancora, magari su un palco più grande e con tutti i tasselli al proprio posto. (Roberto Guerra)

Un po’ come successe la scorsa estate al Luppolo In Rock, a Bergamo, i PRETTY MAIDS sono chiamati a chiudere una giornata di grande musica. E anche stavolta ci si chiede: ma dopo tutte queste band giovani e grintose, riusciranno questi vecchietti a salire sul palco dimostrando di meritare la loro posizione da headliner?
La risposta è ancora una volta sì! Perchè la classe di Ronnie Atkins e soci è unica, i pezzi da loro composti negli anni sono eleganti e a tratti anche energici e i suoni che escono dai loro amplificatori sempre calibrati alla perfezione. E se inizi lo show suonando per intero uno dei dischi più belli della storia dell’hard’n’heavy come “Red, Hot And Heavy”, aprendo le danze con l’immensa “Back To Back”, c’è davvero poco da discutere; questi danesi sono dei veri fuoriclasse.
Il tocco elegante dalle tinte AOR di “Waitin’ For The Time” e “Queen Of Dreams” – con le tastiere di Chris Laney in maggior evidenza – mostra la raffinatezza di questa band già nel lontano 1984, mentre pezzi più heavy e rocciosi come “Cold Killer” e “Battle Of Pride” sono ricchi di adrenalina, spinti dai riff di Ken Hammer, membro originale, e dello stesso Laney che talvolta abbandona i tasti d’avorio per abbracciare la chitarra.
C’è ancora spazio per molte musica dopo la riproposizione del disco d’esordio; in particolare dal lavoro del 2010 “Pandemonium” vengono estratti ben tre brani, tra i quali spiccano la fulminante title-track e la lenta “Little Drops Of Heaven”. Ronnie ruggisce con la sua ugola d’oro e continua senza esitare lo show con le sonorità moderne di “Mother Of All Lies” e la possente “Kingmaker”, anch’esse dal repertorio più recente.
Ovviamente il concerto non si poteva concludere senza gli estratti del grandissimo “Future World” del 1987 (ed è un peccato che invece venga sempre dimenticato l’altrettanto splendido “Jump The Gun” del 1990); “Romeo” è un brano meraviglioso che fa cantare tutti i presenti, “Future World” colpisce con i suoi ritmi sfavillanti ed infine, a chiudere, ci pensa l’anthem da stadio “Love Games”.
Applausi a non finire per i Pretty Maids, degna chiusura non solo di questa quinta edizione ma di questa lunga parentesi trasudante di passione, durata cinque anni, che è stata il Keep It True Rising! (Federico Orano)

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