25-27/04/2024 - KEEP IT TRUE XXIV @ Tauberfrankenhalle - Lauda-Konigshofen

Pubblicato il 25/05/2024 da

Dopo l’edizione ‘espansa’ dello scorso anno, il celebre festival tedesco rivolto agli autentici appassionati dell’old-school metal classico torna alla sua disposizione più tradizionale, basata quindi su due giornate di festival nella cornice di Lauda-Konigshofen, con in più un interessante warm-up in una location più piccola, situata a Dittigheim.
Per quanto il piatto risulti ricco come sempre – a patto, appunto, di essere amanti dei modi più classici di concepire la nostra musica preferita – quest’anno ammettiamo di essere rimasti relativamente meno coinvolti, rispetto alle edizioni precedenti, e se consideriamo che si tratta della prima edizione a non essere andata sold-out prematuramente, riteniamo che anche parte del pubblico abbia percepito una minore dotazione di cartucce da sparare, almeno per quanto riguarda la prima giornata, ma ne parleremo meglio in seguito.
Anche l’area dedicata al metal market ci è parsa leggermente meno fornita, ma tutto questo potrebbe anche essere dovuto al fatto che dall’anno prossimo, come già annunciato dagli organizzatori, il Keep It True tornerà alla sua versione antecedente, collocando nuovamente gli espositori all’interno della venue e ridimensionando parzialmente il setting, senza però sacrificare la qualità dei nomi coinvolti (ed infatti quanto fino ad ora annunciato in termini di line-up per l’anno prossimo ci sta già facendo leccare i baffi).
Detto questo, è tempo di iniziare a tirare le somme su quanto da noi visto, e di fa piacere anticipare che non mancheranno le sorprese, ma nemmeno le delusioni, purtroppo. Buona lettura!


GIOVEDÌ 25 APRILE (WARM-UP)

Purtroppo non riusciamo ad arrivare in tempo alla venue per assistere all’apertura ad opera dei DOLMEN GATE, ed è per questo che iniziamo parlando già dei messicani BLACK MASK, che ci intrattengono per una buona mezz’ora con il loro heavy metal semplice e tamarro, con tanto di abiti in pelle, catene e tanta attitudine.
I pezzi provenienti dal loro full-length “Queen Of The Beasts”, interpretati dalla mascherata vocalist Liz ‘Riot’ Javier, a nostro parere suonano senza particolari lodi, ma anche senza alcuna infamia, in quanto il risultato finale riflette quelle che erano le nostre aspettative sin da subito, trattandosi di una line-up con poche pretese se non la pura volontà di divertire se stessi e gli astanti, tramite l’ausilio di riff semplici e ritmiche dalla velocità variabile.

Ci fa inoltre piacere notare che la band, pur essendo dedita perlopiù a pezzi in inglese, ha deciso di collocare in scaletta un pezzo cantato in spagnolo, fungendo quasi da antipasto per chi si esibirà poco dopo.
Ci riferiamo naturalmente ai cileni ACERO LETAL, i quali adottano un approccio in diretta contrapposizione con chi li ha preceduti: tutto il loro repertorio si presenta in spagnolo, anche se riteniamo che i testi, per quanto simpaticamente ignoranti, non siano decisamente il focus di questa formazione, le cui influenze pescano direttamente dal repertorio speed metal di gente come gli Agent Steel o, meglio ancora, i Muro, ritenuti da molti la più nota tra le speed metal band ispaniche.
Lo show risulta quindi estremamente lineare e dritto al punto, forse persino troppo, e sebbene manchino ancora delle velleità in grado di elevarli oltre al marasma di band che popolano il sottobosco, notiamo con piacere che l’esaltazione tra i presenti non manca.

Iniziamo a fare sul serio con una delle esibizioni più attese (almeno da chi scrive), ovvero quella degli svedesi CENTURY, il cui esordio “The Conquest Of Time” ci ha davvero convinto al momento della sua uscita, tanto da ritenerlo una delle sorprese dello scorso anno.
Prontamente armati di Gibson Flying V fiammante, questi ragazzi si presentano su un palco abbellito con degli stendardi, sciorinando immediatamente il loro heavy metal epico ed adrenalinico, mettendo nel contempo in chiaro il loro avere decisamente una marcia in più rispetto a tutte le realtà giunte in precedenza nel corso della serata. La loro classe risulta palpabile, così come la loro capacità di confezionare dell’heavy metal graffiante e, nel contempo, raffinato e scintillante, che si presenta al meglio in brani come la iniziale “Sacrifice”, la grintosa “Master Of Hell”, la più lunga “Servants Of The Iron Mask” o la conclusiva “The Fighting Eagle”, che peraltro è anche la opener del sopracitato album. Forse il comparto vocale ci è parso lievemente più affaticato in alcuni passaggi, ma si tratta comunque di un ottimo concerto, in linea con ciò che ci si aspetta da una formazione così promettente.

Concludiamo naturalmente con gli statunitensi ATTACKER, che per quanto non si siano mai elevati al di sopra di una determinata nicchia, rappresentano sempre e comunque un autentico pilastro di quello che era un tempo l’heavy/power metal americano, soprattutto se prendiamo in considerazione quel gioiello del primo disco “Battle At Helm’s Deep”.
Chiaramente può far dispiacere che, ormai, sia rimasto solo il batterista Mike Sabatini della line-up originale, ma a ben pensarci sono numerosi i casi analoghi, e spesso la presenza di musicisti giovani ha giocato a favore della resa generale, soprattutto in un contesto dal vivo come questo. Il concerto è piuttosto lungo, ogni singolo album viene rievocato in questa sede, seppur chiaramente con dei dosaggi differenti, in quanto appare lapalissiana la voglia degli astanti di ascoltare i pezzi più illustri, provenienti dai primi due lavori in studio, anche se non fa dispiacere qualche digressione sui prodotti usciti dopo gli anni 2000′, incluso quel “The God Particle” uscito pochi giorni prima dell’evento.
C’è posto persino per una cover di “Total Eclipse” degli Iron Maiden, giusto per ribadire quelle che sono le origini della passione musicale di pressoché tutti i presenti. La resa generale dello show è su livelli altissimi e riteniamo che la band meriti tutte le ovazioni ricevute, nonché il ruolo comunque importante ricoperto all’interno del bill odierno in quanto, trattandosi di fatto della autentica hit volta a far esplodere l’entusiasmo della gente, prima di dare inizio alle vere danze il mattino seguente.


VENERDÌ 26 APRILE

Partiamo con l’esibizione di una delle line-up più trasversali dell’intero programma, ovvero quella degli statunitensi MORGUL BLADE, che purtroppo arrivano on stage di fronte ad un pubblico ridotto, in quanto perlopiù ancora inchiodato fuori in coda per il ritiro dei braccialetti, che per la prima volta viene effettuato sul lato opposto della struttura rispetto alle occasioni precedenti, con un risultato che ci è parso ancora più lento e, a tratti, problematico per chi sperava di poter entrane nella venue sin dalla primissima band.
Nonostante ciò, notiamo con piacere che la formazione di Philadelphia fornisce una prova esemplare e al meglio delle proprie possibilità, celebrando il lancio del secondo album “Heavy Metal Wraiths”, senza però tralasciare il predecessore “Fell Sorcery Abounds”.
Ciò che li rende particolari è la commistione tra heavy metal e inserti black, soprattutto per quel che concerne il comparto vocale, e questa peculiarità potrebbe rappresentare una delle chiavi di volta su cui la band dovrà far leva nel momento in cui ci saranno possibilità di un maggior successo; ipotesi da non escludere, anche se lo show odierno, per quanto ben proposto, ci lascia con la sensazione di essere in presenza di una band ancora molto ancorata alla resa su disco, cui sarebbe necessaria una maggiore dose di grinta per fare ulteriormente breccia.

Rimaniamo negli States in compagnia dei GREYHAWK, la cui prova live riflette perfettamente quelle che sono le nostre impressioni già espresse in fase di recensione dei loro album: una band dalle indiscutibili potenzialità e in grado di risultare coinvolgente nel momento in cui si preme sull’acceleratore, come durante la opener “Spellstone”, ma che a lungo andare tende a stimolare anche uno sbadiglio o due, per via di alcune scelte strutturali un po’ controverse, tra cui una predominanza di fasi cadenzate e, soprattutto, l’inspiegabile presenza di ben due assoli in scaletta, uno di batteria e uno di chitarra, col risultato di ridurre lo show odierno a sole sette canzoni.
Il risultato è quindi un’esibizione a tratti piacevole, ma irrimediabilmente compromessa e destinata a lasciare una punta di amarognolo in bocca agli ascoltatori curiosi, tra i quali sono in tanti, a concerto finito, a condividere opinioni altalenanti. Il nostro augurio è comunque quello che la band possa trovare i propri tratti di forza su cui far maggiormente leva, poiché, allo stato attuale, non ci sentiamo di collocarli assolutamente tra le migliori prove ad opera di band giovani cui abbiamo avuto modo di assistere tra queste mura.

La prima vera operazione di revival giunge dall’Inghilterra in compagnia dei BLEAK HOUSE, i quali rappresentano l’esempio perfetto di realtà musicale dimenticata, ma poi riesumata per la gioia dei più accaniti svisceratori del sottobosco più antico.
Per chi non li conoscesse, si tratta di una band formata nel lontano 1972 e considerata parte della NWOBHM grazie ai primi due EP usciti ad inizio anni ’80. Un pacchetto rivolto esclusivamente a chi del suddetto movimento ha esplorato anche gli anfratti più nascosti, ma che potrebbe anche far leva sulla simpatia di chi non aveva mai sentito parlare di loro, grazie ad uno show che trasuda nostalgia da ogni nota: vedere questi cinque attempati signori suonare assieme per la prima volta dopo oltre quarant’anni, sorridendo come dei vecchi amici di fronte ad un pubblico incuriosito, è un qualcosa che a suo modo scalda il cuore, malgrado l’evidente connotazione amatoriale.
Le dieci canzoni proposte non sono nulla di speciale, ma comunicano davvero tanto di quello che l’heavy metal inglese rappresentava per molti musicisti nel momento in cui i Judas Priest stavano ancora lottando per elevarsi al rango di leggende del rock, e a noi, appassionati di questo stile così autentico e privo di fronzoli, non può che far piacere notare che l’heavy metal sembra essere in grado di ringiovanire chiunque, anche dopo così tanto tempo.

Tutto un altro stile per gli australiani TAROT, da non confondere con l’omonima formazione finlandese, che porta in scena una sapiente commistione di heavy metal primordiale e hard rock anni ’70, la cui recente interazione “Glimpse Of The Dawn” si deve alla nostrana label Cruz Del Sur, che raramente ci vede male, quando si tratta di potenziali talenti.
Nonostante non si tratti di una realtà particolarmente nota, per ora, la band può vantare comunque quindici anni di attività, in cui hanno avuto modo di realizzare tre EP, una compilation e ben due full-length, ed è interessante notare che la band non ha alcuna intenzione di lasciare indietro una virgola del proprio repertorio, in quanto ciascuno di questi prodotti viene messo in luce durante il concerto.
Le atmosfere evocate sono a metà tra il fantasy e la psichedelia: non siamo in presenza di un concerto che fa leva sulla componente adrenalinica, quanto su quella più suggestiva e di atmosfera a base di voci pulitissime e inserti di organo e sintetizzatori, per la gioia di tutti i fan di realtà come gli Ashbury o i Winterhawk, con un risultato generale invero piuttosto convincente e rappresentativo dell’enorme importanza ricoperta dalle band recenti all’interno del bill, nonché da quelle esterne alle proposte metal più stereotipate.

Torniamo indietro nel tempo, facendo nel contempo una capatina in Giappone, in compagnia dei CROWLEY, la cui presenza relativamente in alto nel bill lascia sottintendere un’attesa più che discreta verso la loro esibizione, forse anche per via del fatto che si tratta del loro primo show in assoluto fuori dai propri confini.
Fedelissimi alla componente un po’ più ‘visual key’, i membri della band si presentano on stage truccati e con uno stile che può ricordare tanto i Kiss quanto i nostrani Death SS, seppur con una deriva musicale invero piuttosto orecchiabile nelle sue connotazioni heavy metal.
Chiaramente non parliamo di una band storicamente molto proficua sul versante discografico, ed anche lo show messo in piedi quest’oggi non soddisfa del tutto le nostre aspettative: tutto si mantiene su un livello generale abbastanza basilare e poco provvisto di guizzi, con i pochi momenti di esaltazione riservati ai brani provenienti dall’esordio “Whisper Of The Evil” il quale, pur essendo considerabile come un disco ‘di culto’, non ha mai rappresentato esattamente un esempio eclatante di heavy metal giapponese, filone nel quale trovano posto realtà ben più capaci.
Ciò nonostante, apprezziamo sicuramente la componente emotiva, in quanto la band si mostra entusiasta dell’accoglienza ottenuta, e non escludiamo la possibilità di ricrederci in una eventuale seconda occasione.

Torniamo negli States, nonché in territorio epic metal, in compagnia dei SENTRY, giunti prontamente ad occupare il posto rimasto vuoto a seguito della cancellazione dei Satan’s Host, peraltro con motivazioni al limite del comico (da quanto si legge sulla pagina facebook dell’evento, il chitarrista Patrick Evil non è stato in grado di rinnovare il passaporto in tempo, e lo ha comunicato all’organizzazione dopo che questa aveva prenotato i voli per la band).
Per chi non li conoscesse, si tratta di una autentica superband composta da membri ed ex membri di illustri formazioni dell’underground old-school metal, tra cui Manilla Road, Ironsword e così via. Le nostre impressioni sono in linea con le nostre aspettative, essendo comunque di fronte a un quartetto di veterani, e non si discute la passione trasmessa nell’esecuzione per intero dell’unico album autotitolato, rendendo di fatto lo show di oggi una vera celebrazione del suddetto.
I suoni sono impattanti, i bassi presenti (anche troppo), la presenza scenica essenziale e i brani fanno sfoggio di un ulteriore fascino in questa specifica sede, e non ci stupisce, considerando che parliamo di amici e colleghi del mai abbastanza compianto Mark Shelton, leader e fondatore dei già menzionati Manilla Road.
Non ci avrebbe fatto dispiacere udire magari una cover o due proprio dell’iconica formazione del Kansas, ma anche così riteniamo che il risultato sia meritevole di almeno un applauso.

Passiamo ora ad una formazione tanto sconosciuta quanto emblematica: parliamo dei VENGEANCE, che nella prima metà degli anni ’80 rappresentavano un emblema non indifferente del classico heavy metal nella loro terra madre, ovvero l’Olanda.
Ci dispiace tuttavia accorgerci di come, nel corso del concerto, il primo album venga praticamente ignorato, fatta esclusione per l’esecuzione del brano “Deathride To Glory” che, già a suo tempo, non venne inserito nella tracklist, essendo di fatto uscito come singolo l’anno successivo, finendo poi come bonus track nel secondo “We Have Ways To Make You Rock”, considerato da tanti vera opera magna.
In ogni caso, ammettiamo che il buon Leon Goewie e i suoi compagni di più recente ingresso riescono davvero a stupire buona parte dei presenti, confezionando uno show di livello su cui inizialmente non avremmo scommesso minimamente, encomiabile sul versante dell’esecuzione, quanto su quello della presenza scenica, dovuta soprattutto all’invidiabile energia trasmessa dallo stesso frontman. Permane ancora leggermente quella sensazione di avere a che fare con una band con alcuni limiti, dati probabilmente da una presenza sulle scene un po’ altalenante, ma saremmo ingiusti se non ammettessimo di trovarci in presenza di uno show tra i migliori di questa giornata che, per il momento, è riuscita a coinvolgerci meno di quanto avremmo sperato.

Alziamo drasticamente il livello con gli svedesi HÄLLAS che, pur essendo più accostabili all’ambiente progressive rock, seppur adeguatamente metallizzato ed incattivito, dimostrano con la loro classe di avere una marcia in più rispetto a tutti coloro che si sono esibiti prima. La salita sul palco, provvisti di mantelli neri, sulle note del brano “Birth/Into Darkness”, lascia attoniti molti presenti, inclusi coloro che, generalmente, sarebbero più avvezzi a sonorità dalla maggiore carica aggressiva.
La carica epica e narrativa trasmessa dai dieci brani presenti in scaletta è a dir poco maiuscola, enfatizzata da delle singole parti gestite con dovizia e cura, soprattutto per quanto riguarda le tastiere maneggiate da Nicklas Malmqvist, il quale pone a suo modo omaggio a miti come Jon Lord, mentre i suoi compagni riempiono il palco per un’ora abbondante, senza mai cedere terreno in alcun modo.
L’intera carriera di questi ragazzi è da osservare come un enorme concept, e un loro concerto si pone, di fatto, come un autentico momento di contemplazione di dimensioni medievali e psichedeliche, sulla falsariga di quanto fatto anche dai Tarot qualche ora prima, seppur con delle capacità visibilmente più affinate e una maggiore dose di impatto e opulenza, congedandosi peraltro come dei menestrelli con il brano che prende il nome dalla band stessa, enunciando così il proprio nome proprio in concomitanza del finale.
Inoltre, il fatto che la band si esibisca mentre il cielo inizia a scurirsi per l’avvento della notte, aggiunge ulteriore carica emotiva al tutto, permettendoci di chinare il capo di fronte alla miglior esibizione della giornata. O forse no?

Già, perché indipendentemente dalle recenti uscite discografiche, non esattamente eclatanti o in linea coi fasti di una volta, vogliamo ammettere con entusiasmo che lo show messo in piedi questa sera dai GRAVE DIGGER è esattamente quello di cui tutti i fan dell’iconica realtà teutonica avevano bisogno: un evento unico e speciale, in cui Chris Boltendahl e soci rispolverano una parte del loro repertorio da tempo messa in secondo piano, ovvero la prima, quella più speed metal e tanto cara ai defender più nostalgici dei grandi fasti dell’heavy/power tedesco.
Dalla iniziale “Headbanging Man”, passando per le varie “The Grave Dancer”, “Fight The Fight” e “Wedding Day”, fino ad arrivare a delle autentiche gemme come “The Reaper” e “Witch Hunter”, senza però dimenticarsi di stupirci ulteriormente, inserendo persino un’autentica chicca come “Back To The Roots”, il cui titolo riassume perfettamente quanto sta accadendo sul palco.
Non soltanto la setlist fa sfoggio di una qualità generale inattaccabile, nonostante qualche inevitabile assenza, ma la band stessa si presenta furibonda e graffiante come non accadeva da tempo: dei Grave Digger così arrabbiati e metallari, nonché preparati e sul pezzo a livello tecnico, non li vedevamo davvero da anni, con il risultato di sbaragliare completamente i nostri timori in merito ad una riproposizione sottotono dei classici di cui sopra.
Ovviamente non poteva mancare “Rebellion (The Clans Are Marching)”, unica parentesi proveniente dalla seconda metà degli anni ’90, e malgrado si tratti di un pezzo oramai abbastanza abusato in questo specifico ambiente, la sua capacità di coinvolgere ancora le ugole di tutti i presenti è a dir poco stupefacente, peraltro prima di chiudere, come di consueto, con la grintosa “Heavy Metal Breakdown”, con la quale la band ci saluta, dopo averci ricordato il perché della loro grande popolarità ai tempi in cui il metal teutonico faceva strage di cuori scintillanti.
Spendiamo pure una parola di entusiasmo per il nuovo ingresso alla chitarra Tobias Kersting (ex Orden Ogan), che ci ha fatto davvero un’ottima impressione a livello pratico ed attitudinale in questo contesto old-school.

Il discorso si fa parzialmente opposto con gli headliner della serata, ovvero i leggendari svedesi HEAVY LOAD, nei confronti dei quali il nostro interrogativo è sempre più o meno lo stesso: per qual motivo, nonostante ricoprano pressoché sempre la posizione più alta in cartellone, non riescono mai a mettere in scena uno spettacolo degno di un headliner?
Volendoci spiegare meglio, ci limitiamo a dirvi che il loro concerto è un concentrato di inciampi, errori, mancanza di intesa, attese immotivate e momenti morti tra i brani, con un risultato finale a dir poco amatoriale e decisamente lontano da quello che si richiede ad una band simbolo di un evento intero, peraltro con una storia tanto fondamentale alle spalle.
Fortunatamente non siamo ai livelli disastrosi del Keep It True del 2018, dove comunque la presenza di Eddy Malm aggiungeva valore, ma ancora una volta ci spiace notare una scaletta sì mitica e pressoché inattaccabile, penalizzata però da ingenuità alla stregua di una formazione di dilettanti. Idea condivisa da parte del pubblico, che man mano si fa meno gremito per via dei troppi errori, anche se, per lo meno, sentire dal vivo certi classici autentici dell’heavy metal più epico è un qualcosa che non ha prezzo, se ci si considera degli appassionati del genere in questione: “Heavy Metal Angels (In Metal And Leather)”, “Bleeding Streets” e “Might For Right” riescono comunque ad emozionare, così come lusinga gli astanti sapere di star assistendo al debutto in sede live di ben tre pezzi recenti e persino di una chicca come “Still There In Time”, risalente all’album “Death Or Glory” datato 1982.
In buona sostanza, la definiremmo una conclusione a dir poco agrodolce per una prima carrellata di band già non proprio impeccabile, e non riteniamo indispensabile ribadire che la contrapposizione tra l’amore per certi pezzi e la delusione per uno show al di sotto del livello contemplato non è semplice da assimilare. Fortunatamente, ci penserà la giornata di sabato a risollevare l’asticella.


SABATO 27 APRILE

Un inizio decisamente più sfavillante, rispetto alla prima giornata, in compagnia degli americani WINGS OF STEEL, che abbiamo già trattato e apprezzato su queste pagine per via del loro heavy metal a tinte hard rock, ispirato da gente come Icon, Dokken e TNT, il cui iconico cantante Tony Harnell è quanto di più vicino ci possa essere al frontman Leo Unnermark, dal punto di vista di timbrica ed estensione.
La prova della formazione californiana risulta davvero accattivante e ben confezionata, con una setlist che ripropone per buona parte l’unico full-length “Gates Of Twilight” e l’EP eponimo d’esordio, interpretati e messi in scena grazie ad un’ottima dualità tra gli unici due membri ufficiali: Leo tiene il palco con tutto il carisma del caso, lasciando spesso sbalorditi gli astanti per via delle sue doti canore, mentre il chitarrista Parker Halub risulta decisamente più bravo che simpatico, per via di un’atteggiamento un po’ troppo incentrato su se stesso. Poco male, mettendo da parte alcune questioni attitudinali giù dal palco, riteniamo i Wings Of Steel una delle realtà più promettenti del panorama, e questo nostro primo approccio con loro in sede live conferma le nostre già ottime impressioni espresse in precedenza.

Anche del progetto SAVAGE OATH abbiamo già parlato con grande entusiasmo, anche per via dei nomi coinvolti, che vanno dal fenomenale vocalist Brendan Radigan (Sumerlands, Pagan Altar), passando per il chitarrista Leeland Campana (Visigoth), fino al bassista Phil Ross (Ironsword, ex Manilla Road), che abbiamo già visto sul palco coi Sentry il giorno prima.
A parte ciò, a coinvolgerci maggiormente di questa nuova entità è proprio la qualità musicale, basata su una sapiente riproposizione dell’heavy/power metal di stampo classico, con però una possanza degna delle produzioni recenti.
In questa sede il risultato viene ulteriormente impreziosito dalla partecipazione della seconda chitarra maneggiata da Kalli Coldsmith, anch’egli membro dei Sentry, ma il vero protagonista è lo stesso Brendan dietro al microfono, il quale sembra trasformare in oro tutti i progetti in cui si cimenta, e considerando la potenza micidiale sprigionata dalle varie “Knight Of The Night”, “Wings Of Vengeance” e “On We March” non possiamo che lasciarci andare ad un headbanging sfrenato mentre ci mandiamo in fiamme le ugole.
Tra i presenti non c’è spazio per lo scetticismo, e sono davvero in tanti a risultare stregati dalla forza impattante dei pezzi proposti, che purtroppo sono solamente sei, complice anche la durata considerevole dei singoli, nonché la rimozione di “Madness Of The Crowd” dalla scaletta per via della mancanza di tempo. Nonostante manchino ancora parecchie band alla conclusione del festival, ci sentiamo sin da subito di collocare quello dei Savage Oath tra i migliori show dell’intera edizione, in quanto riteniamo davvero piuttosto difficile fare meglio di così, anche se ci sarà senz’altro chi avrà tutta l’intenzione e le doti per dire la propria.

Cambiamo totalmente stile e nazione grazie agli australiani BENGAL TIGERS, i quali propongono una sorta di hard’n’heavy piuttosto piacevole per tutti gli amanti di determinate sonorità un po’ più scanzonate, anche se parliamo palesemente di una realtà rimasta perlopiù nascosta sul fondo del sottobosco, il cui unico prodotto di culto è il primo EP “Metal Fetish” datato 1981, di cui vengono proposti due estratti a fine scaletta; per il resto, la selezione pesca interamente dagli anni ’90, e il risultato risulta simpatico e gradevole, seppur senza meritarsi particolari lodi, anche per via di alcuni inciampi sul fronte tecnico e canoro.
La fase più interessante non può che essere quella dedicata ad una cover di “Diamonds And Rust” di Joan Baez, già resa celebre nel nostro ambiente dai Judas Priest, ma si tratta sostanzialmente dell’unico momento di vera e autentica esaltazione, mentre per il resto le sensazioni sono positive, ma niente più di questo, anche se permane la piacevole sensazione data dal vedere dei signori ormai attempati suonare ancora assieme, nonostante la mancanza di una carriera proficua, illustre o di culto che sia, alle proprie spalle.

Buone impressioni anche per gli statunitensi SACRED WARRIOR, il cui heavy/power a tinte progressive viene portato in scena con una capacità esecutiva decisamente sopra la media, se osserviamo l’andamento del sottobosco, in particolar modo per quel che concerne il comparto vocale gestito da Rey Parra, la cui ugola avrebbe meritato molti più consensi nel corso della storia.
Qualche perplessità appare invece osservando la scaletta, che purtroppo sembra mettere decisamente in secondo piano i primi due, apprezzatissimi album, cui viene concessa una parentesi per ciascuno: “Rebellion” per l’esordio omonimo e “Onward Warriors” dal seguito “Master’s Command”. Un vero peccato, considerando che parliamo delle due produzioni di culto ad opera della formazione di Chicago, che comunque si rende fautrice di una buona prova tra queste mura, congedandosi un po’ in sordina dopo l’esecuzione del pezzo “Wicked Generation”, dopo il quale risulta meritatissimo l’applauso da parte dei presenti, nonostante sia evidente che il pubblico stia ancora conservando le energie per tutto ciò che verrà dopo.

Per quanto riguarda i SONJA, è lapalissiano che buona parte dei discorsi espressi online trovino fondamento nelle scelte di vita fatte dalla frontwoman Melissa Moore, la cui personalità tuttavia non risulta assolutamente incentrata sul suo essere transgender o sulla parte precedente della sua carriera, in cui militava come chitarrista nei black/thrash metaller Absu.
Anzi, riteniamo che Melissa sia un’artista con tutti i crismi, capacissima di comporre dei brani introspettivi, riconoscibili e dalla forte carica emotiva, in questo caso con una base musicale fortemente ancorata al gothic rock e ad una certa forma di heavy metal classico, con in più un forte carattere alternative.
Dal vivo, questa resa non viene in alcun modo intaccata, anzi riteniamo che la prova dei Sonja sia da immortalare per più di una ragione: pezzi come “When The Candle Burns Low…”, “Nylon Nights” e “Loud Arriver” rendono già molto bene, enfatizzati da un’ottima presentazione e da una classe generale invidiabile, ma è nelle battute finali che si vede davvero il coraggio di questa realtà musicale; non tanto per la cover di “Deja-Vu” degli Iron Maiden, quanto per quella conclusiva di “Bridge Of Death” dei Manowar, che fa letteralmente esplodere i presenti, spingendoli immediatamente con le braccia al cielo per formare il classico gesto reso celebre da Sua Maestà Joey DeMaio.
Proporre un brano simile in questa cornice è senza dubbio un’arma a doppio taglio, visto che un minimo errore può essere fatale, ma riteniamo che il tutto sia stato gestito benissimo e che il risultato finale abbia prodotto esiti encomiabili, e la fila di persone intente a comprare album e gadget della band a fine concerto è un chiaro segno di quanto stabilito quest’oggi.

Parentesi tutta svedese in compagnia dei TYRANN, la cui peculiarità è proprio quella di proporre del classico heavy metal cantato perlopiù in lingua madre, una scelta controversa per molti ascoltatori, così come un vero e proprio motivo di curiosità per molti altri, soprattutto considerando che gli sprazzi in inglese non mancano, rendendo il tutto una sorta di particolare connubio linguistico.
Musicalmente, siamo pur sempre in presenza di una band heavy metal, ma con alcuni dettagli di non facile descrizione a rendere la proposta meno telefonata di quanto fosse lecito aspettarsi; già solo la questione legata alla lingua costringe di fatto la componente musicale ad adattarsi, in quanto non è detto che un testo in svedese funzioni quanto uno in inglese, se la base non viene composta a arrangiata ad hoc.
Con il brano “Face The Tyrant” la band si presenta, per poi inanellare una sequenza di pezzi in grado di stupirci, indipendentemente che si tratti di estratti dall’esordio “Djavulens Musik” o dal più recente “Besatt”. Oltre all’ottima esecuzione da parte dei singoli membri, capacissimi di tenere il palco con entusiasmo, ciò che apprezziamo è la cura nella scelta della scaletta, che nel finale sulle note del brano “Tyrann” ripropone le medesime modalità dell’inizio: una sorta di enunciazione di se stessi, all’arrivo e alla partenza, con una notevole dose di fierezza. Magari non la catalogheremo tra le migliori esibizioni di oggi, ma è fuori da ogni dubbio che questi ragazzi dal Nord Europa sappiano molto bene il fatto loro.

Giunge finalmente il momento di tirar fuori la propria vena patriottica, nonché tutta la voglia di violenza, rimasta per ora insoddisfatta: ci pensano i nostrani BULLDOZER e il loro speed/thrash a tinte nere a mettere una pezza sulla poca aggressività sfoggiata dalla line-up odierna.
AC Wild, Andy Panigada e compagni irrompono sul palco letteralmente col coltello tra i denti sui rintocchi di “Cut-Throat”, per poi sciorinare una prima parte di scaletta incentrata unicamente sull’esordio “The Day Of Wrath”, che verrà rievocato anche poco prima del finale tramite l’esecuzione di “Whisky Time”.
Purtroppo in scaletta non troverà posto “Welcome Death”, ma poco male, anche perché il resto degli slot disponibili vengono occupati da autentiche mazzate, tutte provenienti dal successivo “The Final Separation”, che di fatto rappresenta il secondo colpo inferto dalla formazione milanese al mercato metal internazionale, e il moshpit evocato dagli astanti è una prova che, forse, un segno sono riusciti a lasciarlo.
Del resto, con cotanta collera musicale on stage, sarebbe difficile non lasciar emergere quel lato ferale presente in tutti noi, portandolo al suo apice nel momento in cui la band decide di congedarsi proponendo una cover accelerata della celebre “Overkill” dei Motorhead, che continuano sempre e comunque a rappresentare il primo punto di riferimento per ogni band dalla spiccata componente speed metal.
Forse saremo un po’ di parte per via della nostra provenienza, ma riteniamo che sarà molto difficile per ogni band rimasta in cartellone riuscire ad eguagliare quanto proposto dai Bulldozer, perlomeno sul fronte dell’incisività, oltre che della violenza, che per certe band non è che il mezzo per comunicare una grande passione, quella per il metal e per tutto l’immaginario che ci ruota attorno.

Per molti presenti l’esibizione più attesa non poteva che essere quella degli STORMWITCH, anche perché si tratta di una di quelle formazioni heavy metal provenienti dal territorio teutonico ad aver ottenuto una certa risonanza sul mercato, seppur senza riuscire mai ad eguagliare il livello di consenso ottenuto da realtà più altisonanti, come gli Accept o i Running Wild.
In questa sede il piatto è ancora più ricco, poiché si tratta dello show celebrativo del quarantesimo anniversario, con ben tre membri originali presenti e pronti a ringiovanire per un’oretta abbondante ad alto contenuto metallico, incluso l’iconico frontman Andy Muck.
Sulla qualità altalenante delle recenti produzioni ci siamo già espressi al momento della loro uscita sul mercato, ma in questa sede l’attenzione è tutta per i classici, ed è difficile trovare qualcosa da dire su estratti come “Rats In The Attic”, “Trust In The Fire”, “Tears By The Firelight” e “Priest Of Evil”, anche perché ciascuno di essi rappresenta una menzione ad uno qualsiasi dei loro primi, gloriosi lavori in studio. L’unica parentesi recente è quella intitolata come la band stessa, proveniente dall’attualmente ultimo album “Bound To The Witch”, inserito in scaletta probabilmente più per autocelebrazione, che per effettivi meriti della canzone, anche perché ascoltando la scaletta proposta ci si accorge che il grosso è tutto per gioielli come “Stronger Than Heaven”, che la band eleva al di sopra di tutto il resto per la gioia dei presenti, autoctoni e stranieri. Non ci è dato sapere se rivedremo mai gli Stormwitch in questa veste, ma a titolo personale ci riteniamo entusiasti di aver presenziato in questa sede; ora bisogna vedere se gli ultimi due atti dell’edizione riusciranno ad eguagliarli sul piano emozionale.

La scelta di convocare gli I AM MORBID, collocandoli peraltro così in alto in scaletta, ha generato qualche discussione sui social nei mesi antecedenti l’inizio del festival, non tanto per la proposta musicale pressoché inattaccabile, ma perché in un contesto come quello odierno in tanti si aspettavano qualcosa di un po’ meno trasversale, rispetto alla versione personale di Dave Vincent di quelli che erano i Morbid Angel.
Si tratta in fin dei conti di un’esibizione su cui non c’è molto da dire, essendo i lformato ben conosciuto: una selezione di classici della leggendaria death metal band americana, proposti da un combo di musicisti preparati e rappresentati nel punto più visibile del palco dal loro storico frontman di lungo corso.
L’esecuzione è esattamente quella che ogni appassionato di estremo si aspetta, e i pezzi sono pressoché scevri da ogni possibile critica: da “Immortal Rites” e “Fall From Grace”, passando per “Blessed Are The Sick” e “Rapture”, fino ad arrivare alle immancabili “Maze Of Torment” e “Where The Slime Live”, anche se quest’ultima continua a ricevere accoglienze un po’ miste dagli astanti.
Ottima anche la conclusione, tutta dedicata all’album “Covenant”, grazie all’esecuzione di “God Of Emptiness” e “World Of Shit (The Promised Land)”, che coronano uno show tanto esaltante quanto prevedibile nel suo andamento. Non si tratta necessariamente di un fattore negativo, anche perché il progetto stesso I Am Morbid si basa proprio su questo concetto, anche se ci piacerebbe sapere per quanto questa formula potrà funzionare, andando avanti col tempo.

Giungiamo infine all’esibizione più attesa in assoluto per molti di noi, ovvero quella dei sottovalutati heavy/power metaller statunitensi LIEGE LORD, giunti qui non soltanto per proporre una sana ora e mezza a base di purissimo acciaio sciorinato ad acceleratore premuto, ma anche per commemorare il compianto fondatore e bassista Matt Vinci, venuto prematuramente a mancare lo scorso anno dopo una dura lotta contro il cancro.
Inutile dire che il concerto si prospetta un concentrato di classici, anche perché parliamo di una band il cui ultimo lavoro è probabilmente la propria opera massima, ovvero quel capolavoro di “Master Control” uscito nel lontano 1988, e in effetti la setlist rispecchia esattamente le nostre aspettative, soprattutto considerando le motivazioni per cui il gruppo si trova qui, anche se non mancano le sorprese: alle varie “Fear Itself”, “Eye Of The Storm”, “Speed Of Sound” e “Feel The Blade” la band, rappresentata dal vocalist Joe Comeau e capitanata dal chitarrista Tony Truglio, affianca ben due nuovi estratti, “Hypocrisy” e “Unfazed”, nonché la celebre cover di “Kill The King” dei Rainbow, collocata in scaletta per porre omaggio ad una seconda figura di riferimento per i musicisti coinvolti.
Lo show è davvero energico, adrenalinico e a dir poco rappresentativo del concetto di headbanging e velocità al servizio però di canzoni vere e proprie, con tutti i propri punti di forza compositivi; se poi a questo aggiungete la commozione presente sul volto dei Nostri, al momento di parlare del proprio affetto per il loro defunto compagno di band, avrete il quadro completo di un’esibizione che incarna al pieno le emozioni che l’heavy metal può trasmettere.
L’encore, nonché parentesi finale dell’intera edizione 2024 del Keep It True, è per due terzi dedicato all’album d’esordio “Freedom’s Rise”, ad eccezione ovviamente per la conclusione vera e propria, affidata alla title-track del sopracitato album che ha consacrato i Liege Lord nell’immaginario metal globale, nonostante il ritiro sulle scene avvenuto appena due anni dopo la sua uscita.
La nostra speranza è che i membri rimasti dei Liege Lord trovino presto la forza e la voglia per aggiungere un nuovo tassello alla propria breve discografia, in quanto riteniamo potrebbe essere un ottimo modo per fare un piccolo salto ulteriore di carriera, com’è stato per altri colleghi in tempi recenti. Vero è che non tutti han fatto centro con operazioni di questo tipo, ma ci piace pensare che questi signori possano ancora dire la propria.
Si conclude così la nostra avventura presso la ventiquattresima edizione del festival tedesco dedicato alle sonorità metal più classiche; come anticipato nell’introduzione, dal prossimo anno ci saranno degli importanti cambiamenti, e anche per questo è bene per noi salutare il Keep It True per com’è ora, mantenendo intatta la nostra curiosità in merito al futuro.

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