A cura di Giovanni Mascherpa
Una serata da dieci! Sì, dieci, come il numero di spettatori presenti. Non uno di più. C’è poco da fare, i Ken Mode, collocandosi solo in parte all’interno del panorama metal e gravitando più propriamente nel circuito noise, non attecchiscono su mercati minori per le sonorità alternative come quello italiano. Eppure i canadesi sono oramai ben noti, sfornano album di alto profilo da oltre un decennio, battono l’Europa a intervalli regolari e tramite i canali informativi del settore ricevono visibilità e votazioni mediamente lusinghiere. Tutto inutile. Con loro ci sono gli Hark, emergente trio gallese che va ad infoltire la sarabanda di formazioni sludge con voglie stoner, autore ad oggi di un solo album, “Crystalline”, edito a marzo per Season Of Mist. I tre hanno già saggiato palchi importanti e quest’estate si sono permessi un primo, soddisfacente, giro per i festival europei. Chissà cos’hanno pensato, i sei musicisti (tre per gruppo), nel vedere tanta desolazione davanti ai loro occhi. Sicuramente non si sono depressi, hanno accettato il vuoto del Lo-Fi come un incidente di percorso in un tour che, speriamo, abbia dato finora qualche risposta affettiva più stimolante, e si sono impegnati al massimo per rendere la serata divertente per i pochi presenti. Come leggerete, ci sono riusciti.
HARK
Alle dieci e mezza, capita l’aria che tira, non è il caso di aspettare oltre per vedere se arriverà qualcuno: ormai è chiaro che sarà un concerto per pochi intimi. Gli Hark attaccano i jack e iniziano a martellare, assordanti e colossali come il genere di competenza impone. Ce l’hanno dura, stasera e in generale nella loro attività: devono sgomitare in un sottogenere super-inflazionato, in cui le differenze fra le singole band sono spesso risibili e le reminiscenze a un vissuto comune sono palesi, talvolta suscettibili di plagio bello e buono. Per sfuggire agli artigli della routine bisogna ingegnarsi, e gli Hark lo fanno, senza tradire smanie concettuali o ignobili astrattismi. L’uovo di Colombo degli uomini di Swansea è rappresentato dal bilanciamento fra sezioni dritte e ignoranti, ideali per una battaglia a bordo stage fatalmente assente per mancanza di effettivi, e piccoli sotterfugi per impegnare la mente e non rendere ovvia la mossa successiva; sotto allora con stacchi percussivi terremotanti, effetti stridenti e assassini, cavalcate di basso pestato come una macina usa a tramutare i crani in piccoli granelli d’ossa, assoli affogati nella distorsione e in scampoli psichedelici. Ci vuole sempre un po’ di concentrazione per stare dietro al filo del discorso, seguendo la traccia ben segnata dal vocione di Jimbob Isaak, più caldo di un amante in una notte di passione, urlatore severo quando occorre. Ci solletica un paragone con Troy Sanders dei Mastodon, con la differenza che Isaak dal vivo canta nettamente meglio. I Nostri ci provano ad animare la sparuta platea, chiedendo almeno di stare tutti vicini al palco e darsi una mossa: tentativo fallito. Il singer ci scruta in faccia uno per uno e ringrazia persona per persona per il (timido) sostegno. Il vuoto della venue, invece di farne calare l’autostima, fomenta la band, che si incarognisce col passare dei minuti, piazzando certi riffoni panterizzati davvero notevoli e facendo erompere melodie e chorus ad effetto con relativa facilità. Una quarantina di minuti di succosa polpa sludge/stoner, al tirar delle somme; anche solo per una sporca decina, gli Hark hanno rappresentato un bel modo di vivere uno spaccato della propria giornata.
KEN MODE
Prima dei Ken Mode, un numero di cabaret. Un amico in tour con loro, deputato sostanzialmente a dare una mano a livello logistico – non sappiamo se abbia un ruolo specifico nelle attività del gruppo – sale sul palco e impugna il microfono. Come avete visto fare tante volte in qualche telefilm americano, il barbuto simpaticone inizia a parlare delle cose sue, partendo dalla somiglianza con l’attore Zach Galifianakis, lo strambo e barbuto Alan Garner di “Una Notte Da Leoni”, e arrivando a raccontare vari e divertenti aneddoti della sua esistenza. L’obiettivo di intrattenimento è centrato, il ragazzo ci sa fare e le risate sono assicurate. Così, invece di girellare con lo smartphone in mano in attesa che gli strumenti si mettano a far rintronare i timpani, ci godiamo qualche minuto di non-sense, cui segue senza ulteriori pause la performance della band dei fratelli Matthewson. I due economisti prestati al noise, quando non sono sul palco, sono i classici ragazzi perbene da middle-class nordamericana: appena si calano nei panni di musicisti, attivano la famigerata modalità Kill Everyone Now – Mode. E’ come se levassero una maschera e ne indossassero un’altra. Un doppione di se stessi, nascosto nella vita di tutti i giorni, che esce allo scoperto nel momento del bisogno per tramutare l’aria in gas nervino. Servirebbe una camicia di forza per contenere gli scatti, la tensione dei tendini, il dinoccolarsi di Jesse, il fratello cantante e chitarrista, mascella serrata e occhi di Medusa, il perno del terzetto e il mezzo attraverso cui far detonare la corrente nichilista racchiusa nel cuore pulsante della band. Ogni strumento coopta per spezzare il suo compare, creando un labirinto pieno di spigoli, contro cui schiantarsi ed essere tragicamente perforati. Disagio e psicosi filtrano da ogni poro di una materia musicale in spastico e spezzettato divenire, una serie di sbarramenti e cesure sfida a mantenersi lucidi dinnanzi a un carambolare di note irregolare, illogico, in cui ravvisiamo una nevrosi sul punto di tramutarsi in follia cieca e insopprimibile. Le melodie sono quasi bandite, sostituite da uno sprezzante assedio di urla, saette, scatti e torsioni, obliquità disturbate e fugaci apparizioni di punk evoluto – alla Refused – per intenderci, galleggiamenti nel post-metal e una dedizione nell’arrecare dolore, fisico e psicologico, a cui non si viene mai meno. Non esattamente un gruppo dalla parlantina sciolta, i Ken Mode mantengono le proprie sembianze di reietti in guerra col mondo per l’intero concerto, che vede il suo apice proprio in fondo, con la strascicata irascibilità di “Never Was”. Sussurri quasi reznoriani vengono presi a pugni da esecrabili frustate hardcore, con le urla di Jesse e del bassista Skot Hamilton, altro elemento non propriamente in sé con lo strumento in mano, che si accavallano sempre più disperate e inascoltate e il chitarrista che, senza perdere la sua smorfia modello Harry Pioggia Di Sangue, termina l’esibizione in mezzo al pubblico, vociando indomito senza l’ausilio del microfono. Una bella chiusura ad effetto per una serata che, a voler fare i fighi, potremmo definire “elitaria”. Nessuna anticipazione, infine, del nuovo album “Success”, per cui cominceranno le registrazioni a fine novembre. Ribadiamo il dispiacere per il poco seguito avuto dalle due band, sperando che ciò non gli faccia passare la voglia di tornare a farci visita.