L’annuncio della resurrezione del Kill-Town Death Fest ha rappresentato per chi scrive una delle notizie più belle degli ultimi dodici mesi. Nel 2014 con grande dispiacere avevamo appreso della volontà dell’organizzazione di chiudere quello che era rapidamente diventato il nostro festival preferito, dopo cinque edizioni memorabili contraddistinte da cartelloni da urlo per tutti i fan del death metal di matrice old school più underground. A differenza di altri eventi, dove i problemi sono per lo più di natura finanziaria quando si è costretti a gettare la spugna, il collettivo dietro il festival di Copenhagen – trattandosi da sempre di una manifestazione senza fini di lucro – aveva scelto di salutare per il semplice motivo che, a detta loro, non erano rimaste più molte band valide da invitare. L’organizzazione non voleva ripetersi e ingaggiare gruppi che avevano già preso parte ad una delle passate edizioni, indi per cui si decise di archiviare tutto per dedicarsi ad altro, con buona pace di coloro che avevano trovato nel KTDF una sorta di seconda casa. Tuttavia, da allora il panorama underground non ha mai smesso di vedere la nascita o il ritorno di una vasta schiera di formazioni interessanti e parecchie di queste hanno pubblicato album che probabilmente verranno considerati dei punti di riferimento quando in un futuro in certi ambienti si parlerà di storia del death metal degli anni 2010.
Una scena tanto prospera necessitava più che mai di un festival che la rappresentasse e, per nostra fortuna, lo scorso anno i ragazzi danesi hanno deciso di riesumare l’evento che tanto avevamo amato, convinti che ci fossero nuovamente le basi per dare vita ad un happening interessante sotto ogni punto di vista. Una volta registrato un inaspettato cambio di location – dall’ormai mitico centro sociale Ungdomshuset il festival si è trasferito nel rinomato Pumpehuset, storico locale situato nel centro di Copenhagen – i fan all’inizio di quest’anno hanno presto potuto constatare come l’organizzazione fosse ancora perfettamente in grado di allestire una line-up di valore, fra vecchie glorie, cult band, nuove promesse e vari giovani sulla cresta dell’onda. Le conferme sono state svelate poco alla volta, a prevendite già aperte, e nel giro di poche settimane la pagina Facebook del festival ha annunciato il sold out, fornendo ulteriore dimostrazione di quanta fame ci fosse per un evento di questo genere. Certamente qualcuno potrebbe obiettare che certi cartelloni del passato fossero più memorabili di quello di questa edizione e che il sold out sia in parte ingiustificato e anche e soprattutto frutto di un certo hype venutosi a creare fra le cosiddette nuove leve, ma a nostro avviso tali considerazioni lasciano il tempo che trovano: negli ultimi tempi il panorama underground death metal si è allargato e ha destato l’interesse anche di persone non necessariamente fanatiche del genere; di conseguenza, è normale che una manifestazione come il KTDF oggi goda di maggiore appeal e notorietà. Inoltre, fa solo piacere vedere che l’idea di questi ragazzi venga finalmente premiata da un numero di persone proporzionato al mazzo enorme che è richiesto per metterla in atto. Anni fa eravamo i primi a restare a bocca aperta davanti alla qualità dei gruppi e dell’organizzazione, ma era altrettanto evidente che il centro sociale Ungdomshuset fosse tristemente lontano dall’essere pieno. Quest’anno il collettivo ha finalmente raccolto quanto non era riuscito ad ottenere agli inizi e ciò è solo positivo, visto che il successo riscosso probabilmente metterà i ragazzi nelle condizioni di replicare nel 2019.
Tornando al festival in se, l’unico neo è stato rappresentato dall’annullamento last minute dei Mortem, costretti a rimanere in Perù per non meglio specificati disguidi con la documentazione necessaria per volare in Europa. Per il resto, il festival è miracolosamente riuscito a mantenere intatta la sua celebre atmosfera familiare pur spostandosi in un vero e proprio locale nel centro cittadino. Certo, i prezzi di bevande e cibo all’interno non sono quelli di uno squat, ma, grazie ai braccialetti forniti alla consegna del biglietto, è stato possibile entrare e uscire dal club per rifocillarsi a proprio piacimento in città. Va inoltre segnalato come, prezzi a parte, il Pumpehuset sia un locale davvero clamoroso, sia in termini di accoglienza che di qualità dei suoni. Con due sale dotate di aria condizionata e di un impianto audio-luci all’avanguardia, più un cortile esterno con beer garden e un piccolo palco, si è rivelato una location praticamente perfetta per ospitare un evento come il KTDF. Davanti ad un assetto tanto funzionale, c’è solo da sperare che venga riconfermato per un’ipotetica edizione 2019.
Questi i necessari cenni introduttivi; andiamo adesso ad analizzare l’aspetto prettamente artistico del festival. Un cartellone tanto pieno e degli orari molto serrati hanno comportato un dispendio di energie degno di una vera maratona, ma, a conti fatti, siamo riusciti a seguire quasi tutte le esibizioni in programma nei quattro giorni, restando di rado indifferenti davanti a quanto espresso dai gruppi sul palco.
GIOVEDÌ
L’onere e l’onore di aprire il festival spetta ai REPTILIAN, chiamati ad esibirsi nella sala minore del Pumpehuset, denominata in questa sede Black Stage. Il gruppo norvegese, molto giovane e con un solo full-length all’attivo, non ha evidentemente mai avuto prima d’ora l’opportunità di esibirsi ad un evento di questo calibro. Si percepisce un po’ di apprensione sulle assi del palco, ma nessuno ci bada più di tanto. Dopo tutto, l’esaltazione alle stelle, il ritorno del KTDF e’ finalmente realtà, e l’atmosfera è di conseguenza esclusivamente positiva. La proposta dei ragazzi offre dei buoni spunti, soprattutto quando i ritmi accelerano, mentre sui midtempo la band convince meno, dando l’impressione di mancare di un po’ di pathos. Tutto sommato, comunque, non e’ forse questa l’occasione per trarre conclusioni sui Reptilian: il loro sound, simile a quello di altre realtà norvegesi che mescolano death, doom e heavy classico (Obliteration, Execration, ecc), non è dei più immediati e necessita di un attento ascolto fra le mura di casa per essere apprezzato pienamente in concerto. Praticamente l’opposto di quanto offrono gli australiani CEMETERY URN sul Main Stage, band che, al confronto di certi suoi connazionali, risulta quasi melodica e ordinata, ma che, quando presa singolarmente, è davvero sinonimo di veemenza e oltranzismo. Siamo dalle parti di quel death metal venato di “war metal” tanto popolare in Oceania, qui rielaborato in una chiave giusto un poco più disciplinata. Il lavoro delle chitarre si sente bene e la sezione ritmica apre spesso e volentieri a partiture anthemiche che trainano un’atmosfera epica e conseguenti corna al cielo da parte della platea. Il gruppo appare nel complesso più rodato rispetto ai norvegesi, ma ovviamente anche il taglio della proposta gioca un ruolo fondamentale: quando il quartetto parte con un brano come “Down the Path of the Dead” nessuno resta impassibile; c’è solo da fare headbanging e da incitare i musicisti, seguendo il coro avviato dal frontman Andrew Gillon.
Scendiamo nuovamente davanti al più piccolo Black Stage per goderci il primo concerto della storia degli HYPERDONTIA, band che a quanto pare è nata proprio qui, quando i suoi membri si conobbero ad una delle passate edizioni. La band è infatti guidata dall’ex chitarrista dei Burial Invocation Mustafa Gürcalioglu e dal buon David Mikkelsen, uno degli organizzatori del festival, nonchè mente degli Undergang. Con loro, passiamo ad un death metal piuttosto tecnico di chiara ispirazione anni Novanta, sound che è chiaramente nelle corde di gran parte dei presenti. Il debut album “Nexus Of Teeth”, ufficialmente fuori da pochi giorni, sta ricevendo un bel responso nell’underground e davanti alla performance capiamo ulteriormente il perchè: la band può vantare un repertorio ricco di riff molto incisivi e orecchiabili, capaci di fare subito presa sull’ascoltatore. In un periodo in cui troppi gruppi provano a mescolare le carte e a rendere il loro sound contorto e misterioso, gli Hyperdontia vanno maggiormente al sodo, mettendoci senz’altro del loro, ma rispolverando l’impatto di certi grandi classici del genere. Si tratta appunto del loro primo show, ma i musicisti sono esperti e il pubblico è tutto dalla loro parte. Il risultato è una mezzora davvero piacevole.
Non c’è tempo di respirare e, anzi, andiamo ad ansimare come non mai davanti al Main Stage, dove i NECROWRETCH stanno frustando la platea con il loro viscerale death-black-thrash. Il gruppo viene sovente accusato di essere sin troppo monotono, troppo impegnato a dare di matto e a costruire trame parossistiche difficili da seguire e da ricordare. Senza dubbio vi è del vero in tali affermazioni, ma abbiamo da tempo un debole per questi francesi, da sempre una sorta di degenerato incrocio fra Grotesque, Sarcofago, Obscurity e Dissection. Proprio come su disco, il quartetto va a mille senza guardarsi indietro, rendendosi protagonista di un set intensissimo e frenetico. Basta concentrarsi sul batterista e sulla sua mimica facciale per capire quanto i Nostri ci credano! D’altronde, il repertorio non offre brani più lenti o accessibili, quindi la parola d’ordine è ‘delirio’, con tutto quello che ne consegue. Per noi si tratta anche di un grande esempio di prestanza: non è da tutti reggere questo ritmi per tre quarti d’ora.
La sorpresa della serata porta tuttavia il nome di TORTURE RACK, band giusto gradevole su disco, ma che dal vivo si trasforma in un vero bulldozer. Del resto, ciò è proprio quello che si chiede ad un gruppo come quello in oggetto: nessuna finezza, ma tanto impatto e sostanza. I Nostri si rifanno ai Cannibal Corpse dei primi due album, con l’aggiunta di un tocco di Broken Hope, Baphomet, Cianide e altri trogloditi dell’underground death metal statunitense anni Novanta. Il sound è a dir poco diretto e senza fronzoli, ma quelli che a casa risultano solo dei brani piacevoli, nel contesto live assumono i connotati di mazzate inaudite, se non altro perchè interpretati con una foga che lascia basiti sin dai primi momenti. Di rado abbiamo visto un piglio tanto autoritario provenire da una band con poche pretese come questa: pochi elementi ben dosati e una convinzione che porta tutto su livelli di potenza e coinvolgimento inauditi. Il pubblico impazzisce e scatena il primo vero pogo del festival. Da riprovare quanto prima!
Dalle elementari passiamo direttamente all’università con i BLOOD INCANTATION, band che a livello di intenzioni è l’esatto opposto dei Torture Rack. Se questi ultimi puntano tutto sulla semplicità, il gruppo del Colorado ha l’ambizione di dare al proprio death metal un taglio più astratto e progressivo, pur senza dimenticare le antiche basi del genere. Amiamo “Starspawn”, l’ormai celebre debut album del quartetto, e questa sera abbiamo modo ancora una volta di ascoltare i suoi momenti salienti, interpretati da una formazione in stato di grazia. Il gruppo e da tempo in tour, fra Nordamerica, Oceania ed Europa: se l’esecuzione era impeccabile un anno fa, è normale che adesso si abbia praticamente l’impressione di stare ascoltando un CD. I Blood Incantation hanno il carisma e l’esperienza di un vero headliner: se non sono (ancora?) entrati a fare parte della scuderia di una casa discografica enorme è solo per loro scelta; il pubblico che riescono ad attirare, i dati di vendita e la mole di merchandise che puntualmente arrivano a smerciare parlano da soli. Assieme ai Dead Congregation, questo è il gruppo che ha in mano le redini dell’attuale underground death metal. Questa sera celebriamo la loro definitiva affermazione con l’ennesimo show ineccepibile.
VENERDÌ
Torniamo sul luogo del delitto nel pieno pomeriggio di venerdì: ci sarebbe tutta una città da visitare nuovamente, ma non vogliamo perdere lo show dei GALVANIZER, chiamati a intrattenere il pubblico che sta usufruendo del comodo beer garden situato all’entrata del locale. Il gruppo finlandese si esibisce sul piccolo palco esterno: un contesto umile e senza pretese che ben si addice alla proposta del trio finnico. Abbiamo apprezzato il ruvido death-grind di scuola primi Carcass e Xysma presentato sul debut album “Sanguine Vigil” e quest’oggi abbiamo ulteriore conferma delle doti dei giovani ragazzi, protagonisti di una prova efficace e di sostanza. La palla, poco dopo, passa ai più seriosi TAPHOS, nuova realtà del fremente panorama locale. Li abbiamo visti di recente in tour in Europa con i Degial e sappiamo che il loro death metal d’assalto – non dissimile da quello proposto dai succitati temibili svedesi – sa fare molto male. Purtroppo ci sembra che la luce del giorno e la situazione vagamente dispersiva del cortile tarpino un po’ le ali nere del quartetto, il quale, anche per dei suoni un po’ deboli, non riesce a catturare su di se l’attenzione di tutti i presenti come ci saremmo aspettati. Ovviamente riconosciamo i brani e la loro qualità, ma una sala buia avrebbe senza dubbio giovato alla resa complessiva dello show.
Il problema atmosfera non si pone una volta aperte le porte del locale: i FETID aprono le danze sul Black Stage e spazzano via tutto con una vagonata di lerciume che accogliamo a braccia aperte. Il demo pubblicato lo scorso anno ci aveva fatto una buona impressione, ma gli statunitensi “brillano” soprattutto dal vivo. Per loro potremmo fare lo stesso discorso fatto per i connazionali Torture Rack: il sound non sarà magari riconoscibile come Fetid (evidenti le influenze di Autopsy e Rottrevore), ma il tiro e l’ignoranza dei riff, abbinati ad un’interpretazione spiritata, fanno davvero la differenza. Urgh!
Per i PISSGRAVE invece ci sentiamo di parlare di tormento e alienazione: la proposta di questa famigerata band rientra sicuramente nel filone death metal, ma le loro chitarre raggiungono livelli di saturazione tali da portare l’intera esperienza su lidi lontani da quelli cari alla maggior parte delle band presenti al festival. Il gruppo riempie la sala principale con un suono talmente disturbante e filtrato che si ha quasi l’impressione di trovarsi al cospetto di una sorta di versione death metal dei Sunn O))); non sono i riff, ma le frequenze a fare lo spettacolo, assieme al growling distorto di Demian Fenton e Tim Mellon. Una parentesi affascinante, anche se magari non per tutti.
Restiamo su livelli di “difficoltà” elevati con l’arrivo, sul Black Stage, degli ASCENDED DEAD, band all’apparenza più tradizionalista, ma artefice di un sound talmente frenetico e bestiale da risultare indigesta a molti. Un death-thrash dal taglio profondamente sudamericano a livello di impatto e attitudine, dove i pur presenti lampi di tecnica vengono puntualmente sommersi da una foga che a volte appare persino irrazionale. Si tratta del primissimo concerto in terra europea per i californiani e lo ricorderemo soprattutto per la veemenza del giovane frontman Jon Reider, assatanato e coinvolto nella performance esattamente come i ragazzi dei Necrowretch ventiquattro ore prima.
Respiriamo un pochino con i VENENUM, band ormai raffinatissima che ha definitivamente spiccato il volo con “Trance Of Death”, acclamato full-length uscito lo scorso anno. Nella loro evoluzione da velenosi death-thrasher a prog rocker in chiave estrema, i tedeschi hanno più volte scomodato paragoni con i Tribulation, cosa che viene confermata dall’atmosfera ricercata che avvolge questo live. Meno teatrali degli svedesi, ma ugualmente eleganti e posati sul palco, i Venenum conquistano la platea davanti al Main Stage con uno show ricco di sfaccettature, nel quale spicca la clamorosa title track dell’ultimo lavoro, sintesi perfetta del loro death metal intriso di divagazioni seventies.
Agli idoli di casa PHRENELITH si chiede invece di picchiare duro: il sound è meno rozzo di quello di cui sono alfieri gli Undergang del loro chitarrista David Mikkelsen, ma l’impatto nei momenti più groovy non è poi tanto dissimile. La band continua a viaggiare sull’onda del buon successo riscosso dal debut album “Desolate Endscape”, ma quest’oggi coglie l’occasione per presentare anche il materiale del nuovo EP “Ornamented Dead Eyes”, uscito proprio in questi giorni. Difficile cogliere tutte le sfumature nella sala che ospita il Black Stage, ma pare che il gruppo sia riuscito a sviluppare una vena melodico/drammatica che non lascia indifferenti. Da segnalare infine una sentita “ospitata” da parte di Eli Wendler, batterista/cantante degli Spectral Voice, su “Once Fertile Soil”.
Abbiamo rivisto i Grave Miasma poche settimane fa in quel di Londra, assieme ai Sadistic Intent, quindi rifiatiamo un po’ durante il loro set per poi posizionarci di nuovo davanti al Black Stage per l’arrivo dei TRIUMVIR FOUL. Vi è una certa attesa attorno al gruppo americano, reduce da due album ben accolti e stasera all’esordio assoluto nel Vecchio Continente; del loro concerto ci resta impressa soprattutto l’inedita pulizia del suono, elemento non rintracciabile nella produzione in studio. Se su disco i Nostri sembrano subire il fascino di gente come Adversarial o Teitanblood, in particolare a livello di resa sonora, dal vivo il death metal proposto acquista un impatto piu’ chiaro, dinamico e tradizionale, finendo per mettere in primo piano i tratti old school. Niente di male, anzi… risulta però curioso che una band diventi più pulita sul palco: di solito avviene il contrario! Giunti a questo punto, sarebbe toccato ai Mortem chiudere la seconda giornata del festival, ma l’ormai nota cancellazione della loro performance manda tutti al beer garden o dritti a nanna.
SABATO
Arriviamo al Pumpehuset giusto in tempo per l’inizio del concerto dei CADAVERIC INCUBATOR. Praticamente riviviamo l’incipit del giorno precedente, fra un cortile gremito di gente (in verità più interessata a bere e a chiacchierare che a seguire quanto sta avvenendo sul palco esterno) e una band finlandese dedita ad un death-grind vecchia scuola. Le differenze rispetto a ieri consistono nel fatto che il tempo sia un po’ incerto e che il gruppo sia ben più anziano – e fisicamente più brutto! – dei rampanti Galvanizer. In ogni caso, davanti ad una band così spontanea per noi il divertimento è assicurato, anche se ad un certo punto dobbiamo fare i conti con un acquazzone.
La giornata prende poi una piega più seriosa una volta entrati nel locale: sul Black Stage stanno suonando gli ANTIVERSUM, schiva formazione elvetica che propone un death metal frastornante che sembra spesso chiamare in causa Portal e Mitochondrion, a livello di influenze. Non conosciamo benissimo il repertorio del gruppo di Zurigo, ma restiamo comunque davanti al palco per goderci un set che ha nella profondità del suono e in un importante gioco di luci le sue armi migliori. Approfondiremo la loro conoscenza una volta a casa.
Non necessitano invece di grandi presentazioni gli UNDERGANG, indiscussi sovrani di Kill-Town, intesa come scena death metal di Copenhagen. La band ha da poco dato una sistemata alla sua line-up e il nuovo assetto a quartetto sembra avere dato una enorme marcia in più alla formazione. L’attitudine crust-punk è sempre evidente, ma il suono è maggiormente pieno e ordinato, degno di una band che sta puntando sempre più in alto. I nuovi arrivati – il chitarrista Mads Haarløv e il bassista Martin Leth Andersen – contribuiscono anche a livello di presenza scenica e rendono lo show sempre più coinvolgente. Bella la scaletta, con pezzi estratti da vari capitoli della discografia, e davvero micidiale il finale, per il quale i Nostri rispolverano “Indhentet af Døden”, title track del primo album. Una martellata in pieno volto che infiamma l’intera sala principale.
Vi è anche una rappresentativa italiana a questa edizione del festival: i MEFITIC portano un po’ di mistero e di marzialità all’interno del programma, dopo la gradita “caciara” targata Undergang. Il loro sound deve certamente qualcosa ai maestri Incantation e ai Grave Miasma, ma una predilezione per tempi solenni rende la proposta piuttosto personale. Seguiamo il concerto dei ragazzi lombardi con attenzione, in quanto non sappiamo quando avremo modo di rivederli all’opera su un palco, ma anche e soprattutto perchè la band è capace di sprigionare un magnetismo non da poco. Lo stesso che avvolge da sempre i NECROS CHRISTOS, band che al KTDF è idolatrata come poche altre. I berlinesi hanno annunciato che porranno fine alla loro carriera al termine del ciclo promozionale per il nuovo “Domedon Doxomedon”, quindi non è proprio il caso di lasciarsi sfuggire l’occasione di ammirarli in un contesto come questo, dove il gruppo rende da sempre al meglio. Il quartetto non è una formazione da grandi festival open air e stasera ne abbiamo l’ennesima dimostrazione: il sound è sin dalle prime note estremamente avvolgente, il pubblico ha gli occhi fissi sul palco e si avvicina per sostenere al massimo la band e la penombra dona alla performance un’atmosfera arcana irreplicabile all’aperto. Dal vivo, come spesso succede, non c’è spazio per i famigerati intermezzi strumentali presenti sui dischi: si punta sull’impatto, tuttavia i Necros Christos non perdono nulla in eleganza e singolarità, interpretando ogni cavalcata con grande passione. Da un caposaldo del circuito live europeo passiamo a dei completi newcomer con l’arrivo sul Black Stage degli SCOLEX, gruppo californiano che si avvale di membri di Blood Incantation e Necrot per completare la sua line-up da concerto. La band ha solo un EP e uno split all’attivo, ma il pubblico è curioso di vederla all’opera, visto che sinora si è parlato molto bene di loro nei circoli underground. Che dire… le aspettative vengono soddisfatte grazie ad uno show breve e particolarmente vivace, durante il quale i dettami di primi Death e Autopsy vengono rielaborati con competenza e con una verve apprezzabilissima. Volevamo rifiatare, ma risulta difficile rimanere fermi davanti al palco.
Torniamo quindi ai grandi classici con i DEMILICH, maestri finlandesi che non ci stancheremo mai di seguire e di lodare. Non importa che la loro scaletta sia ormai prevedibile (e non potrebbe essere altrimenti, vista l’esiguità del repertorio): ogni volta che ammiriamo il quartetto dal vivo non possiamo che restare basiti davanti alla naturalezza con cui certe finezze e le varie ardite evoluzioni tecniche vengono interpretate. C’è raffinatezza, tecnica, impatto, ma anche tanto cuore in ogni esibizione dei techno-death metaller finlandesi per eccellenza. E poi ci sono le tante battute e freddure del frontman Antti Boman, da sempre capace di trovare un guizzo di humour anche in un contesto apparentemente serioso come quello di un festival death metal. Grazie a prove come questa, “Nespithe” diventa sempre di più uno dei dischi della vita.
Tocca poi ai NECROT mantenere alto lo stato di ebbrezza collettivo. Ascoltando il loro death metal assolutamente lineare e scattante, immaginavamo che il gruppo americano dal vivo avrebbe potuto rivelarsi una vera bomba. Mai presentimento fu più esatto: i Necrot sono un trio a dir poco incendiario! L’italianissimo cantante/bassista Luca Indrio sembra nato per fare il frontman: nel giro di una canzone ha la platea in pugno e detta i tempi dello show, continuando poi ad aizzare i più esagitati nel pit. Dietro di lui il chitarrista Sonny Reinhardt e il batterista Chad Gailey procedono senza alcuna esitazione, tirando su un wall of sound che apre letteralmente in due il locale. Non siamo qui per valutare l’originalità della proposta, ma l’efficacia dei singoli brani, e questi ultimi in sede live sanno certamente come infiammare il pubblico. I ragazzi al momento sono come dei Master con trent’anni in meno e tanto brio in più.
Chiudiamo infine la giornata con gli assoluti leader del settore. Dopo vari tentativi andati male, gli INCANTATION arrivano finalmente al KTDF in veste di headliner dell’intera manifestazione. John McEntee probabilmente sa bene che senza il suo apporto alla causa death metal un evento come questo non sarebbe mai stato concepibile e un velo di superbia pare emergere da alcuni suoi commenti nella pause all’interno del concerto. Quando però la sua band inizia a suonare a ad ingranare, nessuno osa lamentarsi. D’altronde, gli statunitensi attaccano addirittura con “Abolishment of Immaculate Serenity”, facendo subito intendere che lo show di questa sera servirà da dimostrazione di forza e da termine di paragone per buona parte dei molti giovani discepoli presenti al festival. La scaletta, come sottolineato dallo stesso frontman, verte particolarmente sul lato death-doom del repertorio, come se si trattasse di un antipasto per il programma della domenica. Le soluzioni ritmiche e chitarristiche che ci vengono presentate rappresentano a tutti gli effetti la base del sound di una buona fetta della line-up del KTDF. Siamo al cospetto dei padri del genere, di coloro che hanno gettato il seme per quasi tutto quello che è stato costruito nell’underground death metal negli ultimi anni. La performance, sul fronte esecutivo, non è precisa come in altre occasioni, ma il valore del repertorio è ovviamente inattaccabile. Gli Incantation, cinici come tutte le grandi squadre, vincono con il minimo sforzo.
DOMENICA
Il tempo vola quando ci si diverte. Senza quasi accorgercene, siamo già all’ultimo giorno di festival, il cosiddetto “Gloomy Sunday”. Come da tradizione, la domenica, giornata conclusiva del KTDF, è dedicata al doom in chiave estrema. I ritmi rallentano e l’atmosfera prende una piega ancora più sinistra e soffocante. La giornata parte con il botto grazie agli emergenti MORTIFERUM, giunti a Copenhagen direttamente da Olympia, Washington. La band ha sinora rilasciato un solo demo, prontamente ristampato in CD e LP da etichette importanti come Profound Lore e Blood Harvest. I ragazzi possono essere inseriti in quel filone death-doom rinfrescato ultimamente dai connazionali Spectral Voice: riff pesantissimi, ritmiche possenti, ma anche un gioco di luci e ombre a livello di umori che rende il tutto più dinamico ed emotivo. Il gruppo si presenta in palla e coinvolge l’intera sala del Black Stage per tutto l’arco del suo breve show. I succitati SPECTRAL VOICE prendono invece possesso del Main Stage: proprio come i parenti Blood Incantation, il quartetto è molto atteso e non fa nulla per disattendere le aspettative. A differenza di tutte le altre band, gli Spectral Voice chiedono di esibirsi a luci spente: il buio avvolge la sala principale e presto veniamo inghiottiti in un vortice di suoni opprimenti, fra i quali ogni tanto emergono quei puntuali, sibillini, arpeggi per i quali i ragazzi stanno diventando noti. Conosciamo ormai a memoria il fantastico debut “Eroded Corridors of Unbeing” e siamo felici che i suoi brani costituiscano il grosso della scaletta, ma il gruppo non dimentica il demo “Necrotic Doom” e, verso la fine, trova anche il tempo di snocciolare un inedito che potrebbe trovare spazio in qualche prossima release. Stranamente, i suoni non sono ottimali, ma riusciamo a cogliere la solita classe anche in questo nuovo pezzo.
Riscontriamo meno hype attorno ai SEMPITERNAL DUSK – anch’essi statunitensi e facenti parte del roster Dark Descent Records – ma il concerto della band di Portland, chiamata ad esibirsi sul Black Stage, è comunque di quelli onesti. Il gruppo è alfiere di un sound radicato nel death-doom tanto quanto in certo occult black-death, quasi sempre giocato su dei mid e down-tempo massicci che non lasciano campo a chissà quale ambiguità. Si respira un continuo senso di afflizione durante la quarantina di minuti a disposizione del gruppo, e anche quando la batteria si fa avanti dettando un tempo maggiormente sostenuto, i riff di chitarra danno sempre e comunque l’impressione di essere scolpiti nella pietra. Poche variazioni, insomma, ma una potenza non indifferente.
I RUNEMAGICK sono invece la prima vera chicca della giornata. La carriera degli svedesi è di quelle travagliate – fra scioglimenti, reunion e responsi spesso piuttosto scoraggianti, in rapporto alla qualità media della proposta – quindi a molti non sembra vero di potere assistere ad un loro concerto, per giunta in un contesto speciale come quello del KTDF. Per fortuna, il quartetto di Gothenburg si presenta in buona forma e con una scaletta che include una manciata di canzoni estratte dai loro primi due album, da sempre i più apprezzati della discografia. Il sound dei Runemagick non è mai stato facile da catalogare e da “vendere” – spesso troppo radicato nel doom tradizionale per i death metaller e troppo estremo per il pubblico di estrazione doom – ma la platea stasera è fortunatamente anche qui per loro, come dimostrano i sonori applausi che la loro comparsa sul Main Stage riceve. Lo show procede in maniera molto concreta, senza grandi picchi ma senza nemmeno cali di tensione: presenza scenica sobria, se non inesistente, e pezzi suonati con impegno e concentrazione da Nicklas Rudolfsson e compagni. “Enter the Realm of Death” è il nostro personale highlight.
Restando in tema di recuperi clamorosi per cultori dell’underground e inguaribili nerd-nostalgici, il concerto dei RIPPIKOULU è un altro momento clou della serata. I finlandesi, autori dell’EP “Musta Seremonia” nel lontano 1993, sono il classico nome di culto che al KTDF è venerato quanto i primi Morbid Angel. Non si può comprendere tale entusiasmo se non si ha estrema familiarità con l’underground death metal dei primi anni Novanta, ma l’avventore medio del festival è un ascoltatore che sguazza in questo tipo di band e uscite minori. I death-doom metaller finnici hanno ripreso ad esibirsi dal vivo da qualche tempo e, non a caso, questa sera incorriamo in una band piuttosto compatta e affiatata, che, senza strafare, dà al pubblico esattamente ciò che quest’ultimo desidera. Sorvolando su dei suoni inizialmente un po’ ovattati, la performance del quintetto ci coinvolge con tutta l’asprezza e il vigore dei brani dell’EP: midtemponi da headbanging violento che, riff dopo riff, mettono a dura prova i muscoli del collo delle prime file. Proprio come i Moondark anni fa, i Rippikoulu si impongono con la forza, facendo dimenticare ogni dubbio sul loro stato di forma. La parentesi dedicata alle riesumazioni impossibili prosegue con l’arrivo dei (o delle) DERKETA, altra cult band con all’attivo un solo full-length in una carriera iniziata nel lontanissimo 1988. Guidata dalla chitarrista/cantante Sharon Bascovsky, la doom-death metal band di Pittsburgh viene accolta con grande eccitazione e curiosità dalla platea, evidentemente felice di poter assistere al primo show in terra europa del quartetto. In tutta onestà, le nostre aspettative non sono alte, se non altro perchè il gruppo ha scarsa esperienza sul fronte live e non è mai stato costantemente attivo in tutti questi anni. Per fortuna, però, l’esecuzione si dimostra sin dalle prime battute concreta e coinvolgente; la frontwoman è timida e non va oltre una breve presentazione per ogni brano, la presenza scenica è modesta, eppure il set trasmette genuina passione nella sua carrellata di death-doom dall’atmosfera vintage, fra Autopsy, primi Death e derive sabbathiane. Ogni pezzo raccoglie più ovazioni del precedente e lo show finisce in crescendo, tra applausi che lasciano visibilmente sorpresa la band. Realisticamente, sia Derketa che i fan non potevano chiedere di più da questo evento.
Si tratta invece del primo concerto in assoluto per i WORMRIDDEN, progetto avviato da David Mikkelsen degli Undergang e da Takashi Tanaka degli Anatomia, questa sera accompagnati dal chitarrista Mads Haarløv (Undergang) e da un altro bassista locale. La proposta del gruppo è sostanzialmente la somma del sound delle band dei protagonisti, con l’aggiunta di spunti alla Winter, Autopsy e Coffins. Death-doom ignorante, sporco e sguaiatissimo, insomma, che spesso sprofonda in rallentamenti ultra-minimali dove si fa a gara a trovare il riff più ebete (in senso buono). Avendo all’attivo soltanto un paio di demo, i Wormridden si trattengono poco sul piccolo Black Stage, facendo però in tempo a scatenare un gran macello nel pit. Per molti questa è l’ultima occasione per lasciarsi andare, la birra scorre e la band ci dà dentro sino all’ultimo. Alla fine tutti in sala finiscono per premere verso il palco, dimenticando la stanchezza.
Il sipario su questa “resurrezione” del KTDF cala infine sulle note dei sempre più noti HOODED MENACE, invitati a proporre il loro debut album “Fulfill The Curse” (uscito dieci anni fa) per intero sul Main Stage. Il gruppo ha suonato spesso ultimamente e proprio nel finale viene quindi a mancare quell’elemento di esclusività che ha caratterizzato molti dei concerti di questa edizione. In tanti purtroppo decidono di rincasare o di dirigersi verso il beer garden durante lo show, eppure i doom-death metaller finlandesi non demordono, lanciandosi in un concerto sentito, che rispolvera al meglio le sonorità brune e un po’ rustiche dei loro esordi. Onestamente, continuiamo a trovare il nuovo nerboruto cantante Harri Kuokkanen più adatto a fronteggiare un gruppo viking che una realtà come gli Hooded Menace, ma alla fine si tratta di dettagli ignorabili davanti all’ottima resa complessiva di pezzi come “Beauty and the Feast” o “The Eyeless Horde”. A fine set non è rimasta moltissima gente davanti al Main Stage, tuttavia l’impressione lasciata dalla band resta positiva. Il Kill-Town Death Fest 2018 si è concluso degnamente.