Report di Luca Pessina
Superati i problemi e le restrizioni legati alla pandemia, prosegue senza freni l’attività di Kill-Town Bookings e della sua principale e più rinomata creatura, il Kill-Town Death Fest di Copenhagen.
Giunto alla sua nona edizione (escludendo dal conteggio la versione ridotta allestita nel 2021), l’evento danese ormai non necessita di troppe presentazioni, se si ha un minimo di familiarità con la cultura death metal. Parliamo infatti di quello che oggi è a tutti gli effetti il più importante festival puramente death metal al mondo, da sempre famoso per essere all’avanguardia nella scelta delle band da invitare e al contempo noto per il suo carattere underground e l’atmosfera familiare, lontani da certe logiche di mercato che alla lunga ne annacquerebbero il concept.
Certo, c’è stato un momento, attorno al 2018/19, in cui sembrava che il festival stesse per prendere una piega ‘alla Roadburn’, diventando oggetto di hype e interesse anche al di fuori dei naturali confini della sua scena di riferimento, ma i sold-out istantanei e l’affluenza fuori dal normale sono durati poco. Lasciati alle spalle anche certi strascichi della pandemia – i quali hanno nettamente influito sulla partecipazione del pubblico lo scorso anno, dove si era verificato un curioso ‘sold out-solo sulla carta’, con una buona fetta di biglietti venduti in prevendita che poi non sono stati mai ritirati in cassa – oggi, come accennato, il Kill-Town Death Fest, a dispetto del crescente caro vita, è tornato a essere l’happening di sempre, con circa cinquecento/seicento avventori e un locale, il solito Pumpehuset, mai troppo affollato e assolutamente vivibile dal primo pomeriggio sino a tarda sera.
Quello del KTDF è ormai un assetto perfettamente rodato e a misura d’uomo: ogni anno la formula si ripete, con due palchi all’interno del locale, un piccolo stage nel beer garden esterno per qualche esibizione prima dell’apertura porte ufficiale, e la solita densa serie di concerti da metà pomeriggio a sera, con il death metal (nelle sue varie declinazioni vecchia scuola) a imperversare da giovedì a sabato e con una domenica generalmente dedicata a realtà dal carattere più doom.
A parte qualche problema con i suoni del palco principale nella prima giornata, il festival è stato ancora una volta un enorme successo sia a livello di programma che di organizzazione: chi segue questo filone sa che varie band che partecipano al KTDF sono ormai solite andare in tour in Europa attorno a queste date, ma l’esperienza di vederle calcare il palco del ‘quartier generale’ danese ha raramente eguali. Qui ogni gruppo è realmente messo nelle condizioni di dare il massimo e ha modo di esibirsi davanti a un pubblico che arriva letteralmente da ogni parte del globo.
Nonostante l’esclusività di certe band non sia quindi più garantita, l’esperienza KTDF, forte di uno dei migliori locali in Europa per questo genere di musica, resta comunque una spanna sopra a quasi tutti i concerti locali derivanti dai tour che la stessa Kill-Town Bookings organizza nel cosiddetto Vecchio Continente. Come ogni anno, aspettiamo quindi che vengano annunciati i primi dettagli della prossima edizione.
GIOVEDÌ 31 AGOSTO
La giornata di giovedì, quella più ‘breve’ del festival, comincia con i SULPHUROUS, al primo concerto dopo diversi anni di assenza dai palchi. Per il circuito di Copenhagen si parla tutto sommato di un nome di culto, essendo ufficialmente in attività da quindici anni e avendo al timone due figure di spicco della scena locale, ovvero il chitarrista/cantante Mathias Friborg (Hyperdontia, Taphos, Ascendency) e il batterista di origine polacca Tuna (Hyperdontia, Phrenelith e svariati altri progetti minori).
Come già accertato su disco, la proposta del gruppo è un tetro death metal che spesso flirta con arie black e doom, quasi sempre incentrato su composizioni dalla durata medio-lunga, con progressioni articolate e ampi momenti di sospensione in cui i riff vengono replicati con un effetto ipnotico. Per essere il primo show dopo tanto tempo, l’impatto dei ragazzi è molto buono e si rivela saggia anche la decisione di mantenere il set sulla mezz’ora di durata, con i brani migliori del repertorio a soddisfare una platea che in questo momento potrebbe essere ancora distratta.
A seguire, sul secondo palco, i TERATOMA, realtà con base a Berlino, ma composta per buona parte da musicisti di altre nazionalità, fra cui due sudamericani e un italiano (il bassista Giacomo, un tempo in forza agli Hierophant). Il quintetto ha una presenza scenica molto disinvolta e ciò aiuta ad attirare l’attenzione di un pubblico che per ora sembra ancora indeciso se seguire i concerti o ambientarsi e salutare vecchie e nuove conoscenze nel beer garden.
La prova della band è molto vigorosa e fa intravedere un certo gusto nella rielaborazione di un suono old-school death metal contemporaneo, sulla scia di gente come i succitati Hyperdontia, ad esempio. I riff hanno presa e le composizioni alternano i consueti feroci uptempo con dei breakdown particolarmente efficaci. Ci si lascia coinvolgere senza fatica, insomma.
Risaliamo quindi le scale verso il main stage ed è il turno degli ASCENDED DEAD, tornati a queste latitudini per un vero e proprio tour europeo diversi anni dopo la loro famigerata esibizione d’esordio al Kill-Town Death Fest 2018. Da allora, i ragazzi in verità non hanno fatto moltissimo, ma di certo va segnalata la pubblicazione di “Evenfall of the Apocalypse”, secondo full-length che li ha visti elevare il loro malefico death metal verso formule sempre più interessanti.
Purtroppo bisogna riconoscere che i suoni a sostegno della loro performance sono tutto fuorché ben calibrati, questa sera: pare che qualcuno al mixer sia andato in confusione e si fatica a distinguere le frenetiche trame delle chitarre. La ferocia è evidente – del resto i californiani suonano ogni sera da un paio di settimane e l’affiatamento fra loro risulta comunque evidente – ma viene purtroppo un po’ a mancare quella ‘botta’ che stavamo pregustando da tempo.
Paradossalmente, i BONES, sul secondo palco, riescono a ottenere un impatto maggiore. Parliamo di una formazione meno ‘pregiata’ rispetto ai colleghi statunitensi, ma nella sala inferiore questa sera i suoni non fanno scherzi e il gruppo belga tira dritto come un treno, colpendo per coesione e brutalità.
Il suono in questo caso ricorda una rielaborazione in chiave più malvagia del classico impianto Autopsy: qualcosa avvicinabile ai primi Obliteration, con uptempo selvaggi alternati a dei midtempo melmosi che sembrano gasare particolarmente la platea. Niente per cui strapparsi i capelli, ma la resa live è indiscutibile.
Un piacere anche (ri)trovare i tedeschi DROWNED, nome di culto del panorama europeo, negli anni spesso visti accanto a band dalla mentalità affine come Necros Christos, Venenum o Grave Miasma. Parliamo di quel death metal a cavallo fra occulto e revival vecchia scuola emerso proprio in concomitanza con gli inizi del KTDF e che ora sembra già un qualcosa di lontano nel tempo, per pochi veterani fedeli agli ascolti di una volta.
Il trio di Berlino non pubblica un nuovo album da circa un decennio, ma il repertorio degli inizi, spalmato su innumerevoli demo, mantiene il suo fascino anche a distanza di anni. C’è atmosfera, ci sono i riff e ci sono cadenze semplici che aiutano i brani a restare impressi. In un periodo in cui sembra quasi una regola essere astratti a ogni costo, i Drowned si confermano a loro modo una boa a cui aggrapparsi.
La linearità è un elemento distintivo anche dei GUTLESS, anche se con gli australiani ovviamente entriamo in territori sonori assai più brutali. Nonostante il gruppo di Melbourne non sia ancora arrivato al traguardo del full-length album, si è già fatto un certo parlare di questi loschi figuri nell’underground. Merito di un demo e di uno split molto ben accolti da quella frangia di ascoltatori che dal death metal pretende anche e soprattutto ignoranza, oltre a indubbie capacità tecniche. Accostabili a realtà come i Torture Rack, nel loro mettere davanti a tutto impatto e forza bruta, gli australiani rappresentano un vero toccasana in quegli eventi molto fedeli a certi parametri sonori: va bene il doom, va bene l’atmosfera, bene anche l’approccio schivo o lo-fi, ma ogni tanto servono anche delle sane badilate.
I Gutless non si fanno pregare e ci investono con una manciata di pezzi in cui il groove e certi strappi al limite dello slam la fanno da padrone. Una volgarità genuina, inserita comunque in canzoni che hanno un loro perché, senza eccessi gratuiti.
Il disco semplicità viene portato avanti dai DETERIOROT, headliner di questa prima serata, qui per promuovere il recente comeback album “The Rebirth”. Reduci da un paio di settimane di tour in compagnia degli Ascended Dead, i death metaller statunitensi si presentano entusiasti ed affiatati, con il cantante/chitarrista Paul Zavaleta ormai diventato una figura riconoscibilissima nel circuito, vista la sua ricorrente presenza sui social.
Il fare amichevole del frontman e dei suoni tornati su livelli decorosi contribuiscono a rendere la performance particolarmente gradevole, anche in quei momenti dove l’odore di ‘già sentito’ tende a farsi un filo più pressante. Pur essendo sulla carta un nome a suo modo storico (la fondazione risale al 1990), i Deteriorot non sono mai stati dei primi della classe: gli episodi più validi del debut “In Ancient Beliefs” si alternano infatti a qualche pezzo un po’ più standard, a ricordarci che la band ha sempre avuto più entusiasmo che talento. Ma il mix di vecchia scuola statunitense e finlandese riesce comunque a conquistare buona parte dei presenti e a lasciare un buon ricordo al termine dello show.
Per i cosiddetti completisti, essere finalmente riusciti a vedere dal vivo questi veterani è pur sempre un evento.
VENERDÌ 1 SETTEMBRE
Si entra nel vivo del festival nella giornata di venerdì, partendo a razzo con uno dei nomi più attesi di questa edizione del KTDF, ovvero i PHOBOPHILIC, qui alla tappa conclusiva del primo tour europeo della loro storia.
Lo scorso anno i death metaller statunitensi hanno pubblicato un debut album molto promettente ed è quindi un piacere poterne saggiare le potenzialità anche dal vivo. Trattandosi di una band che già oltreoceano ha intrapreso numerosi tour, non ci stupiamo nel vedere Aaron Dudgeon e compagni perfettamente affiatati e con un tiro da fare invidia a realtà più importanti. Forse anche perché i suoni sono tra i migliori sperimentati sin qui, la performance del quartetto di Fargo, North Dakota, si rivela particolarmente efficace, se non addirittura sopra le righe, quando i virtuosismi si prendono il palcoscenico e le due chitarre iniziano a rincorrersi. Superata con ampissimi margini anche la prova live, non possiamo quindi che rinnovare l’invito a tenere d’occhio questa band, se si amano le sonorità di Demilich, Tomb Mold e formazioni affini.
Sul palco minore è quindi il turno degli esordienti DEGRAVED, giovanissimo gruppo proveniente dal fertile circuito del Pacific Northwest americano. Un paio di loro hanno già suonato in questa sede con i Cavurn lo scorso anno, ma, rispetto a quel progetto, qui il death metal dei ragazzi sembra avere una connotazione più spedita e aggressiva, nonostante la resa sonora complessiva rimanga cavernosa come vuole certo trend contemporaneo.
Sinora il quartetto ha all’attivo solo un paio di EP, quindi lo spazio di manovra è piuttosto limitato, ma qua e là si sentono dei riff interessanti e, soprattutto, non si può fare a meno di constatare la solita grande confidenza con il palco, da tempo una costante per i gruppi nordamericani, i quali tendono a esibirsi dal vivo molto più spesso di quelli europei.
Al piano superiore, tocca poi agli APPARITION, formazione californiana che un paio di anni fa ha esordito con un valido debut album su Profound Lore. Al basso troviamo Taylor Young, musicista e produttore che negli ultimi anni ha collaborato con Nails, Twitching Tongues, Kruelty e svariati altri gruppi.
La maggior parte dell’attenzione viene tuttavia catalizzata dal batterista/cantante Andrew Morgan, davvero abile nel gestire il comparto ritmico e quello vocale, anche in quegli episodi in cui la proposta si fa più sghemba e tecnica. Vi è in effetti un che di jazzato in certe partiture, nonostante la band mantenga in primo piano un impatto e un groove fortemente death metal, che in qualche caso può rimandare ai soliti Tomb Mold. Nonostante la presenza scenica dei quattro non sia nulla di che, la sala appare gremita per questo concerto e le urla di sostegno si alzano prepotentemente tra un pezzo e l’altro.
Un entusiasmo che ritroviamo già dalle prime battute del set dei CIVEROUS, altri death metaller californiani che abbiamo avuto modo di conoscere tramite il loro debut album “Decrepit Flesh Relic”, uscito nel 2021. Rispetto ai loro conterranei appena esibitesi, i Nostri possono contare su un vero e proprio frontman, Issaiah Vaca, un ragazzo dotato di grande esuberanza e carisma.
Nella sala secondaria siamo abituati a vedere il pubblico salire sul palco ed entrare a stretto contatto con i musicisti; puntualmente, gli show su questo palco tendono a diventare particolarmente selvaggi, ed è infatti ciò che avviene nel corso della prova dei losangelini, i quali, con un Vaca trascinatore, riescono a coinvolgere praticamente chiunque. Se su disco la proposta dei Civerous ci ha convinto senza tuttavia farci ancora gridare al miracolo, in sede live la musica dei cinque acquista varie marce in più, sia nei momenti più groovy che in quelli da cui pare emergere un gusto melodico più europeo. Bravi.
Dagli OSSUARY ci aspettiamo pura ignoranza e veniamo prontamente accontentati: il trio guidato dalla chitarrista/cantante Izzi Plunkett è stato in tour in Europa con i Phobophilic nei giorni scorsi, quindi arriva a Copenhagen carico e ben rodato. Tra l’altro, apprendiamo anche che le ‘spalle’ della frontwoman sono la sezione ritmica di Jex Thoth, nota realtà doom statunitense; gente insomma di esperienza, che anche stasera ha modo di confermare tutta la propria preparazione.
Certo, la musica degli Ossuary non è tecnicissima, ma bisogna comunque avere la giusta attitudine per interpretare un death metal così ruvido ed essenziale. Più vicini a vecchie glorie come i Cianide che a eroi contemporanei come Mortiferum o Krypts, i tre stanno perfezionando demo dopo demo l’arte del midtempo in un contesto death metal, tenendosi a debita distanza da derive prettamente doom. Il loro sound è un susseguirsi di riff possenti che vanno dritti al punto e l’headbanging tra le prime file sorge quindi spontaneo.
Ci si diverte, insomma, prima che i GRAVE INFESTATION facciano calare un’ulteriore coltre di malevolenza sul festival. Forse la band più underground e indemoniata della giornata, quella canadese è formata da veri barbari death metal, ancora legati a un suono che guarda più agli anni Ottanta che ai Novanta.
Un po’ Necrovore, un po’ Autopsy, con saltuari rimandi persino a Celtic Frost e Hellhammer, i quattro di Vancouver si impossessano del palco B e non mollano la presa finché una buona fetta del pubblico è stata soggiogata. Non c’è molto da decifrare in questa proposta musicale, ma il ‘bello’ sta proprio qui: come accaduto per i Gutless ieri sera, ogni tanto serve qualcosa che vada dritto e che ci aiuti a sfogare i nostri istinti primordiali.
Il debut album “Persecution of the Living” ha rappresentato una gradevole sorpresa all’epoca della sua uscita e quelle buone impressioni riemergono qui, davanti a un’esibizione squisitamente genuina.
Il picco di intensità viene invece raggiunto con gli OF FEATHER AND BONE, un vero e proprio tritacarne mascherato da gruppo death metal. Gli esordi hardcore-punk degli statunitensi sembrano sempre più lontani anni luce: con dischi come “Bestial Hymns of Perversion” e “Sulfuric Disintegration”, il trio di Denver si è trasformato in una realtà che, almeno a livello di attitudine, è sull’orlo del cosiddetto war metal, e naturalmente ce ne rendiamo conto anche e soprattutto dal vivo, situazione in cui la band concede ancora meno tregua del solito. L’acustica del Pumpehuset è ottima e questo comunque aiuta nel far filtrare e nel portare all’attenzione dell’ascoltatore i vari strati e gli elementi che compongono la proposta del terzetto. Se in un locale di caratura inferiore sarebbe facile ritrovarsi con un magma opprimente, in questo caso riusciamo a distinguere i riff e quelle poche ventate di melodia che adornano certe composizioni, oltre ovviamente a restare impressionati davanti all’ennesima allucinante performance del batterista Preston Weippert. Certo, ogni tanto non guasterebbe comunque qualche cambio di passo un po’ più deciso, ma a oggi gli Of Feather And Bone sono questo, prendere o lasciare.
Sfortunati, invece, i GOSUDAR. Di questi tempi è quasi superfluo sottolineare come invitare una band russa a un festival in Europa sia un’operazione quantomeno delicata. Dal canto nostro, quando era stata data notizia della conferma dei death metaller di Mosca, avevamo immaginato che i musicisti si trovassero già in un altro paese, magari sotto asilo politico.
Invece, a quanto pare, i Gosudar hanno cercato di arrivare in Danimarca direttamente dalla Russia solo per questo concerto, restando tuttavia ingarbugliati in prevedibili questioni burocratiche alla dogana. Alla fine, al cantante/chitarrista Vadim Ivanov è stato negato l’accesso nel paese, mentre per qualche ragione il batterista Renat Kurmakaev e il chitarrista Sergey Milenin hanno avuto il via libera. Privi del frontman, ciò che resta dei Gosudar si presenta quindi sul palco secondario e dà vita a un improvvisato set strumentale che strappa molti applausi di incoraggiamento, ma che alla lunga lascia l’amaro in bocca per tutta la situazione venutasi a creare. Avevamo curiosità di vedere i ragazzi all’opera, ma evidentemente dovremo attendere tempi migliori.
Si chiude come previsto con i CONVULSE, posti come headliner della giornata nonostante da queste parti l’interesse nei loro confronti sia notevolmente scemato una volta che la band ha iniziato a sperimentare di nuovo con sonorità non prettamente death metal.
Il debut “World Without God” resta tuttavia un caposaldo del panorama finnico dei primi anni Novanta, quindi ci sta concedere a Rami Jämsä e soci il ruolo, sulla carta, di band più importante del secondo giorno di festival. Da tempo diventati un trio, ai Convulse manca forse una seconda chitarra per interpretare al meglio certi pezzi del passato, soprattutto in un concerto in cui il debut verrà proposto per intero, tuttavia non si può dire che manchino loro passione e genuinità.
Jämsä è un bravo frontman e resta concentrato ed estroverso anche quando, nella seconda metà del set, la sala inizia leggermente a svuotarsi. Brani come “Putrid Intercourse” o “Powerstruggle of Belief” in ogni caso hanno sempre il loro perché e, dal canto nostro, apprezziamo anche “Cycle of Revenge”, title-track del penultimo album, sicuramente tra gli episodi più convincenti del repertorio recente. Fra il pubblico notiamo molti musicisti di altre band e le prime file si confermano zeppe di die-hard fan, quindi lungi da noi negare la riuscita dello show dei veterani finlandesi.
SABATO 2 SETTEMBRE
Sabato è la giornata più lunga del festival: serve partire bene, soprattutto per infondere entusiasmo extra a chi ha ormai un’età e inizia a faticare durante certe maratone.
Per fortuna la scelta di affidare l’avvio delle ostilità agli ABHORRATION si rivela azzeccata. Nel beer garden, il gruppo calza a pennello, come si suol dire, grazie al suo sound diretto e ‘caciarone’, che non teme la luce del sole e il viavai di gente davanti al palco. I norvegesi – di recente raggiunti dal secondo chitarrista Arild Torp (Obliteration, Nekromantheon) – sono alfieri di quel death metal fortemente ancorato a istanze thrash tipico di certa scuola dei tardi anni Ottanta (Possessed, Necrovore, ecc). Sono giovani, ma suonano alla vecchia maniera, e lo fanno con una dedizione e un coinvolgimento che presto risultano contagiosi. Date un ascolto al loro demo “After Winter Comes War”, se vi capita sotto mano.
Estremamente più densa e ricercata è invece la proposta degli APHOTIC, nuova realtà del panorama italiano che abbiamo già ampiamente trattato sul nostro portale nei mesi scorsi. Per la band guidata da N. Gazer (Fuoco Fatuo, Blasphemer) si tratta del primo concerto in assoluto, quindi si respira una certa trepidazione, sia sulle assi che in prossimità del palco. A dispetto di un contesto non esattamente ideale per la natura atmosferica della musica del quartetto – sarebbe certamente stato meglio esibirsi all’interno, anziché nel beer garden a metà pomeriggio – il gruppo riesce a farsi valere e ad esprimere già una certa coesione, fondendo le torbide trame del debut album “Abyssgazer” con quella carica tipica delle esibizioni dal vivo. I riff, già convincenti su disco, acquistano qui ulteriore spinta, ma su tutto si fa notare la prova del succitato frontman, che riesce a dividersi fra chitarra e diversi registri vocali con notevole destrezza, mostrando al meglio il carattere stratificato e la duttilità del death metal della formazione.
Le porte del locale sono ora ufficialmente aperte ed è tempo di recarsi all’interno per assistere alla prova degli STRYCHNOS, band guidata da Martin Leth Andersen, bassista degli Undergang. Attivi ufficialmente dai tardi anni Novanta, i tre sono riusciti a farsi notare solo negli ultimi tempi, grazie in primis al tanto atteso debut album “A Mother’s Curse”, uscito lo scorso anno per Dark Descent Records.
Il gruppo cattura subito l’attenzione per la sua sfornata presenza scenica, presentandosi coperto di sangue e percorrendo il palco con piglio molto aggressivo; su tutto resta tuttavia impressa la musica: come su disco, si apprezza la natura personale del sound dei ragazzi, un death metal spesso venato di black, ma non facilmente collocabile nel panorama odierno. Arie mefitiche si alternano a midtempo molto groovy e pesanti e, nonostante una indubbia coerenza di fondo, di rado si riesce a capire dove il pezzo andrà a parare, cosa che è senz’altro un plus. Tra le sorprese della giornata.
Al piano di sotto, sul palco B, tocca quindi agli EGREGORE, i quali sono sostanzialmente gli Auroch e i Mitochondrion sotto nuove spoglie. I canadesi hanno esordito lo scorso anno direttamente con un full-length per 20 Buck Spin, “The Word of His Law”, il quale ha mostrato un approccio molto istintivo alla materia death-black metal, fondendo riferimenti particolarmente classici, persino slayeriani a tratti, con un substrato occulto che talvolta sembra guardare a realtà di culto come i Negative Plane.
Conosciamo bene i ragazzi per via dei loro altri progetti, quindi non ci stupiamo nel vederli tenere il palco con energia e disinvoltura, instaurando subito un bel dialogo con il pubblico. In circa mezz’ora è tutto finito, ma, del resto, il repertorio a disposizione è ancora limitato; l’impressione resta tuttavia assai positiva.
Si affronta invece qualcosa di un filo più cerebrale con l’arrivo degli ALTARS sul palco principale. Gli australiani appartengono a quella schiera di formazioni che da qualche tempo a questa parte stanno cavalcando l’onda ‘dissonant’ death metal. Anzi, per certi aspetti, si può parlare del gruppo come uno dei primi alfieri di questo trend, dato che il debut “Paramnesia” risale già a un decennio fa. Dopo un temporaneo scioglimento, il trio è tornato lo scorso anno con il fortunato “Ascetic Reflection”, presentandosi con ulteriore ispirazione e vigore.
Elementi che ritroviamo anche oggi sul palco del Pumpehuset, nonostante una resa sonora un tantino confusa, almeno inizialmente. Serve qualche brano per avvicinarsi all’impatto degli album, ma nel frattempo riusciamo comunque a cogliere la coesione dei tre, che dal vivo sembrano acquistare un taglio più prettamente death metal – leggi Immolation – capace di appesantire e rendere più feroci anche quei passaggi più contorti sulla scia di Ulcerate, Portal e compagnia sghemba. Siamo abbastanza sicuri che l’imminente tour europeo li renderà ancora più compatti, anche in ottica studio.
Tra tutte le formazioni presenti oggi, i CYSTIC sono probabilmente una delle più ordinarie. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare in sede di recensione, per il loro recente debut album “Palace of Shadows”, la band ha certamente impatto, ma non grandissime idee, almeno per ora: il loro è un suono death metal old-school ascrivibile a varie scuole, nordeuropee e americane degli ultimi tempi, ma senza un carattere preciso e un songwriting ‘di livello’. Dal vivo, come tante altre realtà statunitensi, i ragazzi dimostrano di avere confidenza con il palco e una coesione che molti gruppi europei raramente sviluppano, però quest’oggi non si va oltre un moderato apprezzamento nei loro confronti.
Colpiscono in maniera decisamente più favorevole i SEDIMENTUM, appena arrivati in Europa per il primo tour da queste parti della loro storia. Se su disco i canadesi riescono ad esprimere anche una certa atmosfera, evocando qualche paragone con i sempre più lanciati Mortiferum, dal vivo la band fa il pieno di ignoranza e trova il modo di dare maggior risalto alle sue partiture più ‘dritte’, mettendo davanti a tutti un groove dirompente e tantissima prestanza.
Sorprende parecchio la massiccia presenza di pubblico davanti al palco principale: sapevamo che il debut album “Suppuration Morphogénésiaque” fosse andato bene, ma non ci aspettavamo una tale partecipazione. Forse tanti semplici curiosi finiscono per restare, coinvolti e sorpresi dal grande impatto del quartetto, che su questo palco ricorda colleghi come Undergang o Fetid.
Scendendo le scale verso la sala secondaria, il colpo d’occhio per gli AUTOPHAGY è simile: tantissima gente, un gruppo che sembra assolutamente a suo agio sul palco e un impatto complessivo che supera di molto quello saggiato su disco. Con il quartetto di Portland – in cui milita il batterista dei Bell Witch, Jesse Shreibman – siamo alle prese con una di quelle formazioni statunitensi che dal vivo riescono ad acquistare diverse marce in più, potendo contare su un affiatamento che non sempre è riscontrabile nei gruppi europei. Se sulla carta la proposta della band non è niente di sconvolgente, nonostante i pezzi abbiano indubbiamente un loro valore, in sede live il tutto acquista più spinta e voracità, come da queste parti abbiamo già avuto modo di vedere assistendo alle prime esibizioni di Torture Rack o Mortuous.
Saliamo al piano superiore, in tutti i sensi, con i VANHELGD, finalmente tornati al KTDF dopo molti anni di assenza. Gli svedesi avrebbero dovuto esibirsi lo scorso anno, ma furono costretti ad annullare il giorno stesso per malattia. Oggi però non vi è nulla ad ostacolare la calata danese del quartetto di Mjölby, fra le punte di diamante del circuito underground death metal contemporaneo. Li abbiamo visti all’opera un paio di mesi fa, al Graveland Festival in Olanda, e, pur suonando nelle ore diurne, riuscirono a farsi segnalare come uno degli highlight della giornata.
Oggi la storia si ripete e, anzi, il tutto prende una piega ancora più esaltante, visto che il palco principale del KTDF garantisce una resa strabiliante. I Vanhelgd probabilmente non saranno mai un nome acclamatissimo dalle masse – troppo ricercato e poco definibile il loro suono – ma chi li apprezza sa come dal vivo Mattias Frisk e compagni, sull’onda di quelle linee melodiche stra-evocative con cui sono ornati tutti i migliori episodi del loro repertorio, sappiano allestire prove davvero sentite e coinvolgenti. Pugni alzati e headbanging feroce fanno da contorno a un set che non esitiamo a definire passionale come pochi.
Torniamo sulla terra con i TRANSGRESSOR, operai del death metal giapponesi che abbiamo da poco ritrovato con il nuovo EP “Beyond Oblivion”. Purtroppo l’esibizione del quartetto, nel quale milita il batterista/cantante degli Anatomia Takashi Tanaka, è martoriata da problemi e disguidi tecnici di varia natura. Addirittura il gruppo parte a suonare dimenticandosi di collegare un amplificatore e, fra continui ritardi e momenti di impasse, il set finisce per non decollare mai, nonostante un deciso supporto da parte del pubblico (che a questo punto non sappiamo quanto sia ubriaco). Qualche anno fa, sul palco principale, la performance dei nipponici era stata un po’ più convincente, ma oggi resta da segnalare solo la loro buona volontà.
Al KTDF di solito non vengono invitati molti gruppi di chiara fama, nomi classici che possono essere visti in qualunque altro festival europeo. Fra le eccezioni alla regola, possiamo ora inserire gli headliner BENEDICTION, i quali per certi versi giocano in casa, visto che il frontman Dave Ingram vive da parecchi anni a Copenhagen.
Con il quintetto di origine britannica ci riavviciniamo a una forma molto classica di death metal, quella con cui molti degli astanti sono cresciuti negli anni Novanta: una sorta di momento amarcord che viene gradito da molti e che conclude la giornata di sabato nella spensieratezza, con la band che dà proprio l’idea di divertirsi sul palco e con un pubblico molto coinvolto sia all’altezza degli immancabili classici (“Vision in the Shroud”, “Unfound Mortality”, “The Dreams You Dread”…), sia durante gli estratti dall’ultimo “Scriptures”, opera che ha riportato il gruppo su livelli più che decorosi dopo qualche anno e alcune uscite un po’ incerti.
Bravo come sempre Ingram nel ruolo di frontman – preciso nel cantato, ma anche sornione a sufficienza per intrattenere la folla nelle pause – ma ci preme sottolineare anche l’ottima prova del batterista italiano Giovanni Durst, davvero una marcia in più per questi veterani. Si va a letto contenti.
DOMENICA 3 SETTEMBRE
La “Gloomy Sunday” di quest’anno (da sempre infatti la domenica del festival è dedicata alle sonorità più plumbee e oppressive) si apre con i GOD FORSAKEN, gruppo che ha le proprie radici nella primissima scena death metal finlandese, poi evolutosi verso sonorità stoner rock e infine scioltosi agli inizi degli anni Duemila. Il KTDF non è nuovo a questi recuperi – ricordiamo ad esempio l’apparizione degli svedesi Eternal Darkness lo scorso anno – ma a volte si ha l’impressione che l’entusiasmo per certe reunion coinvolga solo ed esclusivamente gli organizzatori.
Dal canto nostro – oltre a notare la presenza al basso di Mika Aalto, chitarrista dei più noti Rotten Sound – non veniamo particolarmente rapiti dalla prova del quartetto, il quale appare ancora discretamente arrugginito dopo tutti questi anni di pausa. Inoltre, ci aspettavamo una scaletta studiata ad hoc per l’occasione, magari incentrata soltanto sul death-doom del vecchio debut album “Dismal Gleams of Desolation”, invece il set finisce per esplorare anche il lato stoner rock del repertorio, lasciando buona parte degli astanti piuttosto freddi.
Le cose vanno meglio agli SLIMELORD, giovane realtà britannica in cui militano ben tre elementi dei techno-death metaller Cryptic Shift. Sotto questo nome i ragazzi inglesi abbandonano buona parte dei tecnicismi e della solerzia della loro band principale per dedicarsi a un death metal dai toni più gravi e melmosi, i cui principali riferimenti stilistici possono essere scovati nei ‘soliti’ Disembowelment o in formazioni più recenti come Spectral Voice e Worm. Il quintetto ha già firmato con la nota 20 Buck Spin per la pubblicazione del suo album di debutto ed evidentemente vuole sfruttare l’occasione per presentarsi al meglio davanti a un pubblico che rappresenta al 100% il target dell’etichetta statunitense.
Bisogna dire che i ragazzi ottengono il massimo senza inventarsi chissà cosa: il palco secondario è particolarmente adatto per l’atmosfera del loro repertorio e, come prevedibile, la platea si rivela molto ricettiva nei confronti di questo sound che spesso si concede derive fumose. Bravo anche il frontman Andy Ashworth, decisamente più sciolto e ciarliero rispetto a quello di tanti altri gruppi simili.
Saliamo nuovamente le scale per assistere allo show sul main stage dei DRUID LORD, band che è da qualche giorno in tour in Europa con gli Anatomia. Il quartetto statunitense è un’aggiunta particolarmente azzeccata per la giornata di oggi, dato che interpreta con notevole naturalezza un concetto molto tradizionale e al contempo efficace di death-doom. Anziché perdersi in soluzioni troppo sibilline, i floridiani investono la platea con riff belli corposi e ritmiche cadenzate che non lasciano grande campo a diverse interpretazioni. Siamo dalle parti di quel suono semplice ed evocativo che Hooded Menace e Runemagick prima di loro hanno interpretato e ravvivato con ottimi risultati. La band non può magari contare su un repertorio dello stesso calibro di queste realtà, ma dal vivo può certamente vantare una resa ragguardevole.
Rifacciamo quindi la scalinata nella direzione opposta per goderci la prova dei BURIAL: il gruppo death-doom italiano ha dato alle stampe un interessante debut album, “Inner Gateways to the Slumbering Equilibrium at the Center of Cosmos”, un paio di anni fa e quella di oggi è probabilmente una delle esibizioni più importanti della loro storia.
Come per gli Slimelord, il KTDF può rappresentare un notevole trampolino per gruppi di questo genere e non è quindi un caso vedere il quartetto affrontare l’impegno con indubbia determinazione. L’anima italiana emerge dai continui incitamenti al pubblico, ma è ovviamente la musica a lasciare il segno più di ogni altra cosa: dal vivo la proposta dei Burial pare guadagnare più impatto e urgenza, tuttavia, di conseguenza, anche le trame più lente e torbide finiscono per risaltare di più, in un gioco di contrasti molto marcato. Il pubblico viene quindi gettato da un estremo all’altro e la risposta della sala sembra aumentare pezzo dopo pezzo, lasciando la band visibilmente soddisfatta.
A seguire, gli ANATOMIA, ormai veterani di questo festival, si impongono (come sempre) con uno dei set più pesanti e opprimenti dell’intera manifestazione. Arrivato qui dopo un rodaggio di qualche giorno in giro per l’Europa, il terzetto nipponico si rivela ben presto di tutt’altra pasta rispetto a buona parte della cosiddetta concorrenza, compresi ovviamente i connazionali Transgressor.
Impatto e atmosfera qui sono di un altro pianeta e le parentesi più doom e abissali del repertorio finiscono quasi per togliere il fiato, tanto sono schiaccianti. Come al solito avvolti da luci esclusivamente rosse, i tre di Tokyo suonano senza proferire parola tra un episodio e l’altro, in modo da non rovinare il tenebroso mood che i loro strumenti stanno creando con tanta solerzia.
Incredibile in questo contesto la resa della lunghissima “Mortem”, ma ogni passaggio di questa estenuante marcia funebre si rivela centrato. Curioso come in scaletta entrino solo brani estratti dal recente “Corporeal Torment” e dal debut “Dissected Humanity”, ma gli Anatomia al KTDF possono fare ciò che vogliono: nessuno avrà mai nulla di negativo da dire sul loro conto.
Sul palco minore è quindi il turno dei FOSSILIZATION, i quali sono in procinto di partire per un lungo tour che li vedrà attraversare tutta Europa assieme agli Altars. Il loro nuovo album, “Leprous Daylight”, è anch’esso sulla rampa di lancio, quindi quale modo migliore per celebrarne l’imminente pubblicazione se non un concerto al KTDF? Purtroppo bisogna riconoscere come il gruppo debba fare i conti con i suoni peggiori della giornata su questo palco, ma per fortuna su tutto riesce a prevalere l’indubbia verve della formazione brasiliana, che sembra arrivata in Europa con il chiaro intento di imporsi una volta per tutte all’attenzione degli appassionati di queste sonorità.
Il materiale del nuovo album è più aggressivo rispetto a quello delle uscite precedenti, ma il carattere torbido e doomeggiante tipico del primo repertorio trova comunque spazio in vari frangenti, facendo segnalare il quartetto come una death metal band che ha a cuore sia l’arte del riff che quella dell’armonia e dell’equilibrio, nonostante in sede live emerga senza dubbio più la prima. La platea pare gradire questo cambio di passo rispetto agli abissi degli Anatomia e il frontman V. non riesce a nascondere la sua soddisfazione.
A Copenhagen si conclude il tour europeo dei BELL WITCH, dopo varie tappe che hanno portato il duo americano anche in Italia. Come per tutte le date di questa recente sortita, il concerto della funeral doom band di Seattle è interamente dedicato alla nuova suite “The Clandestine Gate”, la quale viene proposta quasi per intero, con solo qualche minimo taglio per avvicinarla all’ora di durata.
Abbiamo visto dal vivo il gruppo in numerose occasioni nel corso degli anni, e ovviamente il Pumpehuset non può che essere una location particolarmente adatta ad ospitare uno spettacolo come questo, a maggior ragione se si tiene conto del suo ampio palco e dell’alto soffitto, ideale per mostrare le proiezioni che in questo tour accompagnano la musica del duo.
Nel giro di pochi minuti si viene a creare un’atmosfera di raccoglimento attorno a Dylan Desmond e a Jesse Shreibman, con gli occhi puntati soprattutto su quest’ultimo, visto che dalla sua postazione è responsabile simultaneamente di batteria, organo e voce. Davvero affascinante vedere all’opera questo musicista, entrato nella band in punta di piedi dopo la scomparsa del precedente batterista/cantante Adrian Guerra e poi diventato nel giro di pochi anni un elemento importante tanto quanto il leader Desmond.
A livello di esecuzione, non si può proprio dire nulla sullo show dei Bell Witch: maestosa la performance e toccanti anche i video a contorno. Rimaniamo però anche piacevolmente sorpresi dall’educazione della platea, che riesce a mantenere il silenzio per tutto il concerto, evitando di rovinare con urla e chiacchiere i momenti più delicati della suite.
Siamo quindi ai titoli di coda e la mazzata finale ci viene data dai FUOCO FATUO, alla terza esibizione al Kill-Town Death Fest della loro storia.
Abbiamo ormai grande familiarità con il repertorio della band lombarda, avendoli seguiti sin dagli esordi; ciò che oggigiorno riesce a colpirci puntualmente è la sempre più netta cura per i dettagli, sia a livello visivo che sonoro. Le ossa animali e il trucco dei musicisti conquistano l’occhio, mentre la musica, spesso proposta a volumi notevoli, riesce sempre di più a coniugare impatto e definizione, facendo emergere con più decisione le varie sfumature e le influenze che ormai da qualche anno – diciamo da “Backwater” – ornano il funeral doom di base.
Siamo abituati a vedere il pubblico dare il massimo nel corso dell’esibizione conclusiva di ogni KTDF e questa sera non rappresenta un’eccezione alla regola: dal lato del palco, vediamo gli astanti scaldarsi sempre di più e trasmettere una notevole energia al quartetto (da questo tour raggiunto dal nuovo batterista P.), il quale non perde di intensità nemmeno quando la chitarra di Milo Angeloni sembra avere qualche problema. Una bella prova, insomma, baciata da suoni fra i migliori della giornata e interpretata da una realtà che sembra appunto sempre più a suo agio sul palco. Una conclusione ad effetto, come ci si aspettava.