Report di Luca Pessina
Foto di Emily Power – https://emilypower.photography/
Il 2024 ha registrato un’aggiunta particolarmente interessante al circuito concertistico del panorama death metal europeo: la prima edizione del Kill-Town Death Fest London, un esperimento nato dalla collaborazione tra gli storici organizzatori danesi e un gruppo di promoter con base nella capitale britannica. In un anno sabbatico per l’edizione tradizionale di Copenhagen, Londra ha dunque avuto l’onore di ospitare questa nuova incarnazione del festival, cercando di riprodurre il successo e la formula che hanno reso il Kill-Town Death Fest un appuntamento imprescindibile per gli appassionati del death metal underground.
La scelta della sede londinese è ricaduta sul Dome, un locale ormai ben noto agli amanti del metal nella capitale: situate nel quartiere di Tufnell Park, le due sale del locale sono diventate negli ultimi anni un punto di riferimento per i concerti heavy, prendendo in parte il ruolo che un tempo spettava ai leggendari locali di Camden Town. Quest’ultima, ormai trasformata in un’area costosa e turistica, sta vedendo la migrazione di molti eventi verso altre zone della città, e il Dome si è ormai distinto per la sua capacità di ospitare concerti di alto profilo in un ambiente sì raccolto, ma vibrante e funzionale.
Nonostante la novità e il cambio di location, il Kill-Town Death Fest London è riuscito, come l’evento-padre danese, a richiamare un pubblico internazionale, con appassionati arrivati da tutta Europa per vivere l’esperienza di questo festival. Detto ciò, l’affluenza non ha comunque raggiunto i numeri della tradizionale edizione scandinava. Copenhagen, con il suo richiamo storico e il suo ormai profondo legame con la vera scena death metal, continua a essere un’attrazione di maggiore portata, ma questo non ha in ogni caso impedito alla versione londinese di distinguersi in termini di qualità artistica e atmosfera.
La line-up del festival è stata come sempre uno dei punti di forza dell’evento: come da tradizione per il Kill-Town Death Fest, il programma ha offerto un mix ben calibrato tra leggende consolidate e nuove avanguardie della scena underground, confermando anche in questa diversa sede la reputazione del festival come uno degli eventi di punta per il death metal europeo e non.
L’atmosfera generale al Dome si è poi confermata calda e rilassata come al solito: l’ambiente tutto sommato intimo del locale ha contribuito a creare un senso di comunità tra i fan, rendendo il festival un’esperienza collettiva che ha permesso di accorciare le distanze tra il pubblico e gli artisti. Questo clima di familiarità, un punto fermo del festival danese, ha soddisfatto sia i musicisti che gli spettatori, facendo sì che il Kill-Town Death Fest London si affermasse anche in questo senso come un riuscito spin-off dell’evento originale.
Guardando al futuro, resta da vedere se questo tipo di proposta tornerà a Londra anche nel 2025. Quel che è certo è che la pausa del 2024 ha permesso al festival di mantenere alta l’attenzione attorno al suo nome, e l’edizione di Copenhagen è pronta a tornare l’anno prossimo, per continuare a consolidare la sua posizione come pilastro del death metal underground.
Questa prima incursione londinese, comunque, ha dimostrato che il nome Kill-Town Death Fest può risuonare con efficacia anche al di fuori dei confini danesi, aggiungendo un nuovo capitolo alla storia del festival.
GIOVEDÌ 17 OTTOBRE
La prima giornata del Kill-Town Death Fest London prende il via con una line-up solida, offrendo subito una panoramica delle diverse sfumature del death metal, tra nomi emergenti e band ormai piuttosto consolidate.
A rompere il ghiaccio ci pensano i FESSUS, band relativamente giovane, ma già capace di suscitare un certo interesse tra gli appassionati accorsi quest’oggi.
Va detto che per un ascoltatore italiano il nome del gruppo inevitabilmente strappa un sorriso, tuttavia, al di là della coincidenza linguistica, la musica non ha certo nulla di ridicolo: un sound grezzo e ma piuttosto curato nelle dinamiche, costruito su riff massicci che sembrano riprendere ora i primi Grave, ora la più strisciante scuola Cianide/Autopsy, creando un muro sonoro che avvia il festival nel migliore dei modi. Sebbene ancora poco conosciuti al di fuori della loro scena locale, gli austriaci, soprattutto nella persona del frontman Brenton, dimostrano una presenza scenica solida e una coesione tecnica che li rende un’apertura ideale per la serata.
Subito dopo tocca ai VATICINAL RITES prendere il palco: La band, con un sound più strutturato e vagamente tecnico rispetto ai suoi predecessori, porta il pubblico in una dimensione maggiormente moderna, caratterizzata da riff più arzigogolati e da un tipo diverso di groove, con brani che alternano momenti di relativa orecchiabilità a esplosioni di violenza sonora, per un mix che può ricordare, a fasi alterne, Suffocation, certi Sinister e Decapitated. L’uso sapiente dei contrasti dinamici pare catturare l’attenzione dei presenti, permettendo ai Vaticinal Rites di emergere con una proposta piuttosto diversa dal resto del cartellone dell’evento.
Il momento per molti più atteso della serata, tuttavia, è l’arrivo degli ABYSSAL, formazione britannica che negli ultimi anni ha parecchio consolidato la propria reputazione a livello internazionale.
Il loro sound oscuro, complesso e claustrofobico, sta venendo portato sui palchi di mezza Europa, e anche questa sera riesce ad avvolgere la platea in un abisso di suoni dissonanti e atmosfere oppressive.
L’esibizione è come di consueto caratterizzata da una precisione chirurgica e da un’impostazione quasi ritualistica, con i pezzi che vengono interpretati da musicisti nascosti dietro tuniche nere, per mantenere quell’aura di mistero che li contraddistingue fin dagli esordi. Sebbene l’effetto sorpresa del look scenografico si sia ormai affievolito nel tempo, l’impatto musicale rimane immutato, per un’esperienza che richiede un ascolto impegnativo e immersivo, ma che non lascia indifferenti.
Tra il pubblico, si nota chiaramente più di un grande fan, pronto ad assaporare ogni sfumatura delle intricate composizioni della band.
A chiudere la serata ci pensano i CONCRETE WINDS, che con il loro approccio brutale e diretto impiegano ben poco a travolgere la platea.
Il loro death-black metal estremamente violento, dai toni quasi grindcore per la velocità e l’essenzialità delle trame, denota un vero e proprio cambio di registro rispetto all’ascolto più impegnativo degli Abyssal. Mentre questi ultimi hanno costruito un’atmosfera di tensione e inquietudine, i Concrete Winds, qui per promuovere il loro omonimo terzo album, optano per un’aggressione sonora pura, dove un’energia primordiale pare l’unico obiettivo.
La loro proposta è essenzialmente monotematica, basata su un’unica formula di violenza sonora senza compromessi; tuttavia, in un set di mezz’ora, i tre finlandesi riescono a dare il meglio: la monotonia del loro approccio non diventa un difetto, ma piuttosto una caratteristica distintiva che, su una durata breve, mantiene un impatto coinvolgente. Un concerto quindi essenziale come la loro musica, che chiude la serata in un’esplosione di caos e adrenalina.
VENERDÌ 18 OTTOBRE
Per chi scrive, la seconda giornata del festival parte un po’ in ritardo a causa di impegni lavorativi, i quali ci impediscono di assistere al concerto degli SLIMELORD. Quando riusciamo ad arrivare al locale, troviamo i KILLING ADDICTION pronti ad attaccare, accolti da una sala già piuttosto gremita. Gli statunitensi – che condividono il chitarrista Chris Wicklein con i Druid Lord – aprono la seconda serata con un’energia e una precisione che sorprendono molti, vista la loro rara presenza sui palchi.
Essendo una band che si esibisce di rado, ogni loro performance è a suo modo una chicca per gli appassionati e i maggiori cultori dell’underground death metal dei primi anni Novanta. Del resto, parliamo di un nome a dir poco di nicchia della vecchia scena floridiana, con all’attivo solo un album piuttosto significativo, il debut “Omega Factor” del 1993.
Il loro death metal, con un piede nella scuola Obituary e l’altro in quella dei primi Bolt Thrower, è tutto sommato semplice nelle strutture, il che lo rende ideale per essere riproposto dal vivo con un certo impatto. La potenza della musica trova terreno fertile nel pubblico, che risponde con entusiasmo e partecipazione.
Dopo l’assalto dei Killing Addiction, i DRUID LORD, guidati dal sempre arcigno cantante/bassista Tony Black, portano il pubblico in una dimensione musicale leggermente diversa, con il loro doom-death dalle arie ombrose. Il loro sound, certo altrettanto pesante, ma più cadenzato e talvolta venato di melodia, riesce a catturare l’attenzione della platea in modo diverso, intrattenendo soprattutto con la sua alternanza di riff massicci e derive più cupe, vagamente alla ricerca di quella stessa atmosfera di orrore e mistero che ha fatto la fortuna dei finlandesi Hooded Menace.
Lunghi e possenti passaggi strumentali, guidati da riff ossessivi e da ritmi funerei, avvolgono la folla, spingendola in uno stato di immersione completa. Groovy e potenti, gli statunitensi riescono spesso a mettere in mostra anche un’abilità narrativa interessante, la quale rende i loro concerti un’esperienza completa.
A seguire, tocca ai RIPPIKOULU, tra i nomi più attesi del festival e una delle poche realtà finlandesi a essere davvero diventate leggendarie nel circuito death-doom pur con un repertorio striminzito.
La loro esibizione, che risulta molto attesa in sala, per fortuna parte subito con il piede giusto: il cantante Anssi Kartela, notoriamente incline a qualche eccesso prima e durante le performance, appare tutto sommato sobrio, mantenendo un controllo vocale e una concentrazione che chiaramente conferiscono maggior precisione all’esecuzione.
Il resto del gruppo, dal canto suo, inizia a macinare riff, inducendo all’headbanging con i riff profondi e i ritmi ossessivi dei vari classici di “Musta Sermonia”. Partendo da una discografia tanto limitata, i finlandesi non possono offrire chissà che sorprese a livello di scaletta, ma è altrettanto vero che i presenti in sala non vogliono sentire altro che i brani del suddetto EP, rispondendo con una partecipazione silenziosa e coinvolta, attenta a ogni passaggio dei brani.
Rispetto alle esibizioni delle band precedenti, la resa acustica per i Rippikoulu risulta leggermente compromessa, con un mix che attenua la definizione delle chitarre. Nonostante ciò, l’intensità dell’esecuzione non viene rovinata, e l’atmosfera cupa e malevola riesce comunque a emergere con forza.
Gli headliner della seconda serata, i leggendari MORTEM dal Perù, sono attesi con impazienza al Kill-Town Death Fest da anni, dopo una dolorosa (e mai del tutto spiegata) cancellazione all’ultimo minuto durante un’edizione passata a Copenhagen.
Questa volta, finalmente, la band è riuscita a raggiungere Londra, suscitando grande entusiasmo tra i presenti. Tuttavia, sin dall’inizio della loro esibizione appare chiaro che i Mortem, pionieri del death metal sudamericano, si trovino un bel po’ fuori forma: il frontman e chitarrista Fernan Nebiros mette sicuramente in campo tutta la sua consueta foga e passione, ma il resto della band appare meno sicuro, dando l’impressione di trovarsi un po’ spaesato e di avere difficoltà a seguire il ritmo del concerto.
Le prime canzoni vengono penalizzate da un suono confuso e impastato che copre i dettagli dei riff e rende la batteria poco incisiva, aggiungendo ulteriore difficoltà a un’esecuzione già precaria. È vero che i Mortem sono una band che ha sulle spalle moltissimi anni di carriera e, comprensibilmente, non si possono più aspettare da loro le energie di un tempo, tuttavia, oltre ai limiti imposti dall’età, si percepisce una certa impreparazione, come se la band non avesse avuto modo di provare abbastanza prima dell’evento, arrivando sul palco con una coesione ben lontana dalle formazioni che li hanno preceduti.
Il pubblico, nonostante le imprecisioni e il suono caotico, sostiene comunque il quartetto con partecipazione e entusiasmo, dimostrando un sincero affetto per questi veterani, ma il confronto con altri connazionali, come i Masacre, che recentemente hanno infiammato questo stesso palco con una prestazione solida e travolgente, risulta inevitabile e impietoso: i Mortem appaiono sbiaditi, ben lontani dalla furia che li caratterizzava negli anni migliori, su dischi come “The Devil Speaks in Tongues”.
Pur senza aspettative altissime, ci si aspettava almeno una prova dignitosa, un tributo alla loro storia; ma il risultato questa sera è una performance confusa e, nel complesso, piuttosto deludente.
SABATO 19 OTTOBRE
La giornata di sabato al Kill-Town Death Fest London ha visto una line-up ricca di talenti, spaziando tra diverse sfumature del death metal e offrendo un crescendo di intensità e varietà sonora.
Sono i CRYPTWORM ad inaugurare la giornata con il loro death metal groovy e ignorante – anche se non esente da improvvisi cambi di marcia – facendo immergere subito il pubblico in un’atmosfera di brutalità assoluta.
La band di Bristol negli anni ha perfezionato il proprio sound, sviluppando uno stile a cavallo tra la schiettezza di Rottrevore e Undergang e gli avvitamenti stralunati dei Demilich: chiaramente, dal vivo la componente che emerge con maggiore forza è il groove dei passaggi più cadenzati e lineari, la cui energia attira immediatamente una buona quantità di spettatori sotto il palco, coinvolgendoli con una performance breve, ma assai intensa.
Dopo una pausa per il pranzo, siamo quindi pronti a gustarci la prova degli ADVERSARIAL: i canadesi introducono un cambio di tono significativo nella giornata, con il loro death metal complesso e spesso dissonante, le cui frequenze aggiungono una sfumatura inquietante alla performance.
Anche dal vivo, la band si distingue per la sua capacità di mescolare tecnica e atmosfera, facendo piombare il pubblico in un mondo sonoro claustrofobico e sinistro, dalle venature black metal, ma sempre ancorato a una fisicità che richiama i migliori Angelcorpse e realtà di quel taglio.
Buona parte dello show è retto dal famelico chitarrista/cantante C.S., la cui spiritata performance conferisce ai pezzi un senso di costante tensione. Non siamo al cospetto di un gruppo che tiene moltissimi concerti, quindi sorprende ancora di più la notevole tenuta degli Adversarial, che si lanciano in una prova estremamente serrata e coesa, con un solo momento di stallo quando il batterista sbaglia ad attaccare un brano. La reazione del pubblico è un misto di ammirazione e rispetto per la complessità della proposta del trio, il quale quest’anno ci ha inoltre regalato un ottimo ritorno discografico con “Solitude with the Eternal”.
Con i COFFIN MULCH, il festival vira quindi verso sonorità più tradizionali, aprendosi a un death metal crudo e d’impatto, fortemente ispirato alle sonorità svedesi degli anni ‘90, così come ai ‘soliti’ Autopsy.
La band scozzese fa un chiaro riferimento alla scena classica, utilizzando riff slabbrati e ritmiche chiare e potenti, aggiungendo al tutto una spiccata indole punk, soprattutto nell’attitudine del frontman Alastair Mabon.
Se da un lato non vi è niente di particolarmente sorprendente nella proposta del quartetto, dall’altro si nota – come su disco – una notevole cura per il songwriting e una genuinità contagiosa, la quale si adatta perfettamente all’atmosfera underground del secondo palco del Dome. L’entusiasmo del pubblico è immediato, tanto che si vede il primo pogo della giornata, e la band alimenta la risposta dei fan con un set sempre più energico e senza fronzoli, in cui ogni pezzo rappresenta un’esplosione di puro retro-death metal.
Con i PHOBOCOSM sul palco principale, l’atmosfera torna a raggiungere livelli di intensità abissali: la band canadese porta al festival il suo death metal oscuro, quasi ipnotico, con l’intento di avvolgere il pubblico in un’atmosfera ricca di tensione e mistero.
I brani del quartetto – autore lo scorso anno dell’ottimo “Foreordained” – si caratterizzano per strutture lunghe e dilatate, che permettono ai suoni di evolversi lentamente, costruendo una sensazione di suspense e aspettativa che ovviamente non può fare a meno di richiamare certa scuola Gorguts/Ulcerate.
Gli arrangiamenti dei Phobocosm sono meticolosi e complessi, con passaggi che spaziano da momenti di furia più massiccia, vagamente in chiave Immolation, a intermezzi atmosferici che sembrano sospesi nel tempo. Su tutto colpiscono soprattutto questi ultimi, nei quali ogni nota – anche grazie a un’esecuzione impeccabile da parte del gruppo – sembra studiata per trascinare il pubblico in un’esperienza quasi meditativa.
Al loro primo show europeo, gli ABERRATION portano sul palco un sound oscuro e alienante, caratterizzato da un death metal dissonante e carico di tensione, perfettamente in linea con l’atmosfera creata dai Phobocosm pochi minuti prima.
Il gruppo americano non è in attività da molto, ma tra le sue fila militano membri di Suffering Hour e Void Rot, per un pedigree di tutto rispetto che in effetti si traduce in una performance molto sicura e professionale. La band colpisce subito per la capacità di costruire un senso di claustrofobia attraverso l’uso di chitarre dissonanti e riff che si avvitano in spirali quasi ipnotiche, creando una trama sonora disturbante.
Molti episodi tendono a svilupparsi in crescendo, con una progressione di ritmi e sonorità che coinvolge il pubblico in un’esperienza di ascolto totalizzante, soprattutto quando intervengono quelle trame più compresse che talvolta rimandano agli Altarage. La sala ‘minore’ del Dome si riempie sempre di più durante la prova del trio, tanto che alla fine si può dire che quella degli Aberration sia una delle esibizioni più seguite della giornata.
Tornati al pino superiore, ci imbattiamo quindi negli OSSUARY, i quali ci servono una dose di crudo death-doom in puro stile Cianide, caratterizzato da riff e ritmiche semplici e d’impatto, ideale per attrarre un vasto pubblico nella sala principale.
Nonostante l’oggettiva semplicità del sound, la band riesce a far breccia grazie a un’attitudine senza compromessi e una presenza scenica particolarmente incisiva. Il gruppo statunitense è una delle realtà più grezze del programma di questa edizione del festival, e questo aspetto forse contribuisce a creare un certo hype intorno alla loro esibizione, visto che a quest’ora il tasso alcolico inizia a salire e molti tra gli astanti sono in cerca di suoni ignoranti su cui sfogarsi senza troppi pensieri.
A dominare il palco è la cantante e chitarrista Isabell Plunkett, che con la sua sfrontatezza si afferma come il vero motore della band: la sua energia catalizza l’attenzione del pubblico, trasformando la schietta performance in una sorta di rituale collettivo all’insegna di un death metal primitivo e diretto.
Con i CRYPTIC SHIFT si cambia completamente registro, per uno show all’insegna della sperimentazione e della complessità tecnica. La band inglese dimostra da sempre una certa abilità nel mescolare ritmi serrati e passaggi atmosferici, creando brani che spaziano tra molteplici influenze, partendo da una base techno-thrash/death che guarda tanto a vecchie glorie come Nocturnus e Atheist quanto a realtà più recenti come Vektor e primi Blood Incantation. Se su disco il giovane quartetto di Leeds appare a volte un filo troppo eccentrico e velleitario, dal vivo emerge invece una più spiccata vena thrash a rendere il tutto più pimpante.
Il pubblico, dal canto suo, risponde con curiosità ed entusiasmo, accogliendo con favore questa ventata di tecnica e tendenze progressive, dimostrando di apprezzare la relativa freschezza della loro proposta all’interno di un cartellone che predilige altri stili.
Sul palco principale, tocca ora ai maestri ANATOMIA: ormai la band non è nuova ai plachi europei, visto che quasi ogni anno riesce a organizzare una calata nel Vecchio Continente, ma dal canto nostro è sempre un piacere farsi annichilire dalla sua ossessiva proposta.
Anche questa sera l’esibizione del trio nipponico è un’immersione in un’atmosfera densa e decadente, dove ogni nota sembra trasudare un senso di desolazione, soprattutto quando ci si addentra nel repertorio ‘recente’ con episodi monolitici come “Dismemberment” o “Uncanny Descension”. Le luci rigorosamente rosse e i tempi dilatati richiamano toni quasi ritualistici, rafforzando la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa di antico e inesorabile, che il terzetto interpreta con innata naturalezza, a dispetto delle cadenze che possono indurre a una sorta di trance.
Gli Anatomia, insomma, dimostrano ancora una volta il valore della loro proposta, riscuotendo applausi sinceri e rafforzando la loro posizione come una delle band più distintive e apprezzate della scena death-doom internazionale.
Si avvicina la fine del festival ed è ora il turno dei ‘nostri’ FUOCO FATUO: i ragazzi italiani, ormai una presenza ben consolidata nel circuito europeo grazie alla loro attività live regolare, si rendono protagonisti di una delle esibizioni più opprimenti della giornata, degna compagna di quella degli Anatomia.
La loro particolare proposta di funeral doom, arricchita da sfumature post-metal, introduce la consueta atmosfera densa e carica di tensione, con i brani che dal vivo assumono un’ulteriore carica viscerale.
C’è anche qualcosa di tribale nel modo in cui le ritmiche dei Fuoco Fatuo si snodano, quasi come un battito primordiale che risuona attraverso le lente progressioni dei brani, alla maniera dei vecchi Neurosis: questo elemento ritmico conferisce alla loro musica un senso di connessione arcaica, che si manifesta puntualmente in un crescendo di intensità.
La risposta del pubblico ne è una chiara conferma: nonostante il carattere estremamente fumoso della musica, l’attenzione e l’entusiasmo restano altissimi per tutta la durata del set, soprattutto nelle prime file.
Spetta infine ai CANCER chiudere definitivamente il sipario. Della line-up originale dei pionieri del death metal britannico è rimasto solo il cantante/chitarrista John Walker, da tempo trasferitosi a Madrid: il resto della formazione è infatti spagnolo, con il batterista Gabriel Valcázar a risultare l’elemento di maggiore spicco, essendo anche il motore ritmico dei famigerati Wormed.
Il quartetto chiude la serata con una performance energica e potente, una sorta di celebrazione di un sound storico e ancora amatissimo. I cosiddetti anni d’oro della band sono passati da un pezzo, ma i nuovi membri hanno precisione e grinta, tanto che la performance denota presto una verve che non sempre si riscontra negli show di questo tipo di veterani.
Alternando brani dai loro album più iconici – “To the Gory End” e “Death Shall Rise” – i Cancer riescono a evocare un’ondata di nostalgia tra i presenti, appassionando al contempo anche quei pochi avventori più giovani che probabilmente non hanno avuto modo di vedere dal vivo il gruppo in troppe occasioni. Un’esibizione che dunque unisce passato e presente e che finisce per configurarsi come un convincente omaggio al percorso di questo genere musicale.