Introduzione di Luca Pessina
Report a cura di Giovanni Mascherpa e Luca Pessina
Foto di Åsa Hagström – Septikphoto – Facebook / Flickr
Kill-Town Death Fest, ultima edizione. Quello che negli ultimi tempi era diventato il festival numero uno al mondo per tutti gli appassionati di death metal vecchia scuola e underground chiude i battenti. Purtroppo altri impegni e il desiderio di dedicarsi a progetti diversi hanno fatto prendere agli organizzatori la decisione di terminare l’avventura KTDF dopo “solo” cinque anni. Cinque anni in cui l’evento di Copenhagen è appunto cresciuto a tal punto da diventare un happening assolutamente irrinunciabile per fan, addetti ai lavori e stessi membri delle band del filone, che spesse volte sono stati visti ritornare sul posto anche in qualità di semplici ascoltatori. Organizzato da sempre per passione e senza fini di lucro (di nuovo invitiamo a leggere la nostra vecchia intervista con lo staff), il Kill-Town ha sempre dimostrato che è ancora possibile creare un festival dove la musica – l’arte – è al centro di tutto; un posto dove l’audience puó – anzi, è invitata – a interagire con l’organizzazione e a fornire il suo contributo e i suoi suggerimenti. Un festival dove artisti e pubblico si mescolano come una grande famiglia, un festival dove i prezzi sono sempre a dir poco contenuti, un festival dove non vi è alcun bisogno di security, regole e orari ferrei, perchè tutti sono appunto chiamati a “creare” l’evento, a godersi la musica e a far sí che il tutto vada secondo i piani. In cinque anni il KTDF ha lanciato un messaggio importante e lo ha fatto entrando nei cuori di centinaia di appassionati provenienti da tutta Europa e oltre. Non vi era mai stato un happening di questo calibro in grado sia di proporre un cartellone di primo livello, sia di instaurare un’atmosfera altamente rilassata e familiare. Gli avventori del KTDF si sono sempre sentiti a casa tra le mura del centro sociale Ungdomshuset e ora che la cosiddetta funeral edition è giunta al termine la nostalgia è grande. Ancora una volta Metalitalia.com non puó fare a meno di elogiare il lavoro svolto dal collettivo: è anche grazie a persone come queste, alla consapevolezza che qualcuno simile a te stesse organizzando un evento pensando quasi esclusivamente ai tuoi gusti e alle tue esigenze, che in questi ultimi anni, una volta usciti dalla routine dei nostri posti di lavoro e dallo stress quotidiano, ci si è sempre sentiti un po’ più rincuorati. Purtroppo coloro che non hanno mai preso parte ad una edizione non potranno capire del tutto, ma, dal canto nostro, a suo tempo abbiamo fatto il possibile per avvisarvi e invitarvi a partecipare! Ora vi è solo da augurarsi che un evento simile nello spirito e nelle intenzioni prenda presto il posto del festival di Copenhagen; non sarà semplice, ma la speranza, anche nei nostri marci cuori death metal, è l’ultima a morire.
ENSNARED
Il ruolo di opener del cosiddetto warm up show del Kill-Town Death Fest 2014 spetta ufficialmente ai giovani norvegesi Gouge, ma il primo set che riusciamo a gustarci pienamente è quello degli Ensnared, infernale realtà svedese che di recente si è fatta segnalare alla grande con l’EP “Ravenous Damnation’s Dawn”. In studio il quartetto di Gothenburg rilegge il gelido death-black metal dei Dissection con piglio autoritario e ispirazione su livelli decisamente notevoli ed è un piacere constatare che la suddetta aura di malvagità non vada persa anche in sede live, nonostante dei suoni solo accettabili. Il Loppen, d’altra parte, non è noto per la sua resa sonora, tuttavia il pubblico, sulle ali dell’entusiasmo da festival appena iniziato, partecipa alla grande, tributando ai ragazzi continue ovazioni. Bisogna dire che i Nostri potrebbero migliorare sotto il profilo della presenza scenica, ma aspettiamo di vederli all’opera su un palco di maggior dimensioni per esprimerci del tutto su questo aspetto. In ogni caso, resta l’impressione di trovarsi davanti ad un gruppo che può fare strada, soprattutto quando ci si lascia investire dalle note di pezzi magistrali come “With Roots Below”.
(Luca Pessina)
LVCIFYRE
Il warm-up show si chiude con un immane punto esclamativo, grazie alla spropositata prova di forza dei Lvcifyre. I quattro londinesi hanno gettato una spessa coltre di zolfo e sangue sul 2014, con un disco ferocissimo come “Svn Eater”, e la dimensione live restituisce la stessa impressione di crudeltà ed eccesso di violenza manifestata dall’ultima prova in studio. I Nostri si presentano borchiati alla maniera dei Venom e viene da distogliere lo sguardo davanti ai musicisti, tanta è la minaccia e la promessa di danni irreparabili che le loro persone emanano. L’idea che ce ne facciamo visivamente trova pronto riscontro nella musica, un’abnormità al confronto delle pur ottime band precedenti. Per certi versi l’impatto generato è quello dei migliori Marduk, l’Apocalisse diventa qualcosa di terreno e tangibile, l’urgenza di distruzione e sterminio diventa il punto centrale di una performance brutale oltre ogni dire. Suoni non nitidissimi offuscano leggermente i passaggi più complessi, non intaccando però i grumi d’odio che si abbattono incessantemente sull’audience, massacrata fino a essere ridotta in poltiglia. Nubi di pioggia acida si sfogano a più riprese sui presenti, sfigurando senza ritegno soprattutto chi abbia l’ardire di soggiornare a ridosso dei musicisti, dove il diluvio auricolare è davvero insostenibile. Probabilmente c’è qualche guinzaglio invisibile a frenare l’impeto dei londinesi, altrimenti non si spiegherebbe la mancanza di un’aggressione fisica vera e propria. I cani idrofobi sembrano più tranquilli al confronto, e per musicisti di metal estremo crediamo sia un bell’apprezzamento: la genuina cattiveria ci aggrada sempre. Se non l’aveste ancora capito, si è respirato napalm al Loppen e una lercia pestilenza acuminata ha trapassato orecchie e cuore, consegnandoci una delle esperienze uditive più terrificanti del 2014. Sul reame dei Lvcifyre non sorge mai il sole.
(Giovanni Mascherpa)
RITUAL NECROMANCY
La prima giornata all’Ungdomshuset viene aperta da un quartetto che rappresenta il prototipo del death metal underground. I Ritual Necromancy non hanno talenti da capogiro da dispensare al mondo, ma sanno stare sul campo di battaglia con serietà e dignità, grazie a un’interpretazione dogmatica e viscerale di tutto ciò che è sporcizia, cupezza, deformità. I quattro di Portland professano insana devozione per i frutti più neri e infetti partoriti nelle lande del death metal, costituendo una versione poco ramificata e molto sussiegosa dell’Incantation sound. Ai limiti di inventiva si compensa con una ferocia smodata, l’ideale per dare una prima scossa a un pubblico già piuttosto nutrito all’apertura delle ostilità, segnale inequivocabile che per l’ultima edizione del festival nessuno, tra coloro che aderiscono a un certo modo di intendere il death metal, è voluto mancare. Abbiamo dei suoni fin quasi oltraggiosi per l’udito, tanto sono forzati su volumi e densità collassanti, ma essendoci un minimo di controllo sui livelli ciò va a vantaggio dei Ritual Necromancy, di cui apprezziamo giri di basso da ribollimento immediato delle interiora e una vena criptica, maledetta, intrigante nonostante non ci siano gli sviluppi contorti e incomprensibili dei leader del settore, alcuni all’opera proprio al Kill-Town Death Fest. Le prestazioni da boia medievale dei singoli si saldano in un’unica e gigantesca scure forgiata a scopi di decapitazione, l’unità di intenti e l’abominevole sequela di cannoneggiamenti garantite da un drumming instancabile trovano perfetta risposta in riff di consistenza molto spessa e deliziosi come una pioggia di pece, su cui troneggia il growl mastica carcasse di JF. Nella spinta indefessa verso cripte di impurità e disfacimento notiamo il sadismo del giudice che mai concederà una grazia all’anima invocante perdono: quell’anima è l’audience tutta, e il termine del concerto non è sinonimo di liberazione, ma di eliminazione di quel poco di resistenza fisica rimasta. Quanta cattiveria…
(Giovanni Mascherpa)
KRYPTS
Si sale prepotentemente sugli altari sacrificali più pregiati con i finlandesi Krypts, autori nel 2013 del pregevole esordio “Unending Degradation”. I faccini puliti non devono ingannare, l’abominevole si annida ovunque e l’apparenza dimessa dei quattro, che se non fossero in questo contesto li crederemmo degli studentelli timidi e impacciati, cozza fragorosamente alle dosi elefantiache di putridume in arrivo dal palco. Sembra ci arrivino addosso masnade di creature deformi e vocianti in un idioma impastato e incomprensibile, un effetto evocato principalmente dal growl a dir poco immondo, sozzo, vomitevolmente depravato di Antti Kotiranta. Di ottimi singer death metal, in questo particolare periodo storico, ve ne sono a bizzeffe, ma il musicista finlandese, forse anche per il contrasto con le fattezze da chierichetto, ha tanto di quel marciume in gola che non basterebbe una discarica metropolitana a contenerla. I suoi compari non sono tanto da meno e disegnano un quadro empio e livido, soffocante, attraverso un death metal chiuso nella propria negatività, fangoso e strisciante. I Krypts apparentemente giocano sul sicuro, rifacendosi alle correnti vecchio stampo dell’estremo, ma lo fanno con una forza e una volontà omicida portentosa. Le aperture veloci, arrivando dopo marce nella melma spossanti e dolorose, eviscerano con una facilità ignobile, rendendo gravida di morte e spessa l’aria nella sala. E intanto che ciò accade, lo ripetiamo per l’ennesima volta perché non riusciamo proprio a trovare un nesso tra chi vediamo là sopra e cosa udiamo, i giovinetti on-stage se ne stanno quasi fermi, inespressivi, come stessero semplicemente portando a termine un’esecuzione sommaria, e delle vittime non gliene fregasse nulla. Da spavento.
(Giovanni Mascherpa)
IMPRECATION
Difficile rimanere impassibili di fronte all’entusiasmo di un gruppo come gli Imprecation, paladini dell’underground statunitense, finalmente in Europa dopo secoli trascorsi a lottare per emergere in un panorama che solo di recente pare essersi accorto di loro. I Nostri sono quel tipico gruppo satanic death metal americano dall’apparenza un po’ becera e demodè, ma che ripaga l’attenzione degli astanti con una performance di grandissima sostanza. Il frontman Dave Herrera quest’oggi è posseduto da Satana e dagli dei del trve metal e non manca di manifestare tutta la sua felicità per il trovarsi nel festival underground death metal per eccellenza. Dal canto suo, il resto della band dimostra un affiatamento niente male e offre il giusto sostegno al cantante. La proposta non è difficile da replicare dal vivo e infatti, soprattutto quando arrivano i midtempo, i texani acquistano un tiro notevole, coinvolgendo nel più classico headbanging anche i più moderati. A differenza di tante altre band vicine alla scuola Incantation, gli Imprecation possono vantare un buon numero di riff catchy e di di aperture anthemiche, cosa che li porta a farsi subito apprezzare anche da coloro che non hanno grande familiarità con la loro musica. Durante il set ci si avvicina spesso ad un concetto di death metal estremamente arcaico e lineare: se su disco queste formule possono magari avere già detto tutto o quasi, in concerto esse godono ancora di un’efficacia notevole; non è quindi un caso che per molti avventori il gruppo americano risulti la vera sorpresa della giornata. Dal canto nostro, avendo apprezzato parecchio il loro ultimo “Satanae Tenebris Infinita”, avevamo pochi dubbi a riguardo.
(Luca Pessina)
CENTINEX
I Centinex, invece, a nostro avviso sbagliano concerto. Troviamo infatti la scelta di utilizzare tutto il tempo a propria disposizione per proporre per intero un album di prossima pubblicazione – e quindi ignoto a tutti i presenti – abbastanza discutibile, anche e soprattutto perchè, dopo tutto, ci si trova ad un festival che in un modo o nell’altro celebra la cosiddetta vecchia scuola. Insomma, questa sera tutti si aspettano qualche classico dal vecchio debut “Subconscious Lobotomy” o da “Hellbrigade”, invece gli svedesi suonano tutti i brani del nuovo “Redeeming Filth”, in arrivo a fine novembre! I suoni sono buoni e il materiale, almeno dal vivo, possiede impatto, tanto che parte del pubblico pare comunque gradire; ciò nonostante, da parte nostra vi è un po’ di amarezza: che senso ha non suonare nemmeno una vecchia canzone, quando il proprio debutto risale addirittura al 1992? Inoltre, ci sembra che alcuni dei nuovi riff ricordino Obituary e Six Feet Under, cosa che ci lascia alquanto perplessi visto che sinora, pur cambiando spesso approccio, i Centinex si sono sempre fatti segnalare come gruppo dal sound prettamente svedese. Non capiamo, ma pazienza… anche perchè sarebbe oggettivamente ingiusto affermare che il set di Martin Schulman e compagni sia scadente; semplicemente non è quello che chi scrive e tanti altri avventori si stavano aspettando.
(Luca Pessina)
AUROCH
Dopo aver goduto di una serie di act affini alla vecchia scuola, nei suoni e nell’ideologia, gli Auroch si pongono come un viaggio a metà strada fra l’interplanetario e lo sprofondo al centro della Terra. “Taman Shud” ha fatto trasalire più d’uno, non ci si aspettava un tale slancio di inventiva e carattere in territori in parte inesplorati, per certi versi non creati da nessuno prima di loro, da parte di una band che col primo disco non sembrava ancora ben decisa su cosa fare di se stessa. Invece ora siamo alla prova del fuoco per designare un nuovo re, o suppergiù: esagerati? Chi lo sa. Allo stato attuale dell’arte i canadesi, di cui due terzi provocano deliri se possibile ancora più scellerati nei Mitochondrion, ci sembrano lanciati verso altitudini dove l’aria rarefatta permette di sopravvivere solo ai più forti, e dopo averli visti su di un palco l’idoneità a competere coi migliori ci sentiamo proprio di concederla al terzetto di Vancouver. Il nostro nuovo idolo Sebastian Montesi a chitarra e voce è un sacerdote sotto crack e anfetamine proteso a toccare la materia di cui sono fatte le stelle, quelle morte, cadenti ed emananti un ultimo fulgore prima del buio più completo. Assurdità assortite provengono dallo strumento e dalla gola del musicista canadese, e chi gli è accanto va via sinusoidale e rocambolesco sulla stessa strada tutta curve, mettendo in luce un crogiuolo di ritmi per molti tratti ben noti, visto che si tratta di pattern fra il blackened death e il grind, ma che a certi crocicchi non solo deviano fantasticamente e incomprensibilmente, ma rovesciano la strada fin lì tenuta e ne rivoltano addirittura la prospettiva con cui la si guarda. Si assiste per certi aspetti a un techno death metal maestosamente spruzzato delle infinite colorazioni del nero, e per altri a spastiche insubordinazioni e alla deflagrazione di ossessioni e pulsioni clamorosamente inumane. Il concerto dura pochissimo, giusto quei venticinque minuti e pochi secondi che danno vita a “Taman Shud”, e tanto ci basta per essere completamente soddisfatti e appagati. E per non rimanere orfani di tanta amabile arte impropria, ci siamo accaparrati il recente frutto dell’ingegno poc’anzi nominato in un elegante vinile a quaranticinque giri. Come farne a meno?
(Giovanni Mascherpa)
GOD MACABRE
La prima giornata del Kill-Town Death Fest si chiude con i God Macabre. Leggendari per molti, comprimari per altri, i death metaller svedesi, come noto, in carriera hanno pubblicato solo un album, il pluri-ristampato “The Winterlong…” (1993), e questa sera decidono, come prevedibile, di proporlo quasi per intero. Abbiamo visto il quintetto capitanato dal chitarrista Jonas Stålhammar all’ultimo Maryland Deathfest solo di sfuggita, a causa principalmente del caldo torrido di Baltimore, ma questa sera non vi sono scuse: al chiuso, su un palco più adeguato al loro suono e alla loro attitudine, i cinque davanti ai nostri occhi fanno una buonissima figura, incantando i tanti nostalgici e incuriosendo più di qualcuno che, nel panorama svedese, non è mai andato troppo oltre i soliti Entombed e Dismember. L’aura vagamente malinconica di “The Winterlong…” un po’ scompare sulle assi del palco dell’Ungdomshuset, ma, per il resto, il set rende piena giustizia al vecchio classico, che viene riproposto senza sbavature plateali e con quella carica che solo una band di “vecchietti” esperti ed affamati può avere. Più che gradita anche la cover della hit dei Carnage “The Day Man Lost”: praticamente i grandi che omaggiano altri grandi! Di fronte a concerti così concreti, non viene alcuna voglia di pensare a e/o di richiedere un nuovo album: che i God Macabre continuino a rifarsi vivi di tanto in tanto per un ripasso del loro caposaldo… se saranno sempre così affiatati nessuno avrà di che lamentarsi. Anzi!
(Luca Pessina)
ZOMBIEFICATION
Uno stendardo messicano campeggia su un amplificatore, ci annuncia senza ombra di dubbio che è il momento degli Zombiefication, rozzi profeti di un sentire death metal molto affine allo spirito delle origini. I Nostri attingono a piene mani, nutrendosene fino all’ingozzamento, alle primordiali vessazioni dei Sepultura, e sono aderenti a quell’idea di metal estremo confusa e triviale che sempre ci aspettiamo di sentire dalle formazioni centro-sudamericane. La si butta in frenesia e caciara, non essendoci un grande bagaglio tecnico o compositivo a supportare le voglie estremiste del quartetto. Difficile apprezzare un riff ben definito o qualche melodia portante di buona fattura, il materiale si fa ascoltare senza difficoltà, ma segnala un’oggettiva mancanza di idee, a cui si compensa solo in parte con energia, attitudine e sboccatezza. Gli Zombiefication sono la classica band da piazzare in apertura di giornata, come succede appunto in questa occasione, per dare una scaldata ai valorosi che sono già davanti al palco, senza aspettarsi di ricevere nulla di più pregiato di una serie di staffilate chiassose ed elementari. Un tratto caratteristico ci sarebbe, a dire il vero, ed è l’uso di melodie rubate di forza al dark sound italiano, tipo Death SS o Mortuary Drape, piazzate senza alcuna apparente logica in mezzo alle canzoni; la cosa un po’ fa sorridere, però è anche l’unico elemento distintivo in possesso di questi deathster, e in mancanza d’altro si potrebbe anche osare un po’ di più su questo fronte. La vera pecca è che il concerto dura ben cinquanta minuti, quando una durata giusta per una proposta di questo tipo sarebbe stata di una mezz’ora scarsa; nonostante la ripetitività della musica, il pubblico incita e applaude i valorosi messicani, che in un locale molto ridotto come il Dødsmaskinen possono almeno far valere una sana rabbia ignorante, e tanto basta a concedere anche a loro una sufficienza stiracchiata.
(Giovanni Mascherpa)
MITHOCONDRION
Questi canadesi non sono normali. Per niente. E quando si cimentano col death metal, si salvi chi può. O chi lo desidera. Noi di salvarci non abbiamo voglia, o meglio, non ne sentiamo il bisogno. Vogliamo farci del male. Tanto. E pretendiamo di portarne addosso i segni. Di coloro che hanno di siffatte idee, ve ne sono tanti da queste parti, e il fatto che i Mitochondrion calchino per la prima volta un palco europeo acuisce l’attenzione. Le primizie hanno sempre un altro sapore. In questo caso hanno la sapidità di un’orgia di leccornie tanto elaborate, balzane e geniali che arriviamo a fine esibizione totalmente sopraffatti, massacrati mentalmente e fisicamente. I deathster di Vancouver sono così, un lussureggiante e lussurioso abbecedario di strampalate allucinazioni, propinate con la risolutezza di chi viene a dettare le tavole di una nuova legge. Illogica. Intransigente. Trascendente il senso comune e in grado di spostare i confini della musica verso una dimensione inaudita. Come maneggiano incubi, storture, divagazioni nella follia più totale questi ragazzi non ve ne sono tanti in giro, fidatevi. Ogni composizione riflette una genialità multiforme, a spettro amplissimo, che ricompone in un’unica entità le velleità degli Atheist e le concezioni malevole degli Ævangelist, suscitando stupore e meraviglia, oltre a vero e proprio terrore. Una paura pietrificante, perché quello che ci si trova davanti non è banalmente un gruppo che sa far bene il suo mestiere. No, è il futuro più catastrofico e folle che ti si para davanti, sotto forma di un riffing death metal coeso nella sua slegatura da ogni schema vagamente “normale”, a presa rapida nonostante una dirompente follia che rende storta, angolata e squinternata ogni fase delle manifestazioni di intenti della band canadese. L’evidente squilibrio mentale di questi musicisti conduce a stravaganze audaci, ma che mantengono un impatto catastrofico a dispetto di una spinta avanguardistica fuori da ogni criterio conosciuto. Non ci sono spiegazioni, non vi è rimedio e non c’è unguento, fortunatamente, che possa lenire i danni arrecati dai Mitochondrion. Le alzate degli strumenti in contemporanea, i volti duri come degli dei nell’atto di scagliare una punizione irreparabile sul genere umano, confermano la natura inverosimile del quartetto, autore altresì di una prova vocale, molto spesso in triplice growl, capace da sola di sbranare un esercito. Le povere anime all’ascolto, non paghe di quanto subito, si recheranno come api al miele al banco del merchandise, per saccheggiare di cd, vinili, magliette e felpe i canucks, nel frattempo ritornati ad essere dei pacifici ragazzi che potreste presentare tranquillamente in famiglia.
(Giovanni Mascherpa)
OBLITERATION
Sul palco il piglio degli Obliteration è assolutamente quello di una grande band, navigata e consapevole dei propri mezzi. Basta concentrarsi sul frontman Sindre Solem per rendersene conto: con fare sprezzante domina la scena, attirando su di sè tutta l’attenzione e comandando il pubblico a bacchetta. Nonostante la base del sound del gruppo sia da sempre viscida e caracollante, con evidentissimi richiami agli Autopsy, l’esperienza del suddetto cantante e del chitarrista Arlid Myren Torp con i thrasher Nekromantheon ha donato ai Nostri una vitalità lampante, che rende particolarmente trascinanti anche le composizioni più lente e torbide. Davanti alla prova dei norvegesi ci viene alla mente il termine “arroganza”, ma in questa occasione l’accezione è tutt’altro che negativa: gli autori di “Black Death Horizon” hanno il merito di sapersi imporre all’attenzione della platea, sanno prenderla per le palle e mollano la presa solo al termine della scaletta. È una forza contagiosa, quella in dote agli Obliteration. Fa piacere vedere un gruppo così giovane non nascondersi dietro arie pseudo-occulte o altre velleità pretenziose: i ragazzi puntano tutto sulla loro musica e sulla loro presenza scenica, spargendo badilate di metallo della morte sano e nerboruto. Un calcio in culo a tutti prima degli ultimi botti della serata.
(Luca Pessina)
UNAUFSSPRECHILICHEN KULTEN
L’impressione conclusiva su questi quattro squinternati di Santiago? Più cileni che bravi. Ebbene sì, il lato simpatia degli Unaussprechlichen Kulten. vince a mani basse contro le loro reali doti artistiche. Il terzo album “Baphomet Pan Shub-Niggurath”, edito dall’attivissima Iron Bonehead, ha dato un minimo di notorietà al combo sudamericano, e sul Dødsmaskinen l’entusiasmo per questa prima calata europea è palpabile. I cari figlioli si presentano in ghingheri per l’appuntamento danese, addobbandosi come un albero di Natale di borchie e spuntoni vari. Le facce arcigne ce li fanno inserire senza troppe titubanze fra i brutti ceffi che mai vorremmo incontrare per strada, e c’è quindi tutto il contorno necessario per tre quarti d’ora di impudica macelleria. Nobile l’idea di condurci in cripte sconsacrate in compagnia del corpus monstrorum lovecraftiano, mettendoci di fronte al degrado più infamante che si possa tradurre in musica, ma una volta ribassate le chitarre e impestata di virus la voce, rimane una certa pochezza. Con gli strumenti in mano, i componenti degli Unaussprechlichen Kulten vanno ognuno per i fatti propri, candidandosi al ruolo di Incantation dei bassifondi. Le atmosfere sono più o meno quelle degli uomini di John McEntee, ma la grandiosità degli statunitensi non viene nemmeno sfiorata e si finisce per contorcersi fra sbudellamenti e creature immonde inciampando un po’ ovunque nel pressapochismo. Diciamo che, se si presentassero così dei musicisti nostrani, li bolleremmo come approssimativi e impreparati; arrivando dall’altra parte del mondo, gli Unaussprechlichen Kulten li mettiamo nella categoria “culti underground” e ce li spariamo come se fossero chissà quale primizia. Apprezzabili l’impegno e la convinzione, per il death metal di qualità meglio cercare altrove.
(Giovanni Mascherpa)
BÖLZER
Sono bastati due ep nel giro di un annetto scarso a consacrare gli svizzeri Bölzer come figura di spicco del panorama estremo mondiale. A dire il vero, già con il solo “Aura” era partito un effetto domino sconcertante, che aveva portato il gruppo ad essere osannato ovunque, fino a diventare oggetto di interesse per molti degli happening live più rinomati, citiamo su tutti Maryland Death Fest e Roadburn, sui cui stage HzR e KzR, menti e braccia del progetto, hanno avuto il privilegio di esibirsi nella prima metà del 2014. Con il recente”Soma” lo status del duo si è rafforzato e in pratica chiunque sia presente al Kill-Town Death Fest conosce perfettamente quello che i Nostri hanno combinato nel recente passato, facendo assumere al concerto lo status di un evento nell’evento. La sala grande dell’Ungdomshuset è infatti piena come per nessun’altra band di questa edizione, la balconata riservata a chi è provvisto di pass trabocca a sua volta di addetti ai lavori, non c’è proprio un’anima che abbia deciso di trascurare i misteriosi musicisti di Zurigo. L’aria, impregnata di un forte odore di incenso, sparso dal gruppo poco prima di salire sul palco, vibra dei fremiti di chi attende di udire qualcosa di grandioso, stupefacente, fuori dal concepibile. Detto e fatto. Godendo di suoni nitidissimi e calzanti a pennello al particolare mix di caos e spiritualismo balzano che contraddistingue le opere in studio, chitarra e batteria, senza bisogno di alcun aiuto di basi registrate o di ospiti, riproducono con precisione chirurgica la cosmologia multidimensionale di quelle moderne, e insieme arcaiche, pietre filosofali quali sono “C.M.E.”, “Entranced by The Wolfshook”, “Zeus – Seducer Of Hearts”. Il chitarrismo di KzR è la punta di diamante dell’affascinante assemblato messo in mostra: il tatuato cantante/chitarrista si avvale di uno strumento a dieci corde dalle possibilità espressive pressoché illimitate, grazie al quale confeziona crescendo operistici meravigliosi, una serie di sensazionali scalate alle altezze vertiginose dove solo agli dei è concessa dimora. La reazione del pubblico è pressappoco quella che si avrebbe, in altri e popolari contesti, alle hit di un gruppo pop sulla cresta dell’onda; l’imperscrutabile e inclassificabile miscela dei Bölzer è un incantesimo da cui non ci si può liberare, i deliri in pulito di KzR trovano eco tra molti dei presenti, e davanti alla superba epicità di “The Great Unifier” crediamo che anche i pochi scettici rimasti abbiano deposto le armi, e abbracciato la scuola di pensiero bolzeriana.
(Giovanni Mascherpa)
IRKALLIAN ORACLE
Una dolorosa e infingarda eucarestia di sangue. Ecco cosa rappresenta un live degli Irkallian Oracle, creatura delle cavità nascoste, grottesco scempio rinnegato da madre natura e relegato nel sottosuolo, da cui emerge per abbattere e liquefare la logica, il buonsenso, la bellezza. Prendendo esempio da teppaglia di classe luciferina come Portal, Ævangelist, Abyssal, gli svedesi hanno creato un percorso sonoro sdrucciolevole e pericolante sull’orlo dell’Ade, “Grave Ektasis”, che ci ha messo pochissimo a entrare negli incubi degli extreme metaller trangugianti marmorei distillati sonici, arricchiti di cianuro in quantità industriali. Il piccolo palco del Dødsmaskinen diventa un tempietto in cui officiare i riti più atroci che la mente umana possa concepire; mancano sacrifici di materia vitale, quindi niente sconcerie alla Watain, ma il livello di minaccia e nausea è già ben oltre i limiti alle prime note, empie come uno sposalizio incestuoso con il demonio reincarnato. Gli Irkallian Oracle si presentano incappucciati, un greve saio nero nasconde interamente le figure, i volti sono celati, solo una minuscola fessura ad altezza degli occhi fa intravedere le fattezze di chi sta suonando. E’ l’unico dato certo riconducibile all’essere umano di una performance ferale e allucinata, aperta da una prima fustigazione acquitrinosa e malevola, “Ektasis”, opener dell’esordio, introdotta da un tamburello che, da strumento gioioso quale di solito si configura, nelle mani del singer si tramuta in un hydra immondo e sinistro. Superato questo primo funesto scoglio, ci si accorge che il male non è poi così brutto come lo si dipinge. E’ molto peggio. Dal secondo brano in scaletta – per quanto possa avere senso praticare le solite distinzioni fra “canzoni” con questi svedesi – il sentiero conosciuto viene abbandonato, dapprima con qualche leggera deviazione dalla strada principale, poi con un vagare sempre più distante da ciò che si è conosciuto e assimilato dell’unica opera in studio prodotta finora, abbandonandosi infine alla più nefasta improvvisazione estrema che memoria ricordi. Sgomento è la parola adatta per indicare la reazione di fronte a un tale sprezzo del rischio da parte dei quattro, poiché molto difficilmente si assiste a un tale stravolgimento delle proprie creazioni in ambito death metal; è uno stratagemma utilizzato, a dire il vero pure qui piuttosto raramente, nel progressive e nell’hard rock. Qua facciamo davvero fatica a raccapezzarci, e mentre affoghiamo tra chitarre laviche che esplodono in bolle di materia andata in sfacelo ad altissima temperatura, un nuovo strumento imprevisto, un tamburo di legno dal suono secco e definitivo, rintrona nelle nostre teste e va a dissolvere quel poco di sanità mentale rimasta. Nessuna parola né durante né al termine della performance, solo l’incresciosa e subdola stretta del maligno, per quella che, a tutti gli effetti, si è configurata come una frastornante esperienza al confine della realtà.
(Giovanni Mascherpa)
CIANIDE
L’Oscar per il gruppo più cafone del Kill-Town Death Fest 2014 va senza ombra di dubbio ai Cianide. Il trio di chicago è da sempre sinonimo di vera ignoranza: da quando abbiamo ascoltato per la prima volta il loro mini-classico “The Dying Truth” (1992) ci siamo sempre immaginati come dal vivo i Nostri potessero diventare una sorta di versione ancora più marcia, cadenzata e groovy dei primi Obituary e questa sera ne abbiamo avuto finalmente conferma. Ci sarebbe piaciuto vedere la band proporre proprio quel disco per intero, ma, come si suol dire, non si può avere tutto dalla vita: l’organizzazione del KTDF è riuscita a portare per la prima volta nella loro storia gli statunitensi oltreoceano e noi rendiamo grazie e scapocciamo indipendentemente dalle scelte di setlist. D’altronde, proprio nessuno sembra battere ciglio davanti alla performance di Mike Perun e soci: il trio, anche durante i pezzi meno noti, quest’oggi è un vero mostro di groove e potenza. Davanti a tracce come “Scourging at the Pillar” si respira del tutto quell’aria da vero underground americano, la stessa che constatiamo ogni volta che mettiamo piede al Maryland Deathfest: birra, sudore, barbe e toppe dei gruppi più improponibili ci si materializzano davanti non appena partono i primi riff e non riusciamo a toglierci simili idilliache visioni prima della fine del set. Ad un certo punto ci viene quasi voglia di metterci in un angolo, rovesciarci una lattina di birra addosso e fare un centinaio di flessioni per puzzare di più e rendere quindi definitivo omaggio alla carneficina Cianide, ma decidiamo di lasciare perdere per pietà nei confronti di chi divide la stanza con noi. In ogni caso, grandi Cianide… vecchi, ma assolutamente in palla.
(Luca Pessina)
UNDERGANG
Prima di prostrarci dinnanzi ai Dead Congregation, una capatina all’interno della Dødsmaskinen è d’obbligo per farci ribaltare dagli Undergang. I ragazzi, come noto, sono di casa, visto che rientrano a tutti gli effetti fra gli organizzatori e promotori dell’evento. Indecisi sino all’ultimo sul prendervi parte o meno, proprio per non voler dare l’impressione di essere dei “raccomandati”, i Nostri alla fine hanno ceduto su pressione dei tanti fan qui presenti e dunque eccoli sprigionare ancora una volta tutta la loro mostruosa onda di sporcizia e marciume. Come sempre, rimaniamo a bocca aperta davanti alla distorsione del basso di Ondsind – praticamente l’equivalente di dieci motoseghe avviate all’unisono – ma questa sera è il solito David Torturdød a fare la cosiddetta parte del leone, con il suo growling agghiacciante sempre seguito da uno screaming deviato che inneggia al disgusto più totale. Come già illustrato in passato, per noi gli Undergang, almeno nei midtempo, combinano il meglio di Rottrevore e primissimi Grave, fra gli altri, e ogni volta che abbiamo modo di vederli live non riusciamo a trattenere l’euforia: i danesi rappresentano tutto ciò di cui andiamo in cerca quando si parla di death metal ruvido, vischioso e repellente. Nessuno come loro nel death metal di oggi riesce a dipingere così bene il concetto di immondo. Li vediamo travolgere la cospicua folla accorsa all’interno della venue “minore” e ci viene solamente da ridere. Quanto vigore, quanta insensata, graditissima ignoranza…
(Luca Pessina)
DEAD CONGREGATION
Headliner non per caso della terza giornata e ultimo anello della catena di dominatori dell’underground visionati tra sala grande e Dødsmaskinen dal tardo pomeriggio alla nottata, i Dead Congregation si stagliano imperiali quali nuovi profeti del tradizionalismo portato a un livello di pericolosità più alto e nobile. “Graves Of The Archangels” e “Promulgation Of The Fall” hanno provocato opinioni pressoché unanimi, in positivo, e difficilmente troverete qualcuno dei convenuti al Kill-Town Death Fest che non professi sincera ammirazione e, in molti casi, cieco fanatismo per il gruppo ateniese. Provocando un perverso incesto tra scuola floridiana e newyorkese, in poche parole facendo assaporare essenze di Morbid Angel, Incantation e, in misura inferiore, Immolation nello stesso denso palinsesto sonoro, gli uomini capitanati da Anastasis Valtsanis possono provocare avvilimenti in quasi chiunque intenda, di questi tempi, cimentarsi col death metal vecchia maniera. Perché i quattro greci lo faranno sempre meglio degli altri. Inserendo quale ingrediente aggiuntivo lo spiritualismo tradizionalmente insito nel black metal ellenico, i Nostri riescono a far impallidire persino le proprie prove in studio, mettendo in mostra un controllo, una disciplina e una focalizzazione sulle atmosfere più nefande che il death sappia evocare da lasciare a bocca aperta anche chi vive la scena da tempo immemore; un’ulteriore conseguenza, è quella che i disordini davanti al palco diventano la regola per l’intera esibizione. Prendendo vigore dal caos che essi stessi generano, i Dead Congregation concepiscono ponderosi baccanali di blast-beat incontrollati, vocalizzi marci ma perentori e carismatici, sovrapposizioni di riff uno più onnipotente dell’altro, e inauditamente anneriti, punteggiati dal chitarrismo azagthothiano del leader. Il drumming riluce della maiuscola intraprendenza e pressione che rese leggendario in passato Pete Sandoval e la band tutta concede una fantastica dimostrazione di superiorità e preziosità. I frutti terribili prodotti da “Only Ashes Remain”, “Immaculate Poison”, “Hostis Humani Generis”, l’invalicabile “Teeth Into Red”, ognuna colma di una sua caratteristica irascibilità gonfia di pathos, erculea potenza e irresistibile furia distruttiva, costituiscono, insieme a un’altra manciata di scarnificazioni, un’ora abbondante di death metal perfetto in ogni piccolo dettaglio, da mandare a memoria e utilizzare come metro di paragone per qualsiasi esibizione su similari coordinate stilistiche. E poi, scusateci la parentesi maschilista, dove lo trovate un altro gruppo estremo che attira così tante deliziose bionde sotto il palco? Vi giuriamo che nelle prime file si stava meglio che alla settimana della moda milanese…
(Giovanni Mascherpa)
THE VEIN
Il Gloomy Sunday, la giornata conclusiva del Kill-Town Death Fest dedicata alle sonorità lente e claustrofobiche, usuale terreno di conquista per compagini death/doom e funeral doom, si apre davanti a un pubblico abbastanza sparuto. Al quarto giorno le forze sono quelle che sono, in tanti se la prendono comoda e arrivano con calma all’Ungdomshuset; inoltre, una discreta fetta di coloro che si sono recati a Copenaghen per il festival è già sulla via del ritorno, poco attratta dalle cadenze oppressive che terranno compagnia nel pomeriggio e nella serata della domenica. Per i The Vein, i primi in scaletta, ci sono quindi poche unità ad assistere, situazione che non incomoda i cinque, sicuramente abituati a non vedere masse umane gigantesche ai propri concerti. Di recente costituzione, ma composto da musicisti non di primissimo pelo, il gruppo naviga in acque sicure, condensando alcuni dei cliché tipici del death e del doom di nordica provenienza in composizioni lunghe e piuttosto scorrevoli, attraversate da un discreto gusto melodico e mediamente vivaci dal punto di vista ritmico. Non sono proprio lentissimi e sfibranti i The Vein, avrebbero potuto stare in cartellone anche nelle giornate precedenti, e vi sono intermezzi esplosivi e schiaccianti nei loro pezzi, a mitigare un incedere sofferto nel quale non si perdono mai di vista armonie semplici ma non scadenti. In definitiva non stiamo parlando di nulla di particolarmente esaltante o sorprendente, i The Vein possono essere considerati una band di genere, niente di più e niente di meno, e sapendo stare sul palco in maniera adeguata non sfigurano eccessivamente al cospetto delle entità più versatili che arriveranno successivamente.
(Giovanni Mascherpa)
FUOCO FATUO
Con una torsione a trecentossesanta gradi, nel giro di poco più di un anno, tra il 2012 e il 2013, i Fuoco Fatuo sono passati dall’essere un promettente ensemble sludge/black metal a un sodalizio funeral death/doom che più fedele alla linea non si potrebbe. La cupezza in cui si sono rinchiusi e lo sfiancamento delle loro perigliose transumanze verso gli Inferi ne fanno il gruppo ideale per un Gloomy Sunday. Oseremmo dire che, almeno nel contesto di quest’anno, i varesini sono i più aderenti al concept della giornata. L’apparizione in terra danese è la prima in assoluto fuori dai confini patri, e ha la sfiga di coincidere con l’impossibilità di schierare il batterista titolare. Il sostituto è il titolare del drum-kit negli Into Darkness, e dobbiamo dire che si difende egregiamente, non commettendo errori e andando via liscio su del materiale imparato poco tempo prima del festival. A causa dell’impossibilità per il drummer di apprendere un sufficiente numero di pezzi, l’esibizione risulta essere leggermente più corta del previsto, poco più di mezz’ora, ma la qualità della stessa riesce agevolmente a sopperire all’esiguo minutaggio. Il terzetto lombardo è un congegno ben collaudato, se ci fate caso sono spesso in cartellone per le serate più estreme dell’area milanese, e non hanno quindi alcun timore nel confrontarsi con l’esigente platea del Kill-Town Death Fest. Dei suoni grevi e minacciosi come si necessita in questi casi danno il là a sabba riprovevoli, che hanno la peculiarità di rimanere arroccati nella propria intransigenza, rinunciando a priori a qualsiasi soluzione di ampio respiro. La reiterazione della partiture più spigolose, il picchiare ossessivamente sugli stessi tasti, potrebbe essere visto come un limite, in quanto si tende ad essere un po’ ridondanti e riempire gli spazi uditivi di cadaveri quando la nausea mortuaria è già all’apice. Però ai ragazzi il giochetto riesce così bene che se lo interrompessero ci resteremmo male, e allora ben venga questo olocausto senza fine, corredato dal growl encomiabile di Milo Angeloni. Alla stregua degli Evoken privi di alcun tipo di goticismo, l’aurea cimiteriale si posa densa e impenetrabile per la sala. Sollevandosi con molta fatica solo a fine concerto.
(Giovanni Mascherpa)
ATARAXIE
In pratica band sorella dei tossicissimi Funeralium, visti all’opera l’anno passato nello stesso luogo e all’interno della medesima cornice del Gloomy Sunday, gli Ataraxie portano con sé i lusinghieri responsi per l’ultima fatica “L’Être Et La Nausée”, doppio album di lunghezza spropositata per i normali fruitori di metal estremo, nella norma per i frequentatori del funeral death/doom. L’apparizione dei francesi smuove qualche testa in più di chi li ha preceduti, in considerazione di una propensione all’attacco frontale molto marcata, suffragata dall’erezione di un muro chitarristico vistoso e acuminato, sorprendentemente agile per il settore metallico di appartenenza. A dirla tutta le tinteggiature funeree restano abbastanza in disparte, ed è un muscolare death doomeggiante a farla da padrone e a intorbidare le acque. Lo stage-acting è poco incline a tristezze e contemplazioni, è cannibale, furibondo e schietto, con gli strumentisti abbarbicati ai rispettivi mezzi di supplizio con feroce abnegazione. Le connotazioni violaceee e tremebonde, evocatrici di una depressione di massa insanabile e obnubilante qualsiasi sforzo di tornare alla vita, escono in piccole gocce, per coagularsi infine in parentesi disperate, mai troppo insistite e preambolo di nuove devastazioni. Salta continuamente fuori il confronto con chi avevamo visto all’opera l’altr’anno, e dobbiamo confessare che se da un lato i Funeralium ci erano parsi più personali in quella ricerca ostinata della lentezza omicida che così magnificamente ci aveva stregato, gli Ataraxie hanno una rudezza più a grana grossa che meriterebbe maggiore eco nella scena estrema. Degli Evoken senza goticismi, o degli Incantation più poetici, vedete voi, quello andato in scena sulle assi del Kill-Town Death Fest è uno spettacolo meritevole di essere conosciuto su platee meno nascoste di quelle alle quali i parigini sono abituati. Gli applausi convinti e la partecipazione emotiva dei presenti assecondano pienamente le nostre convinzioni in materia.
(Giovanni Mascherpa)
MOONDARK
Se si pensa agli svedesi Moondark vengono alla mente mille considerazioni: anni Novanta, una scena underground veramente fertile, band che nascono e scompaiono nel giro di pochi mesi, musicisti coinvolti in diversi progetti contemporaneamente. L’unico demo dei Moondark, datato 1993, all’epoca dell’uscita destò un certo interesse ma rimase un episodio isolato per il gruppo, i cui membri di lì a poco si riciclarono nei Dellamorte e/o preferirono dedicarsi ad altro (Interment, Katatonia, Centinex, ecc). Nel 2011 tutti questi musicisti ormai navigati hanno deciso di resuscitare il monicker e successivamente si sono resi disponibili per alcune date live. Il Kill-Town Death Fest naturalmente è stato il primo a mostrare interesse e così, ormai verso la fine del Gloomy Sunday, ecco comparire sul palco Johan Jansson, Mattias Norrman e il resto dei loro compagni. Davanti ad una folla particolarmente curiosa, i Nostri, come ampiamente prevedibile, propongono tutti i brani presenti nel suddetto demo, innescando in men che non si dica un headbanging furioso fra i presenti. Facile descrivere il Moondark sound: prendete i riff più catacombali dei Grave, aggiungeteci un pizzico di Bolt Thrower e primi Cathedral e il gioco è fatto. Più che di doom-death metal si può parlare insomma di un death molto cadenzato. Headbanging garantito, appunto. Fra l’altro, il gruppo questa sera ha la fortuna di godere di suoni poderosi (il basso marcissimo manda tutti in visibilio!) e lascia inoltre campo libero al frontman Alexander Högbom (October Tide), più giovane del resto della band e molto più mobile e vivace on stage. Ne viene quindi fuori un gran bel concerto, persino sorprendente sotto certi aspetti, soprattutto considerato il fatto che questa band aveva suonato soltanto un’altra volta in tutti questi anni. Dal canto nostro, siamo più che felici di aver presenziato a questo evento nell’evento!
(Luca Pessina)
SONNE ADAM
Senza troppi squilli di tromba, i Sonne Adam sono diventati negli ultimi anni una solida live band, che suona con regolarità e affina costantemente le proprie armi. Li si è visti dividere il palco con tipiche death metal band così come con realtà doom e il risultato è sempre stato lo stesso: totale annichilimento dell’audience, sempre soffocata dalla cupissime trame imbastite dai quattro israeliani. Questa sera notiamo che la lineup è parzialmente cambiata rispetto agli ultimi tour, con una nuova sezione ritmica a sostenere le chitarre del leader Tom Davidov e di Nir Doliner, ma la sostanza cambia poco: il gruppo è maestro nell’allestire trame opprimenti, che sembrano sempre prendere il meglio dei primi Morbid Angel e dai Paradise Lost di “Lost Paradise”. I candelabri posti al lato del palco generano l’unica vera luce in sala, dato che persino la “regia” al mixer pare restìa a illuminare più di tanto il quartetto, il quale suona con foga diabolica, arrivando spesso a velocizzare leggermente la musica rispetto alle registrazioni in studio. Pezzi come “Take Me Back to Where I Belong” o “I Sing His Words” godono infatti di un po’ più di verve rispetto alle versioni incluse in “Transformation”, ma chiaramente si tratta di modifiche minime, che non intaccano le atmosfere morbose e asfissianti care al gruppo. Il pubblico, dal canto suo, pare gradire molto la performance, la quale a tratti pare ricordare, almeno per l’aria che si respira, quella che ha visto protagonisti la sera prima i monumentali Dead Congregation. I Sonne Adam non arrivano a innescare un vero e proprio delirio collettivo come i colleghi ellenici, ma poco ci manca. A set terminato, difficile non ricorrere al termine “garanzia” per descrivere questa formazione on stage.
(Luca Pessina)
ANATOMIA
La parola fine sull’epopea del Kill-Town Death Fest viene posta dagli Anatomia. Una posizione, quella assegnata al gruppo giapponese, tutto fuorchè casuale, visto che, a detta degli stessi organizzatori, fu il grande desiderio di vedere dal vivo gli Anatomia a far nascere l’idea di allestire da queste parti un festival death metal interamente dedicato all’underground. Il popolo giapponese è notoriamente fiero e passionale, quindi non stupisce affatto vedere il quartetto di Tokyo calarsi in pieno nella parte di headliner definitivo e svolgere il compito assegnatogli con estremo impegno. La principale forza della band risiede indubbiamente nel growling agghiacciante del batterista Takashi Tanaka, qui in ottima forma, ma questa sera tutta la lineup pare brillare: dal chitarrista/cantante Yukiyasu Fukaya, puntuale tanto nelle backing vocals quanto nel mastodontico e minimale riffing, all’altrettanto solido bassista Jun Tonosaki, passando per la piccola Kaori Gutunlama alle tastiere, chiamata in causa solo in certi frangenti, ma senz’altro protagonista col suo vistoso gusto alla Goblin. Gli Anatomia, insomma, appaiono subito ben rodati: orgogliosi portabandiera del death metal più crudo e macabro della giornata, i Nostri fanno precipitare la platea in un clima squisitamente orrorifico, amplificando le atmosfere dei loro brani con giochi di luce rigorosamente rosso sangue. In un contesto come questo, con gente già altamente “presa bene”, se non addirittura commossa dal fatto di trovarsi ad assistere all’ultimo show di un evento che nel suo piccolo ha fatto storia, sarebbe bastata anche solo una performance nella norma per chiudere felicemente; tuttavia, gli Anatomia vanno oltre e suonano tutto il repertorio provato, dando fondo alle energie in un crescendo che si stempera solo quando Tonosaki urla “I love you all”. Una frase magari non esattamente da death metaller, ma che certamente rende l’idea del trasporto che questa sera ha unito band e pubblico. Il Kill-Town Death Fest non poteva chiudersi in maniera migliore.
(Luca Pessina)