Introduzione di Andrea Intacchi
Report di Andrea Intacchi e Dario Onofrio
Foto di Benedetta Gaiani
Il Re Diamante ha cantato. Il Re Diamante ha vinto! Per incorniciare una serata magica, vogliamo partire dal fondo e cioè da quegli occhi glaciali, immersi nel nero più nero, a trasmettere fascino e gratitudine.
Con passo lento e celebrativo, King Diamond ha fissato più di un volto al termine del concerto di lunedì in quel dell’Alcatraz di Milano: un ringraziamento sentito e condiviso. Da una parte il forte attaccamento dei presenti accorsi al locale meneghino (i numeri parlano di oltre duemila biglietti staccati), dall’altra la consapevolezza di aver portato sul palco un qualcosa che è andato oltre il semplice show. Tecnicamente perfetto, il teatro musicale messo in scena dall’artista danese, e dai suoi fidi compagni di viaggio, ha colpito per il suo infallibile coinvolgimento: la precisione scenografica e coreografica dell’intero spettacolo è andata a braccetto con il perpetuo contatto con il pubblico, rendendolo partecipe, scherzando con esso, prendendolo per mano attraverso le storie di paura cantate e musicate dalla band.
La tanto acclamata alchimia che collega i due piani principali dell’esibizione (stage e pit), si è rivelata davvero un filo rosso che è andato letteralmente in cortocircuito.
Riavvolgiamo quindi il nastro e torniamo al tardo pomeriggio di lunedì quando fuori dall’Alcatraz, un centinaio di metallari erano in coda (per la cronaca nessun esorcista, o presunto tale, è stato avvistato) in attesa dell’apertura dei cancelli che sarebbe avvenuta intorno alle 18.30.
Un’occhiata rapida al merch per avere la conferma che le t-shirt più economiche hanno ormai il marchio dei 35-40 euro, ma soprattutto per scoprire i famosi silver/gold package (dai duecento ai quattrocento euro) coi quali poter incontrare la band, prima e dopo il concerto, oltre alla possibilità di vedere da bordo palco i primi tre brani. Non sappiamo con esattezza se a Milano qualcuno li abbia acquistati tuttavia, durante le fasi iniziali dello show, abbiamo intravisto tre volti ‘estranei’ alla band posizionarsi nell’angolo destro; che abbiano partecipato all’importante investimento?
Ci si fionda tra le prime file così da avere una visuale migliore: in attesa che la serata abbia inizio ci fa compagnia un simpatico metallaro marsigliese a suon di “Oh ah Cantona”. Verrà ‘zittito’ intorno alle 19.45, quando ad aprire i battenti, in questa data milanese, ci pensano i britannici Paradise Lost.
Sono proprio le otto meno un quarto spaccate quando un Alcatraz già decisamente in via di riempimento si immerge nelle cupe note malinconiche dell’intro dei PARADISE LOST, scelti per l’apertura di questo pezzo del tour europeo del Re Diamante.
Dopo l’eccellente esibizione allo scorso Luppolo in Rock, è un piacere vedere la band di Nick Holmes e soci in un contesto dove anche la frescura dell’aria condizionata e il senso di attesa per l’headliner giocano la loro parte.
Il ‘nuovo’ ripescato Jeff Singer alla batteria dà subito prova delle sue qualità con l’immancabile “Enchantment”, tratta da “Draconian Times”. La platea ascolta e partecipa ipnotizzata; nonostante fra il doom degli inglesi e l’heavy di King Diamond passino tanti anni di storia, qua e là si vede anche chi canta i pezzi a squarciagola, come nel caso di “Faith Divides Us – Death Unites Us”.
La band presenta sostanzialmente una scaletta che è una riduzione di quella suonata da headliner lo scorso anno, eccezion fatta per “The Enemy”, tratta dall’ormai quasi ventenne “In Requiem”, dove Aaron Aedy e Greg Mackintosh hanno modo di far uscire la parte più dura del loro lavoro sulla chitarra.
Alla fine, il compito che questa band è chiamato a svolgere è portato a casa egregiamente e con grande professionalità, nonostante abbiamo sentito più di una persona lamentarsi per i volumi stratosferici del concerto volti, probabilmente, ad arrivare anche in fondo all’Alcatraz: il finale è affidato a “Say Just Words”, sulle cui note vediamo più di un veterano della scena con gli occhi luccicanti.
Un lungo applauso accompagna l’uscita di scena degli inglesi che hanno sicuramente conquistato qualche cuore presente magari non proprio avvezzo alle loro sonorità plumbee. (Dario Onofrio)
Venticinque maggio duemilasei: sono passati diciannove anni dall’ultima volta in cui KING DIAMOND si esibì in Italia con la sua band; il palco era quello del vecchio Live Club di Trezzo. Inutile dire che l’attesa di rivederlo, o – per molti – vederlo per la prima volta in azione nel nostro paese era parecchia; ad alimentare l’impazienza, poi, ci pensa anche un maxi-telone d’ordinanza a coprire l’intero palco.
Le luci si spengono, il telone viene fatto cadere, a presentare una produzione scenografica colossale, intitolata “Saint Lucifer’s Hospital 1920”, rispecchiando così il titolo del nuovo album, che dovrebbe trovare l’agognata luce sul finire dell’anno in corso.
Le note, e non potevano essere altrimenti, sono quelle di “Funeral”; la bara bianca di Abigail campeggia al centro, da una porticina blindata, con il numero 9 in bella vista, ecco apparire il Re più famoso dell’heavy metal: lo spettacolo può ufficialmente cominciare.
Mentre Andy LaRocque, Mike Wead, Pontus Egberg e Matt Thompson danno il via ad “Arrival”, è un vero piacere perdersi tra i numerosissimi dettagli dell’imponente scenografia: i demoni appollaiati sulle due scale che circondano il palcoscenico, i ganci insanguinati utilizzati come porta-microfono, la balaustra ghiacciata posta in cima alla struttura, la nebbia a fendere le fessure di un manicomio desolantemente gotico. Elementi sinuosi e sinistri, avvalorati da un gioco di luci esemplare (sublime lo stacco teatrale durante “Two Little Girls”).
Uno show magistrale, in cui ognuno ha svolto la sua parte in modo semplicemente unico: dagli iconici falsetti di King (aiutati? sì può essere, ma diamo a
Kim Bendix Petersen ciò che è di Kim Bendix Petersen) alla superba classe di Andy, dalla professionalità di Mike alla tempesta di colpi inflitta dal duo Egberg-Thompson. Senza dimenticare la performance della nuova arrivata Hel Pyre: già bassista delle Nervosa, la musicista di origine greca, nell’attuale tour europeo, ha sostituito Myrkur nel ruolo di corista e tastierista. E cosa dire della prestazione di Jodi Cachia? La partner di scena del Re Diamante è stata impeccabile con i suoi passi di danza e le sue espressioni maligne, impreziosendo ulteriormente brani come “Voodoo”, “Welcome Home”, “Masquerade Of Madness” o la stessa “Two Little Girls”.
A proposito della voce del frontman danese, trovare il giusto aggettivo per definirla è impresa assai ardua. Spaventosamente elegante? Maledettamente soave? Il suo timbro baritonale, unito agli acuti che lo hanno reso famoso (replicati a suo modo da un indemoniato fan presente in transenna) hanno testimoniato uno stato di forma davvero invidiabile: e se calcoliamo che la carta d’identità, aggiornata proprio lo scorso 14 giugno, riporta il numero 69 alla voce ‘età’, quanto ascoltato in quel dell’Alcatraz assume ancor più rilevanza.
Gettando invece un orecchio alla scaletta, possiamo tranquillamente dire che le due nuove canzoni, “Masquerade Of Madness” (in setlist ormai dal 2019 per la verità) e “Spider Lilly” (con il lavoro all’hammond della Pyre) hanno riscosso pieni voti, mentre autentici boati, oltre ad un sostegno fisico importante (leggasi ‘partecipazione del pubblico’) si sono sollevati durante “Helloween”, “Sleepless Night”, “The Invisible Guests” ed un’acclamatissima “The Candle”.
A scolpire gli ultimi tasselli di una serata memorabile ci ha pensato ancora una volta lui, King Diamond: istrionico quanto basta nel presentare i vari brani, nel prendersi gioco della band e del pubblico stesso, sempre con quel suo tono profondo e stentoreo.
Malefico il suo sguardo quando qualcuno, tra le prime file lo ha invitato a cantare “Come To The Sabbath”, compassionevole nel redarguire una ragazza incerta su quale fosse l’ultima canzone prevista in scaletta, gioiosamente irritato nel riprendere la bionda corista, invitandola a dare maggior enfasi nell’annunciare “Eye Oh The Witch” o, ancora, lapidario nel mandare bonariamente a quel paese un fan dopo che quest’ultimo gli aveva espresso tutto il suo amore con un perentorio “I love you“. Pause teatrali che hanno ammorbidito un tasso adrenalinico a dir poco corroborante.
Riassumere lo show del Re Diamante con un ‘dovevate esserci’ potrebbe risultare sin troppo scontato, ma la mole di emozioni riversata dal palco è stata così ampia che riuscire ad inscatolarle tutte sarebbe impossibile.
Lunga vita a King Diamond, in attesa del nuovo (o nuovi) album e di una prossima visita nella nostra penisola che, parole sue, non sarà così troppo lontana (Andrea Intacchi).
Setlist King Diamond:
Funeral
Arrival
A Mansion in Darkness
Halloween
Voodoo
Spider Lilly
Two Little Girls
Sleepless Nights
Out From The Asylum
Welcome Home
The Invisible Guests
The Candle
Masquerade of Madness
Eye of the Witch
Burn
Encore:
Abigail
PARADISE LOST
KING DIAMOND
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