25/06/2023 - KNOTFEST ITALY 2023 @ Arena Joe Strummer - Bologna

Pubblicato il 30/06/2023 da

Introduzione e report di Maurizio ‘morrizz’ Borghi e Riccardo Plata
Foto di Enrico Dal Boni e David Scatigna

Il Knotfest Italy è un evento senza precedenti nella storia della musica heavy del nostro paese: ci sono state varie manifestazioni che hanno tentato di portare i gruppi più moderni ed alternative dalle nostre parti ma mai nessuno di queste dimensioni.
Ci pensa la creatura degli Slipknot e dello storico manager Cory Brennan a rompere gli schemi, dopo l’invasione di Canada, Giappone, Sud America, Germania, Australia e Francia. Oltre agli Slipknot, il cartellone vede esibirsi i pesi massimi Architects col loro metalcore da palazzetti, gli Amon Amarth con la loro furia vichinga, una selezione di rock più radiofonico con giganti come Nothing More e I Prevail (alla prima esibizione in Italia), certezze come Bleed From Within e Destrage, nonché la formazione con più hype in assoluto, quei Lorna Shore che stanno guidando l’improbabile rinascita del movimento deathcore.
Una scaletta del genere, di fatto senza precedenti, è un bel rischio per il promoter Vertigo, che però crede saldamente nell’evento e prova a svecchiare la solita formula introducendo novità che senza dubbio hanno funzionato: la possibilità di pagare online cibo e bevande si è tradotta in file praticamente inesistenti alle casse, con servizio veloce e puntuale. La politica plastic-free ha concesso, al costo di un bicchiere, che l’arena rimanesse praticamente pulita, mentre l’acqua gratis si è dimostrata fedele alleata nell’assolata Arena Joe Strummer.
Conosciamo bene i difetti della location: le zone d’ombra sono ridotte, ma in zona food c’era un tendone dove era possibile ripararsi dal sole mentre ci si rifocillava. Il problema della polvere davanti al palco è invece di gestione molto più difficile, infatti nelle situazioni più movimentate ne è stata sollevata parecchia. L’unico vero disservizio che possiamo contare è stata l’apertura dei cancelli ritardata, che ha effettivamente causato qualche coda in tarda mattinata.
L’attrazione parallela, molto apprezzata da tutti, è stata quella del museo: ad un prezzo aggiuntivo si poteva accedere ad un’esposizione molto curata con tute, maschere, memorabilia, premi ed oggetti curiosi tratti da tutte le epoche della band, con delle zone in cui era possibile imbracciare la chitarra di Jim Root e sedersi sul seggiolino leopardato di Jay Weinberg. Luci soffuse ed illuminazioni particolari, oltre alla musica della band ad alto volume, amplificavano l’effetto immersivo. Ad immortalare l’esperienza un photobooth in cui si poteva posare davanti al banner degli Slipknot.

Per sapere come sono andati i concerti non vi resta che leggere il nostro report di seguito!

Tocca ai DESTRAGE inaugurare il primo Knotfest Italy in assoluto. La band calca il palco puntualissima alle 12, ma sfortuna vuole che l’apertura delle porte sia stata rimandata, col risultato che l’unica band italiana in cartellone suona davanti ad un’arena che si riempie davvero lentamente. I nostri la prendono in maniera sportiva, divertendosi sul palco e coinvolgendo i presenti che si riparano in qualche modo dal sole cocente.
Indiscutibile l’abilità strumentale dei quattro (com’è noto, il bassista Gabriel Pignata non è stato sostituito) come il carisma del frontman Paolo Colavolpe, c’è però da dire come i suoni non vadano incontro alla ricetta intricata dei Destrage, dalle prime file spesso poco intelligibile. In ogni caso niente toglie il buonumore alla band, che dopo un bel “Forza Milan!” annuncia il finale del set con “Everything Sucks and I Think I’m a Big Part of It” paragonando la canzone alla situazione della squadra meneghina. (Maurizio Borghi)
Nonostante le sfighe i Destrage escono a testa alta, lasciando il palco ai BLEED FROM WITHIN. La formazione scozzese è nota per distruggere i club di tutto il mondo, quindi il grande palco di un festival li penalizza un pochettino, ma non tanto quanto l’afa incredibile che colpisce tutti gli astanti col sole a capolino. Non parliamo del caldo mortale del 2019, ma siamo comunque in temperature capaci di far capitolare qualunque fulvo dalle Lowlands: la band tiene fede alla sua fama di performer sopra la media nonostante l’assenza del bassista Davie Provan, temporaneamente assente per problemi familiari, riuscendo anche ad inaugurare il mosh nell’area fronte palco, che tra salti e circle pit creerà i primi rialzi di polvere, famosi ed inevitabili nel contesto di oggi.
I suoni sono solo lievemente migliori rispetto alla band precedente, ma il pubblico reagisce benissimo ai cavalli di battaglia “Stand Down”, “Pathfinder”, “Levitate” e “I Am Damnation”. A metà set trova anche il suo debutto live la recente “Killing Time”, mentre il set si conclude, come avviene da un pezzo, con “The End of All We Know”. Dopo aver visto il trascinatore Scott Kennedy buttarsi nel pubblico e l’energia diffondersi in maniera incontenibile, possiamo dire che il festival è ufficialmente iniziato nel migliore dei modi. (Maurizio Borghi)

Dopo il riscaldamento – sia atmosferico che di mixer, visto il sound non proprio perfetto delle prime due esibizioni – arriva il momento dei NOTHING MORE, portabandiera dell’alternative rock/metal già transitati nel Belpaese a più riprese ma freschi di ritorno dopo l’uscita dell’ultimo “Spirits”, il cui artwork troneggia sul telone di spalle alla band.
Purtroppo, il ruolo in apertura non permette loro il consueto apparato scenografico con basso e percussioni ‘collettive’, ma nonostante ciò il frontman Jonny Hawkins (una sorta di Brandon Boyd degli anni Venti) cattura l’attenzione del pubblico grazie alle sue nudità (di petto e di piede), salvo doversi scontrare con un palco rovente come dei carboni ardenti costringendo i roadie a creare delle oasi di refrigerio con asciugamani bagnati.
Dopo aver aperto le danze con due estratti dall’ultimo album (la title-track e “Tired Of Winning”) il quartetto texano pesca a pieni mani dal penultimo “The Stories We Tell Ourselves”, i cui tre singoli estratti (“Don’t Stop”, “Go To War” e “Let ‘em Burn”) sollevano un bel polverone mentre la chitarra a sette corde di Mark Vollelunga macina riff memore del nu metal che fu.
Nel computo non poteva mancare l’omonimo album del 2014, quarto in assoluto ma nuovo inizio per la band: se la ballad “Jenny” (dedicata da Jonny alla sorella) serve alla band tutta per tirare un po’ il fiato, “Ocean Floor” e l’anthemica “This Is The Time (Ballast)” chiudono in bellezza quaranta minuti cocenti, facendo saltare il pubblico come i pop-corn nel microonde. Non propriamente una sorpresa, vista anche la presenza qualche anno fa al Rock The Castle, ma una piacevole conferma per una band che sopperisce con il carisma là dove non arriva l’originalità. (Riccardo Plata)
Sono le 15 e l’attesa è alle stelle: sul palco stanno per esibirsi i LORNA SHORE, senza ombra di dubbio una delle band più attese della, giornata grazie all’hype generato dalla virale “To The Hellfire” prima e successivamente dall’ottima conferma “Pain Remains”, disco che li ha consacrati come forza trainante della nuova wave deathcore permettendo loro di sforare il milione di ascoltatori mensili su Spotify.
Con il successo, nella miglior tradizione dei nostri tempi, sono arrivati vagonate di hater, che li attaccano dal punto di vista musicale, compositivo ed estetico, sostenendo che le performance del gruppo siano ‘pompate’ da svariati aiutini live. Bene, possiamo dire che in pochi minuti queste accuse sono state letteralmente demolite dalla prova sopra le righe del quintetto, che si presenta  in ‘all black’ e attacca senza troppe cerimonie un set infuocato che manda letteralmente in visibilio i sostenitori del gruppo.
La band è divisa in tre entità distinte: al centro/sinistra del palco ci sono batteria, chitarra ritmica e basso, che performano come classica formazione deathcore con protagonista un fenomenale Austin Archey alle pelli. Alla destra, illuminato da una Ibanez rosso fuoco (unico elemento a potersi permettere un elemento distintivo) il chitarrista e leader Adam De Micco, che andrà a segnare ogni canzone con il suo approccio melodico sorretto dalle basi sinfoniche. In mezzo, il ‘poster boy’ del deathcore, il frontman sulla bocca di tutti che non solo è riuscito a succedere in scioltezza a due signori vocalist come Tom Barber e CJ McCreery, ma è anche riuscito a far raggiungere vette inattese ad una formazione musicalmente estrema. Ramos spiattella da subito il suo star power performando le sue bestiali vocals in scioltezza assoluta, davanti a un pubblico che causa vere e proprie tempeste di sabbia capaci di oscurare l’intero palco. Nella setlist, che giustamente ignora del tutto il passato, c’è spazio solo per l’irrinunciabile “To The Hellfire” che non sia tratta dall’acclamato “Pain Remains”, dal quale viene estratta l’intera trilogia che dà titolo al disco. Un successo letteralmente clamoroso. (Maurizio Borghi)

Fotografo: Enrico Dal Boni | Data: 25 giugno 2023 | Evento: Knotfest Italia | Venue: Arena Parco Nord | Città: Bologna

Come si può suonare dopo un set del genere? Chiedetelo a quei paraculi degli I PREVAIL, che un’idea ce l’hanno.
Per la loro prima apparizione in Italia il quintetto del Michigan può contare su un campionario di brani già molto solido, che gli permette di esibirsi per un’ora piena in quello che non si allontana troppo da uno show da headliner.
Tra i quattordici brani scelti, ben otto sono estratti dall’ultimo “True Power”, a testimonianza che la fama per la cover di Taylor Swift è un lontano ricordo: siamo davanti infatti a una band che in un decennio è cresciuta fino a diventare un vero e proprio nome di punta nella scena del rock alternativo statunitense, con una proposta furbetta che mischia in egual modo metalcore, nu-metal ed alternative a sfrontati episodi pop-punk. Un gruppo per tutti, insomma, che andrà a coinvolgere in maniera genuina l’intera popolazione del festival senza aver bisogno di trovate sceniche particolari.
Con loro c’è uno switch sensibile per quanto riguarda la potenza e pulizia del suono, che diventa muscoloso, ben mixato e fruibile da qualsiasi punto si ascolti. Già la formula del gruppo è davvero un minimo comune denominatore, la furbizia va poi ad un altro livello quando la band va ad eseguire “Chop Suey!” dei System Of A Down facendo letteralmente correre la gente giù dalla collina e cantare l’intera arena, solo per eseguire poi “FWYTYK” una volta che tutti hanno abboccato.
L’esperimento verrà ripetuto più tardi con “Raining Blood” degli Slayer ad introdurre “Judgement Day”, ma senza lo stesso effetto dirompente. Se parliamo invece di ‘aiutini’ gli I Prevail sono talmente sfacciati che non provano nemmeno a nascondere l’uso di basi, autotune e chi più ne ha più ne metta: il fine giustifica i mezzi, e come accade per band come Electric Callboy, alla fine, hanno ampiamente ragione loro, visti i risultati. (Maurizio Borghi)
Quando il sole comincia timidamente a diminuire la sua potenza distruttiva si palesano gli AMON AMARTH, che in cartellone sono un po’ la mosca bianca dell’intera esibizione. Non c’entrano nulla con l’impostazione moderna/alternativa/contemporanea del festival, siamo quasi sicuri di non aver visto nessuno indossare una loro t-shirt, anche visivamente sono un po’ pesci fuor d’acqua, si esibiscono in continuazione dalle nostre parti… eppure al ventinovesimo (!) passaggio in Italia, anche davanti ad un pubblico che non è il loro, con grande maestranza il concerto se lo portano a casa anche oggi.
I vichinghi negli anni hanno limato all’inverosimile il loro death melodico, tanto da renderlo super-accessibile anche al primo ascolto, e la risposta del pubblico ne è la prova evidente. Certo i ‘guardiani di Asgard’ hanno trasformato il proprio live set in una simpatica pagliacciata piena di gonfiabili e figuranti che fingono il combattimento, dove tra ingenui e talvolta grotteschi espedienti – come definire in altro modo Hegg che prende a martellate un mostro? – l’intrattenimento supera facilmente una proposta efficace, anche se davvero ripetitiva. All’interno di un festival, e soprattutto durante un festival come il Knotfest, l’intrattenimento è soprattutto quello che conta, così la gimmick del vichingo diventa largamente vincente, con una partecipazione invidiabile e una carica genuina da parte di un pubblico che ha davvero voglia di divertirsi. Inutile parlare della prova musicale: gli Amon Amarth sono una macchina super oliata e completamente affidabile, in qualsiasi situazione. Non sappiamo come siano finiti in cartellone, ma di sicuro han fatto il loro dovere, giustificando pure la posizione nei piani alti.

Fotografo: Enrico Dal Boni | Data: 25 giugno 2023 | Evento: Knotfest Italia | Venue: Arena Parco Nord | Città: Bologna

L’invidiabile slot al tramonto, con un minutaggio di ben un’ora e quindici minuti, è tutto degli ARCHITECTS.
La band inglese ha avuto un’evoluzione importante, che li ha portati dal metalcore più caotico degli esordi ad una versione molto più rock ed accessibile, grazie all’ingresso di Sam Carter e a parecchi passaggi evolutivi da album in album, coincidenti con un successo sempre maggiore – e non a caso la band di Brighton arriva direttamente da una serie di date a supporto nientemeno dei Metallica.
Pur essendo sempre in ottimi rapporti con l’Italia, sono ben quattro anni che la band manca dai nostri palchi, di conseguenza i loro estimatori sono ben felici di riabbracciarli. Come gli Amon Amarth poco prima, data la posizione privilegiata hanno la possibilità di un minimo di produzione sul palco, che si traduce in alcune pedane illuminate abbastanza minimal e qualche luce colorata ai lati (oltre a Will Ramos a godersi il set all’estrema destra).
Salta più all’occhio l’abbigliamento di Sam Carter, che sceglie di vestirsi interamente di bianco, staccandosi di netto da chiunque andrà a calcare il palco durante la giornata. Carter sarà proprio il fulcro dell’esibizione, dimostrandosi il punto di forza della band con una prova vocale vicina alla perfezione, con le sue clean urlate e graffianti che ammaliano i presenti, così come avviene quando il frontman alza un bicchiere di Aperol Spritz generando il boato tra il pubblico.
Il cantante riesce comunque ad aizzare la folla creando non solo picchi emotivi, ma anche momenti più movimentati, come i cinque circle pit o l’onda di crowd surfing su “Impermanence”, che vedrà la partecipazione di Scott Kennedy (Bleed From Within).
Curioso come nonostante la recente uscita di “The Classic Symptoms of a Broken Spirit” il set sia basato abbondantemente sul precedente “For Those That Wish to Exist”, disco con cui la band ha dimostrato di saper diversificare con successo il proprio sound e che ha un’eccellente resa in sede live. Rivederli da protagonisti in un grande club sarà davvero un piacere. (Maurizio Borghi)
Un’ora di pausa per completare l’allestimento del palco degli headliner, unico momento in cui incontreremo file per approvvigionamento di cibo e (in misura decisamente minore) bevande. L’arena si è riempita costantemente e il colpo d’occhio è importante, con un’hype che sale e l’elettricità che si respira in maniera palpabile quando tutti si mettono a cantare “Walk” dei Pantera in diffusione, mentre si prende posto prima dell’epilogo di questa lunga giornata.
La situazione in casa SLIPKNOT è parecchio tormentata ultimamente, con la fresca uscita del tastierista Craig ‘133’ Jones (sempre misteriosa e senza dichiarazioni di quest’ultimo a riguardo) e l’assenza di Shawn ‘Clown’ Crahan per motivi familiari.
Oltre a questo andremo a scoprire che anche Corey Taylor non sarà al 100% delle sue potenzialità vocali, gettando un po’ di preoccupazione su quella che dev’essere per forza la ciliegina sulla torta di questo festival autointitolato. Dopo un’attesa prolungata, il tendone scopre il solito palco delle ultime esibizioni, dove viene proiettato il sinistro video coi manichini di “Death March”, seguito da “Prelude 3.0”.
Il vero inizio, quando la band attacca “Blisters Exists”, coincide col caos puro: i suoni sono potentissimi, alti e puliti, con la batteria di Weinberg che spadroneggia e fa tremare i volti delle prime file. La formazione intera parte da zero a cento, mandando i motori immediatamente fuori giri e causando una vera e propria esplosione tra i presenti. “The Dying Song” bissa il delirante inizio, dando modo al pubblico di sgolarsi , e “Liberate” fa piombare di nuovo l’arena nel caos più totale. La prima sorpresa arriva con “Yen”, che smorza quella che è stata sino a quel momento un vero e proprio assalto sonoro, con un’esecuzione accompagnata da visual ipnotici.
Il cuore del concerto trova un susseguirsi di hit come “Psychosocial”, “The Devil In I”, “The Heretic Anthem” e altre, fino alla vera chicca della serata a concerto inoltrato, una “Snuff” da pelle d’oca che non compare proprio spessissimo nelle setlist dei nostri. Con ben sei estratti dal debutto, la scaletta di stasera si dimostrerà parecchio selvaggia, nonostante le frequenti pause che segneranno lo show possiamo dire che i ritmi sono stati sempre sostenuti.
La voce di Corey ha retto ampiamente, bestemmioni compresi, e anche se l’assenza di Clown si è fatta sentire (anche nelle doppie al microfono) il solito Tortilla Man ha fatto il doppio turno, fornendo intrattenimento continuo e dimostrandosi degno erede di Sid Wilson nel ruolo di scheggia impazzita. Da segnalare anche un Jim Root scatenato e un Seven molto dimagrito ma sempre cattivo ed imponente. Chi ha l’occhio più fino inoltre avrà notato la maschera speciale di Jay Weinberg, una variant realizzata da Enrico Palma ispirata al celebre orco del Parco dei Mostri di Bomarzo.
“Duality” e “Spit It Out” chiudono in maniera eccellente uno spettacolo simile a quello dell’anno scorso a Villafranca, forse un po’ più caotico e con qualche pausa tattica in più, che permette di mantenere saldamente lo strapotere degli Slipknot in sede live.
Per quanto riguarda il Knotfest, tirando le somme, possiamo parlare di un bel successo: gli accorsi sono almeno il doppio della data di Villafranca, inoltre l’evento ha dimostrato che finalmente c’è spazio anche per la frangia più moderna ed alternativa del metal, con lo spiraglio di un ricambio generazionale che per troppo tempo non siamo riusciti nemmeno ad intravedere. Oltre all’abbassamento dell’età media abbiamo notato, finalmente, anche una cospicua fetta di pubblico femminile e, all’alba del 2023, qualche timido accenno di multietnicità. Ai tempi dell’Ozzfest un festival del genere era un sogno dalle nostre parti, vedere inoltre come il nostro paese sia stato scelto in Europa dopo Germania, Francia e Finlandia ci riempie di orgoglio: tirando le somme possiamo definire questo Knotfest Italy un evento storico.

DESTRAGE

BLEED FROM WITHIN

NOTHING MORE

LORNA SHORE

I PREVAIL

AMON AMARTH

ARCHITECTS

SLIPKNOT