Report a cura di William Crippa
Foto a cura di Francesco Castaldo
“Head è tornato!”, questa è la parola d’ordine per il concerto di stasera dei Korn all’ippodromo di Milano, non tanto perché ci sia mancato particolarmente, ma perché il suo ritorno promette un concerto basato sui grandi classici della band, tralasciando le ultime bestemmie sonore rilasciate (ancora non riusciamo a credere che “The Path Of Totality” sia davvero uscito sul mercato!). Di supporto i Bullet For My Valentine, alle prese con un altro headliner scomodo dopo quanto avvenuto al Gods Of Metal torinese (la lapidazione è stata mancata di poco quella volta!) ed i Love And Death dello stesso Head. Si prospetta una serata interessante.
LOVE AND DEATH
Ore 20 precise, è il momento dei primi ospiti speciali del tour, i Love And Death, guidati proprio da “Head” Welch in qualità di frontman. Sono solo cinque i brani per loro, per presentare il disco di debutto “Between Here & Lost” (anche se aspettarsi qualche estratto dalla carriera solista di Brian era lecito), uscito nel gennaio di quest’anno. Si parte di cattiveria da “Paralyzed”, seguita a ruota da “Meltdown”; la band è assolutamente in forma e il nu metal di scuola Korn (ovvio) piace molto ai fan presenti. Welch incita il pubblico, gridando “qui non ci sono fan dei fottuti One Direction, vero? Qui non ci sono fan del fottuto Justin Bieber, vero? No, qui ci sono solo fottuti metalhead!”, lanciando “Whip It”. La band è fortissima, con J.R. Bareis e Michael Valentine (quest’ultimo davvero curioso alla vista, quasi completamente coperto sul corpo, sul viso e sul basso da nastro isolante bianco) davvero in forma. Prima di chiudere con “Chemicals”, Head chiede un applauso per i Love And Death, poi un applauso per i Bullet For My Valentine, che seguiranno, ed infine un applauso per gli headliner, i Deftones (è uno scherzo ovviamente), restando a guardare il pubblico che in coro inneggia ai Korn. Concerto davvero convincente per la band, che speriamo di rivedere in futuro, magari con più spazio a disposizione.
BULLET FOR MY VALENTINE
Arriva il momento dei britannici Bullet For My Valentine e i metallari più maturi si fanno da parte, momentaneamente, per lasciare spazio sotto il palco ai giovanissimi fan di Matt Tuck e soci. “O Fortuna”, incipit del “Fortuna Imperatrix Mundi” dal “Carmina Burana” di Carl Orff, introduce la band. L’impatto visivo è davvero sconsolante, dobbiamo ammetterlo: Moose alla batteria, con i suoi capelli tinti di biondo e la riga in mezzo, sembra la versione perversa di Nino D’Angelo, mentre Matt, ora con i capelli corti e la cresta, sembra uscito da una parodia televisiva di “Amici” di Maria De Filippi. L’attacco è affidato a “Breaking Point”, ma è “Your Betrayal” che scatena il vero pogo sotto il palco. La band stasera è in buona forma e suona davvero forte i brani tratti in misura più o meno equa da tutti i capitoli della propria discografia, anche se appare abbastanza oggettivo che le canzoni estratte dall’ultimo “Temper Temper” siano abbastanza deboli e poco gradite. I giovanissimi sotto il palco non si risparmiano e pogano come se non esistesse un domani, e anche la band non si risparmia, con l’eccezione di Mike Kingswood, chitarrista degli Axewound, per l’occasione sostituto di Padge, assente per motivi di salute, monolitico ed immobile dall’inizio alla fine del set. Gli fanno da contraltare Matt, che ride, urla e spara frasi incomprensibili al microfono, e Jay, sempre energico ed in movimento. “Tears Don’t Fall” chiude una buonissima esibizione della band gallese.
KORN
Mezz’ora per il cambio palco, e le luci scendono per l’avvio di un filmato introduttivo, il quale alterna scene da telegiornali in diverse lingue a fotografie della band, al termine del quale Ray Luzier inizia a far tintinnare il ride, segno che sta per arrivare “Blind”, e a sorpresa, perché da sempre viene usata come pezzo di chiusura dello show; l’arrivo della band sul palco viene accolto dal boato del pubblico e Jonathan Davis, impugnando la sua storica asta del microfono, strilla il classico “Are you ready?”, segnale che dà il via al mosh feroce sotto il palco. Ci sono anche due maxischermi ai lati dello stage e vari cameramen nel pit impegnati a riprendere i musicisti (curiosità: Munky non sarà mai ripreso per tutto il concerto, tranne durante l’assolo di “Another Brick In The Wall”), e quasi necessari saranno a fine concerto i complimenti per il regista dal vivo, data la perfezione della regia di quanto si è potuto vedere sui megaschermi. La setlist di stasera è chiaramente basata sui vecchi album, poche sono le concessioni alla storia recente della band, e pezzi come “Narcissistic Cannibal” passano abbastanza in secondo piano; “Ball Tongue”, “Twist”, “Falling Away From Me”, “Did My Time” e addirittura “Helmet In The Bush”, con il pubblico che è a mille davvero. È tempo di considerazioni e, al solito, Ray e Fieldy sono stati magici, davvero perfette macchine da guerra, così come Jonathan, vocalmente in gran forma, anche se, come suo uso, non ha guardato mai il pubblico per tutta la durata dello show; discorso differente è quello che va fatto per le due chitarre, con Munky che per tutta la durata del concerto, concentratissimo, ha retto da solo la baracca, mentre il redivivo Head è stato del tutto ininfluente, più impegnato in pose ed espressioni al pubblico (e nel tirare plettri, perché da dove eravamo noi era facile contarli, ne avrà lanciati almeno trenta, che gli venivano forniti da un roadie in blister da sei ogni volta che li finiva, per diciannove canzoni) che nel suonare. “Another Brick In The Wall” al solito è fantastica e ci porta alla pausa prima dell’encore, costituito da “Get Up!”, “Got The Life” e “Freak On A Leash”, che mandano tutti a nanna.