Report a cura di Giacomo Slongo
Foto a cura di Francesco Castaldo
La serenità della sofferenza. O il modo migliore per ricongiungersi al proprio passato e intercettare sapientemente i gusti del pubblico. Inutile negare che con il loro dodicesimo disco in studio, il suddetto “The Serenity of Suffering”, i Korn abbiano messo a segno un colpo notevole, riscoprendo l’animo tormentato che ne aveva decretato il successo proprio quando il loro genere di appartenenza, l’amato/odiato nu metal, sembra stia riacquistando terreno tra le nuove leve (basti pensare a King 810, Emmure e Cane Hill). Sincero amarcord o mossa paracula? Non è dato saperlo, sta di fatto che Jonathan Davis e compagni si ritrovano con i fari puntati contro come non accadeva da diverso tempo a questa parte, e che l’unico appuntamento italiano – previsto all’Alcatraz di Milano – ha fatto registrare un sold out degno dei tempi d’oro, complici anche la posizione festiva e la presenza di supporter non esattamente di primo pelo…
HELLYEAH
Gli Hellyeah di Vinnie Paul e Chad Gray vanno presi per ciò che sono: cinque cafoni con una passione sfrenata per l’immaginario del Texas – fatto di birre, cappelli da cowboy, costolette e spogliarelliste – e quel metal da classifica che tanto piace al pubblico statunitense, carico di groove e perfetto per un party a bordo piscina. La loro musica non si presta a nessuna lettura approfondita, è tutta lì, in superficie, e come tale va assimilata, soprassedendo sulla ripetitività in sede di songwriting e su un modo di porsi on stage a dir poco esagerato e pacchiano, che coinvolge i giovanissimi (nel pit è tutto un susseguirsi di corna alzate e incitamenti) e fa sorridere gli spettatori più navigati. La band è comunque in forma, suona compatta e con la dimestichezza di chi può vantare anni di esperienza alle spalle, trascinata dal drumming energico e gradasso di Paul e dall’ottima prova al microfono di Gray, a proprio agio sia nello screaming anselmiano di anthem come “Demons in the Dirt” e “Sangre por Sangre (Blood for Blood)” che nel pulito della semi-ballad “Moth”, a cui sembrano mancare solo gli accendini per il completamento del quadro. Una mezz’oretta senza troppe pretese che avrà sicuramente divertito i fan di Five Finger Death Punch, In This Moment e compagnia alternative/modaiola, con una menzione speciale per i dreadlock del frontman, veramente fuori tempo massimo.
HEAVEN SHALL BURN
Si sale prepotentemente di livello con l’arrivo sul palco degli Heaven Shall Burn, mosca bianca della tournée che, tanto per cambiare, si rende protagonista di una performance adrenalinica e contagiosa, purtroppo inficiata da suoni non sempre all’altezza della situazione. Assenti dal capoluogo lombardo da tempo immemore (ricordiamo ancora l’annullamento last minute della data con Hypocrisy e Dying Fetus al Live Forum di Assago), i cinque tedeschi si presentano umili e sobri come da tradizione, lasciando alla grandeur sinfonica dell’intro “Awoken” il compito di spianare la strada a quella che è forse LA hit per eccellenza del loro repertorio, “Endzeit”, episodio perfetto per innescare le polveri della setlist e scatenare un po’ di sana violenza all’interno della sala. Tutto molto bello e incoraggiante, peccato solo per un settaggio barbaro delle chitarre che trasforma i primi minuti in un assalto impastato e lontano anni luce dalla potenza bombastica che sarebbe stato lecito aspettarsi, con grande rammarico di chi non vedeva l’ora di scatenarsi all’urlo ‘We are, we are, we are the final resistance’. I Nostri comunque non sembrano dare troppo peso alla cosa, e trascinati da un Marcus Bischoff in grandissima forma (a lui la palma di miglior intrattenitore della serata) macinano riff e ritmiche da demolizione totale come se non ci fosse un domani, riuscendo a smuovere anche i non avvezzi al ‘metalcore senza voce pulita’ e ad imporsi come band vincitrice del bill, tra una “Combat” che risuona a mo’ di colpo di mortaio sulle nostre teste e una “Behind the Wall of Silence” a ricordare i fasti dell’indimenticato capolavoro “Whatever It May Take”. Occasione sfruttata appieno? Noi diciamo di sì!
KORN
Il confine tra passione e mestiere è spesso labile, difficile da stabilire e sempre e comunque in balia dei giudizi soggettivi. Le cose si complicano ulteriormente in sede live, dimensione in cui l’emotività e le sensazioni di pancia possono portare a conclusioni diametralmente opposte. Noi, nel giudicare l’ennesima calata italica del combo di Bakersfield, proveremo a porci nel mezzo, descrivendola sia con gli occhi di chi grazie a certe canzoni ha scoperto un mondo intero (quello della musica pesante), che con lo sguardo freddo e razionale del ‘critico’ di turno, per un bilancio il più possibile vicino all’oggettività del caso. Ebbene, come hanno suonato i Nostri? Compatti, precisi e senza alcuna sbavatura, con un occhio di riguardo per quel mostro dietro alle pelli che risponde al nome di Ray Luzier, in grado di rubare la scena al nucleo storico composto da JD, Munky, Head e Fieldy. La scaletta ha soddisfatto le attese? Quando apri con “Right Now” e chiudi con la doppietta “Falling Away From Me”/“Freak on a Leash”, passando in rassegna la quasi totalità di “Greatest Hits Vol.1” nel mezzo, non potrai che accontentare tutti, dai die-hard fan allo spettatore generalista di MTV (RIP). Sono riusciti a coinvolgerci e a farci tornare ragazzini con il cavallo basso e le Stan Smith ai piedi? Ni. Perchè se è vero che lo show rientra senza dubbio nella categoria ‘ultra professionali e curati’, è altrettanto vero che il quintetto californiano (cui si aggiunge il tastierista Zac Baird, a soddisfare la sete di modernità di Davis) si esprime palesemente al di sotto del suo potenziale, centellinando le energie e arrivando a rallentare buona parte degli episodi della setlist. Vero, il groove ne giova e chi ama cantare strofe e ritornelli avrà sicuramente apprezzato la scelta, ma sentire la suddetta “Right Now” o le varie “Here to Stay”, “Word Up!”, “Y’All Want a Single” e “Make Me Bad” in questa versione da defaticamento in palestra ci fa rimpiangere il concerto al Rock am Ring 2007 registrato su VHS dieci anni fa, quando Davis era ancora sovrappeso, sfoggiava senza timore il tatuaggio HIV sulla spalla flaccida e non era in cerca della linea vocale perfetta. Il pubblico comunque non va troppo per il sottile e omaggia i propri beniamini a suon di pogo costante e cori che a tratti sovrastano l’impianto audio, scandendo i ritmi di una performance che – nonostante qualche ombra – non esitiamo a definire riuscita. Alla prossima.