A cura di Marco Gallarati
Domenica 13 febbraio 2011: la Redazione di Metalitalia.com, nei panni di chi scrive, approda per la prima volta in quel dell’incuriosente Apartamento Hoffman di Conegliano Veneto, locale davvero carino situato nella zona industriale del paesotto trevigiano. Arrivano i crescenti Kylesa, forti di un lavoro spettacolare quale l’ultimo “Spiral Shadow” e di una popolarità che sale pian piano album dopo album, e siamo più che ansiosi di rivederli all’opera dopo la performance devastante del Summer Breeze 2010. Ad accompagnarli, oltre al support-act ufficiale, i poco noti norvegesi Okkultokrati, ci sono anche i nostri The Secret, rivelazione nichilista degli ultimi anni. Tra atmosfera elegante, tappeti, luci soffuse, arredamento e poltroncine più da lounge bar che da locale metal, ci apprestiamo a seguire un evento sicuramente piacevole, ma non certo baciato da una forte affluenza di pubblico…
THE SECRET
Siamo infatti una trentina quando i triestini The Secret si spostano dal banchetto del merchandise per salire sul palco, alto giusto poco più di un gradino e non esattamente enorme. La distanza tra mixer e stage sarà appena sopra i cinque metri, quindi in pratica sembra di stare in sala prove tra amici. Ed è bello così. Birra in mano, un palo come sostegno, un’avanguardia-una (intendi: uno spettatore) a dimenarsi come ossessa e via che la band, dopo il lungo prologo di “Cross Builder”, si lancia in trenta minuti di corrosivo blackish crust-hardcore negativo e intransigente, che ha guardato in faccia senza paura gli astanti e li ha scherniti attraverso un ghigno ostile e assordante. La voce di Marco Coslovich non è emersa molto dall’acustica limitata della venue – problema che si ripeterà poi anche per le altre formazioni – ma la sensazione catartica e purificatrice del suono dei The Secret è rimasta intatta. Gran lavoro del batterista Christian Musich, ma, per le condizioni in cui si è esibita, tutta la band ha dato il meglio di sé e si è meritata gli applausi della misera ma attenta audience.
OKKULTOKRATI
I marcissimi norvegesi Okkultokrati salgono sul palco in visibili condizioni instabili. Il più controllato pare essere il bassista Le Ghast, mentre il vocalist Black Qvisling (?!?) si regge a fatica in piedi, tanto che precipiterà pesantemente sulla batteria di lì a breve. Completamente grezzi e dozzinali, questi quattro ragazzi non dicono una parola e partono a suonare il loro hardcore imbastardito da black metal, doom e sludge, promulgato con un’attitudine punkoide che si riversa in pieno nella gestione della tenuta di palco, del tutto affidata al caso ed alla fortuna (di restare in posizione verticale). Davvero notevole il drummer Verminscum, che ha pestato una batteria minimale con una violenza invasata; ha anche suonato quasi tutto un brano – senza sbagliare – con la maglietta tirata su a coprirgli la faccia, ma questo è solo un dettaglio. Ci sono piaciuti tanto, quindi, gli Okkultokrati, ma l’impressione che abbiamo avuto è che da sobri sarebbero stati meno convincenti. Cercateli, comunque, o voi metallari marcioni!
KYLESA
Restiamo nella minuscola zona antistante al palco, durante il cambio set, per studiare bene l’armamentario esagerato dei Kylesa: oltre alle due batterie di Carl McGinley e Tyler Newberry – letteralmente incollate una all’altra per problemi di spazio – la band di Savannah porta on stage anche un mellotron (suonato dal bassista Corey Barhorst), un paio di tamburi supplementari e un Theremin (suonati da Phillip Cope), particolare strumento elettronico che sfrutta le frequenze del suono distorcendole tramite l’avvicinarsi e/o l’allontanarsi delle mani; Laura Pleasants, dal canto suo, si limita per così dire ad un reparto pedali-effettistica che è quasi da Guinness dei Primati. E’ chiaro da questa premessa come i Kylesa siano attualmente legati a doppio filo alla psichedelia Seventies, oltre che allo sludge più poderoso e all’hardcore lacerante. E la loro performance non può che essere l’esatto connubio di queste tre attitudini che governano i ragazzi, sebbene si deve ammettere che il trasporto e l’eccitazione con il quale si sono esibiti all’Apartamento Hoffman non siano stati del tutto di prim’ordine. A tratti apparsi svogliati e quasi costretti a risalire sul palco per un bis, Cope e compagni hanno comunque dimostrato di essere una formazione su cui contare ad occhi chiusi per il futuro, in grado anche di progredire ulteriormente ed in modo ampio. La setlist si è concentrata soprattutto su “Static Tensions”, con picchi raggiunti all’altezza di “Scapegoat”, “Running Red”, “Said And Done” e la stupenda “Only One”. “Hollow Severer” è stata un’altra bella mazzata, mentre i pezzi di “Spiral Shadow” sono stati altalenanti, con ad esempio un’esecuzione bruttina di “Tired Climb”. Dilatati, modificati, prolungati: alcuni episodi hanno beneficiato dell’approccio prog dei Kylesa, che hanno inserito assoli e rumori sparsi durante qualche sezione improvvisata. Insomma, diciamo che anche per loro le condizioni non sono state propriamente ottimali ed è verissimo che altre volte li abbiamo visti molto più brillanti; tutto sommato, però, il viaggetto fino al confine col Friuli è valso assolutamente la pena. La passione e la dedizione portano davvero oltre.