Ci sono band che appartengono completamente al genere che noi definiamo – con una certa approssimazione e un continuo spostamento dei confini – ‘metal’. C’è tutta una serie di gruppi che invece rimane costantemente ai confini del genere, entrandoci e uscendone a seconda della loro proposta artistica contingente (banalmente, un disco più o meno ‘metal’) e degli infiniti incroci che i generi in alcuni periodi realizzano.
Gli sloveni Laibach sono sicuramente fra questi: band di lunghissimo corso formatasi all’inizio degli anni ‘80, si è mossa per lungo tempo nei territori avanguardistici dell’industrial rock e dell’elettronica venata anche di pop e ha costruito un proprio percorso in ambienti limitrofi, salvo poi rientrare nel metal a pieno titolo in svariate occasioni.
Per citarne solamente due, la prima sicuramente fa riferimento agli anni ‘90, quando remixarono alcuni brani dei Morbid Angel in un controverso EP rimasto a suo modo storico; la seconda qualche anno dopo come influenza più o meno palese dei ben più noti Rammstein (i quali tra l’altro in dichiarazioni pubbliche non ne hanno mai rinnegato l’ascendenza). Passato però quel periodo di novità in cui Rammstein, Nine Inch Nails o Ministry sono entrati con una certa regolarità negli ascolti del cosiddetto ‘metallaro medio’, i Laibach sono un po’ spariti dai nostri radar, tornando invece negli ultimissimi anni nei bill dei festival estivi, come testimonia il loro set al Brutal Assault del 2024.
Quello che siamo andati a vedere, in quel di Bologna, è grosso modo lo stesso tour, ovvero la celebrazione del disco “Opus Dei” del 1987, rivisitato e ripubblicato proprio l’anno scorso. In quanto gruppo tecnicamente ai margini del genere, chi scrive non aveva mai visto i Laibach su un palco. Viste le premesse e la scaletta prevista però, ci siamo recati al Link con l’entusiasmo di chi non sa di preciso cosa aspettarsi.
Il Link di Bologna è una discoteca/club che ha ospitato parecchia musica elettronica e dark nel tempo, con qualche svisata verso territori più metallici. Personalmente, qualche anno fa, abbiamo potuto vederci gli Amenra nel loro tour acustico, in una situazione post-Covid parecchio surreale a livello di distanziamento sociale e quant’altro.
A distanza di poco più di un anno dalla loro ultima calata italiana, quando hanno musicato uno spettacolo teatrale di Bertold Brecht recitato in più lingue, i nostri sloveni tornano con una proposta decisamente più accessibile che abbiamo percepito come una buona occasione per capire come la band si pone sul palco.
Nessun gruppo di apertura è previsto per la serata e l’imponente palco del Link si anima attorno alle 22, un po’ in ritardo rispetto quanto annunciato; il locale può ospitare un paio di migliaia di persone – ci viene detto – e almeno mille paganti sono all’interno dell’ampia e alta sala centrale quando i LAIBACH prendono possesso del palco.
I primi brani sono completamente strumentali, con Luka Jamnik a sinistra e il membro fondatore Ivan Novak a destra, entrambi circondati da tastiere ed attrezzature elettroniche. Sullo sfondo invece troviamo il batterista Bojan Krhlanko e, diviso fra chitarra ed altra attrezzatura elettronica, Vitja Balžalorsky.
Dopo un alcuni minuti di musica strumentale, li raggiunge lo storico frontman Milan Fras (che insieme a Novak rappresenta l’ossatura storica dei Laibach da più di quattro decadi) e per ultima tocca alla voce femminile di Marina Mårtensson. La formazione che vedremo per tutto il concerto è completa, ognuno nella propria posizione, con solamente le due voci ad interagire – almeno un po’ – con il pubblico presente. Nonostante la staticità fisica, la performance dei Laibach è anche fortemente legata ai visual proiettati sullo sfondo, sugli enormi pannelli ai lati e ai giochi di luci giocati per la maggior parte sul rosso e sul bianco.
La prima parte del concerto si concentra su una serie di brani provenienti dagli anni ‘80, quali “Brat Moj”, “Država”, “Vier Personen” e “Boji”. I visual in questa parte di spettacolo glorificano per la maggior parte l’iconografia classica dei Laibach – immagine da sempre fraintesa e fonte di dibattito – legata alle dittature e a modelli di collettività radicati in periodi non sempre ricordati con piacere nei libri di storia. Musicalmente, invece, il loro rock industriale si mostra molto bene – in questo contesto – destrutturato come è, ma allo stesso tempo piacevole da ascoltare, nonostante la melodia sia spesso reinterpretata dalle linee vocali di Milan Fras che sono tutt’altro che canoniche. Difficile infine non riconoscere realmente le influenze che gli sloveni hanno avuto sui Rammstein.
Dopo quasi una decina di pezzi la band si congeda per un quarto d’ora – segnalato con un countdown sullo sfondo – per poi tornare ed eseguire il grosso di “Opus Dei”. Da questa seconda parte, anche per gli ascoltatori meno attenti sono evidenti altre due caratteristiche della band, ovvero l’amore per le cover e per la musica mainstream: piacevolissime sono la versione stravolta ma melodicamente fedele di “One Vision” dei Queen che diventa “Geburt Einer Nation”, la melodia portante di “Leben heißt Leben”, il ritmo incalzante di “Transnational” e i rimandi pop-rock di “How The West Was Won”.
A leggerne gli elementi costitutivi, è una proposta non facile quella dei Laibach, che riesce tuttavia sempre ad acquistare un senso compiuto nel risultato complessivo: sulla carta, sembra difficile che loop elettronici, batteria acustica marcata, alternanze di voci narrative, eteree voci femminili e sgraziati interventi baritonali possano funzionare così bene insieme, eppure i Laibach riescono sempre a massimizzare il risultato globale.
Finita la seconda parte, la band si accomiata per poi tornare per i bis ed un’ultima, sottile provocazione. Prima di tutto c’è posto per un brano molto recente, ovvero “The Engine Of Survival”, che posiziona gli ultimi Laibach in un rock cantautoriale acustico così rarefatto da avvicinarsi a certi Antimatter o ai progetti di Duncan Patterson. Seguono poi tre provocatorie cover, partendo da “Each Man Kills The Thing He Loves” di Jeanne Moreau, passando per “I Want To Know What love Is” dei Foreigner e “Strange Fruit” di Billie Holiday. Mentre sulla seconda i visual si spengono per inquadrare il pubblico presente, lo statement finale di “Strange Fruit” sono le rovine delle città post-Seconda Guerra Mondiale che, impercettibilmente, si trasformano in quelle di Gaza, acquistando colore sul finale. Abbinate al testo maledetto e disperato dell’immortale canzone di Billie Holiday, è stato difficile non cogliere un messaggio molto forte.
La band saluta e mentre usciamo non possiamo non pensare come, al di là della proposta musicale in quanto tale, i Laibach siano molto di più: visualità, accostamenti, provocazione, riflessione.
Se anche il filosofo Slavoj Zizek si è occupato del loro approccio provocatorio e del loro atteggiamento fortemente dadaista nel proporre immagini sia familiari che sinistre – senza poi mai giungere ad una spiegazione/scioglimento definitivi – vorrà pur dire qualcosa.
Da parte nostra, abbiamo vissuto un’esperienza arricchente da fare almeno una volta nella vita e che consigliamo ad ogni ipotetico ascoltatore di musica metal – ma anche solo agli amanti della buona musica con un messaggio non scontato.