A cura di Giovanni Mascherpa
Sono lontani i tempi in cui i Laibach facevano discutere per le sperimentalismo sconnesso della loro musica e provocavano il pubblico con un’estetica cara ai regimi totalitari. Il collettivo sloveno, passati i pionieristici Anni ’80, si è un poco alla volta affermato come un’entità più malleabile nei suoni, anche se pur sempre rigorosissima e unica nell’aspetto visuale e sotto il profilo ideologico. La produzione a firma Laibach è divenuta un simbolo della cultura occidentale, pervadendo anche l’ambito pittorico e quello filmico. Milan Fras e compari sono entrati nei musei di tutto il mondo, hanno suonato anche alla Tate Modern Art Gallery londinese e infine, sventolando orgogliosamente la bandiera dell’anticonformismo, eccoli tornare agli onori delle cronache per il già famigerato viaggio in Corea del Nord nell’estate del 2015, quando si esibirono nello stato più blindato del pianeta in occasione della Festa della Liberazione. Una mossa che ha riportato l’attenzione sulla band ben oltre i meriti delle ultime fatiche artistiche, un po’ ignorate fuori dalla stretta cerchia di fan perché, indubbiamente, l’impeto rivoluzionario si è ora affievolito a favore di un’orecchiabilità di fondo piuttosto marcata. Grave sarebbe però ridurre i Laibach attuali a una mera rivisitazione di un passato glorioso: il presente sarà pure meno radicale nell’impostazione, ma sa ancora regalare grande musica, come l’ultimo “Spectre” (2014) ha ampiamente dimostrato. Così, in una delle rare serate veramente fredde del gennaio milanese, ecco il Magnolia riempirsi nella sua sala più capiente per questo nuovo happening industrial. Doverosa menzione per il merchandise: l’oggetto più ambito era rappresentato dal poster dal taglio vintage del concerto nordcoreano, il resto degli articoli andava dalle tradizionali magliette (gran disegni, prezzo un po’ alto, 25 euro) a un finto passaporto dove vidimare gli eventi live del gruppo, un oltraggioso bavaglino (!), un blocco di sapone (!!) con una croce al centro e, imprescindibile, il tipico copricapo simil-colbacco del leader. Non è un caso che l’assembramento al banchetto sia rimasto costante per tutto il tempo precedente al concerto e abbia rallentato lo sciamare delle persone fuori dal locale al termine!
Deumanizzazione. Sarcasmo. Perversione ammantata di candore. Genio dissoluto sotto forma di patinate dissertazioni pop elettroniche. Invenzioni nate dal nulla e rimembranze di fredde ere digitali ora sepolte dalla sabbia del tempo. Stupore e incredulità. Si mescolano approcci, sensazioni, suggestioni antitetiche, impreviste e trancianti nell’ora e mezza di show del combo sloveno. Spezzato in tre tronconi, meticolosamente costruiti per non lasciare alcuna libertà di improvvisazione né di comunicazione con gli astanti, il concerto dei Laibach mette in scena un pensiero musicale aperto a mille contaminazioni, centrifugate da una sensibilità unica, quasi incomprensibile se si prendono in considerazione i singoli tasselli del puzzle. Chiara, lampante, se si pensa a quanto visto e udito nel suo complesso. In mezzo a vecchie star che razzolano gli ultimi danari della loro carriera proponendo liturgie consolidate, lise e convenzionali, solleticando il palato poco raffinato di fan troppo pigri per chiedere di meglio, fa specie constatare come qualcun altro, con oltre trentacinque anni di storia sul groppone, si permetta di infiocchettare una performance così particolare, eclatante nell’alternanza di orecchiabilità e farneticazioni, seduzioni e incubi. I Laibach godono nel gettare scompiglio, erompendo da dietro le quinte in una selva di rumori metallici assordanti, messi in fila dal batterista – bravissimo nel mescolare batteria analogica e pad elettronici – e dai due addetti ai synth ai lati del palco. Ma è quando entrano in scena la Bella e la Bestia, ovvero Mina Špiler e Milan Fras, che il quadro prende completamente forma. E si stempera in una freddezza di colori che contrasta spesso e volentieri con melodie di grana finissima, lasciate fiorire in un sostrato testuale e sonoro post-apocalittico, di nuova vita disincantata dopo un’irreparabile distruzione. La maschia crudezza di Fras, che gira attorno al microfono ieratico, senza manifestare alcuna espressione di compiacimento oppure di somatizzazione di quanto cantato, viene bilanciata dall’algida vocalità della Spiler, interprete meravigliosa, presenza scenica conturbante che sembra essere arrivata a noi da un film muto di inizio secolo. Nel suo caso la gestualità prende la forma di una mimica tragica, quella di una diva di teatro che incorpori il vissuto di mille personaggi differenti e ce lo restituisca con fedeltà interpretativa e allo stesso tempo con netto distacco. L’aspetto visuale è centrale nei Laibach: fra i filmati astratti in scorrimento sullo sfondo e le rasoiate di luci accecanti che travolgono il pubblico, si rimane intrappolati in una nube sensoriale sovraccarica di input. Splendidi i momenti in cui i fari puntano fissi su un solo musicista, lo pongono per pochi istanti al centro della scena e poi lo fanno riaccomodare nel blocco identitario della band, che esiste quale entità unitaria e rifiuta di presentarsi quale semplice somma d’individui. Una prima parte di soli sei pezzi chiusa dalla pirotecnica “Resistance Is Futile” lascia spazio a un break di dieci minuti, scandito dal conto alla rovescia apparso al posto dei filmati. Il rientro on-stage avviene con una lunga selezione delle molte cover proposte in carriera dal gruppo. Nel caso di “The Sound Of Music”, così come di tutte le altre suonate al Magnolia, parlare di cover risulta però azzardato: le versioni firmate dai Laibach sono a tutti gli effetti un’evoluzione drastica di un tessuto sonoro che va a perdere i suoi caratteri primigeni e diventa un semplice pretesto, un abboccamento, per entrare in un nuovo universo praticamente ignoto. Scorrono intanto immagini richiamanti il regime nordcoreano, fra propaganda politica del Caro Leader e spezzoni del documentario che vede i Laibach muoversi in Corea del Nord in occasione della loro visita. Il surrealismo raggiunge momenti di estrema estasi nella marcetta di “The Whistleblowers”, quando ai quattro microfoni i musicisti riproducono alla perfezione il fischiettio di apertura del brano. Le mosse spiritate della diva-Špiler su “Bossanova” scardinano la mascella a tutti i maschietti in sala, mentre l’olocausto industrial di “Life Is Life” durante l’encore frantuma quel poco di speranza alimentato dalle arie più candide elargite a piene mani nei minuti precedenti. Ogni saluto ed incitamento al pubblico è registrato, un modo per prendere in giro tutti quegli artisti che si sentono immensamente empatici nel proferire le solite due-tre espressioni a chi ha pagato il biglietto per vederli, manifestando al contrario una ruffianeria stucchevole. Scorrono infine le impagabili espressioni dei funzionari di partito accorsi al concerto dei Laibach per la Festa della Liberazione, tutti quanti divisi fra indifferenza, disgusto, voglia di scappare altrove. Noi invece non ce ne saremmo più andati, letteralmente soggiogati da un concerto spettacolare, di una bellezza indecifrabile e altera, che ci fa capire più di ogni ascolto meticoloso del loro materiale quanta grandezza vi sia nell’operato dei Laibach. Un gruppo per il quale il termine leggenda non è gettato lì per caso.
Setlist:
Smrt za Smrt
Now You Will Pay
The Great Divide
Brat Moj
Eurovision
Resistance Is Futile
Intervallo
Do Re Mi
Edelweiss
The Sound of Music
My Favorite Things
Walk with Me
The Whistleblowers
No History
Ballad of a Thin Man
Bossanova
See That My Grave Is Kept Clean
Encore:
B Mashina
Life Is Life / Leben heißt Leben