15 Dicembre 2005: chi ama le sonorità del metal moderno a stelle e strisce (New Wave Of American heavy Metal!) saprà di certo dove scaldarsi e fare andare un po’ le mani in un furioso pit. Al Rainbow Club di Milano arriva una bella carovana, destinata a lasciare il segno sui corpi e a sfondare qualche padiglione auricolare (legge permettendo, il batterista Chris Adler non ha gradito troppo le limitazioni durante il soundcheck, ndR!): i giovani The Agony Scene, i turbolenti Devildriver e i leader del “Pure American Metal” Lamb Of God sono pronti alla mattanza tanto attesa da parecchi. A ben vedere solo i Devildriver del discusso Dez Fafara passarono qualche anno fa in occasione dell’omonimo debutto, per gli Agony Scene è la prima volta a Milano e per i Lamb Of God il si tratta della prima volta in assoluto sul suolo italico, occasione in più per fregarsi le mani dinanzi a questa bella compagine distruttiva. Per tutto il giorno molti ragazzi hanno aspettato i componenti delle band fuori dal locale per autografi e foto, e davvero tutti questa volta sono stati accontentati dalla straordinaria disponibilità degli artisti, in cima a tutti il tanto discusso Dez Fafara, gentile e instancabile nel dedicarsi a tutti i supporter dal pomeriggio fino all’aftershow. “You know what to do…” ci dirà Randy!
THE AGONY SCENE
Gli Agony Scene partono alle otto spaccate, mentre il locale si sta ancora riempiendo e i primi arrivati stanno ancora disgelando con qualche drink. Si sta stretti sul palchetto del Rainbow senza lo spazio dedicato al mega drumkit del fenomenale Adler, ma gli Agony Scene non ci badano, e vedono di fare il loro dovere alla grande, anche senza tutte le comodità del mondo e non facendo caso ai malanni invernali. Molti corrono nelle prime file a guardarli con attenzione e altrettanti fanno attenzione al look dark dei ragazzi, qualcuno fa notare inoltre quanto sia ingrassato il frontman della band… Poco importano tutte queste chiacchere quando il gruppo intrattiene in maniera talmente buona come gli Agony. Senza strafare, coi pezzi dell’ultimo The Darkest Red, regalano una buona mezz’ora di violenza, con in primo piano proprio la voce di mister Williams, lacerante nel growl come coinvolgente nei melodici. “Prey”, “Scream Turns to Silence” e le altre non deludono affatto, dimostrando che lo stile c’è e la padronanza dei propri mezzi pure, e se le difficoltà della vita on the road non li faranno cedere di nuovo questi cinque potrebbero crescere davvero bene nella culla della Roadrunner Records.
DEVILDRIVER
Alle 21:00 sono arrivati tutti coloro che dovevano, il locale non esplode ma il pubblico è caldo, e prontissimo ad accogliere la non più nuova creatura di Dez, quei Devildriver che si sono confermati in maniera brillante con “The Fury Of Our Maker’s Hand”: un disco brutale, assassino, violento, veloce, aggressivo. Fafara avrà facilmente il dito puntato contro per il suo passato clownesco con gli odiatissimi Coal Chamber, ma salendo sul palco con tanta passione e determinazione ogni critica è vana, non può che essere annientata dalla furia onstage del quintetto. Dez è feroce come sempre, ma lo spettacolo è (finalmente) coadiuvato dagli eccellenti musicisti che lo accompagnano, giovani anch’essi ma dotati di una tecnica degna delle aspirazioni del leader. E’ un piacere sentire il tappeto sonoro delle drums di John Boecklin, in grado di ridicolizzare il passato e far sbattere la testa a tutto il pit, compresi i dubbiosi. La coppia d’asce non si dimostra da meno, soprattutto dall’ingresso in pianta stabile di Mike Spreitzer, innesto che ha letteralmente “salvato le chiappe” alla band nel tour con gli In Flames. Inutile dire che il fulcro dello spettacolo è proprio il demoniaco Dez, ora anche dimagrito e mai così in forma, che catalizza i riflettori e i flash dimenandosi e dimostrandosi un personaggio dal carisma inconfondibile, sul palco e non. “Nothing’s Wrong”, “I Could Care Less”, “Cry for me Sky”… sono tutte eseguite in maniera veemente ed impeccabile dal singer che sta diventando anno dopo anno una icona underground, e anche se il suo destino sarà per sempre lontano dai riflettori molti lo ameranno sempre in maniera incondizionata, compreso chi scrive.
LAMB OF GOD
Giunge il momento di scoprire se una delle band più monolitiche, chiaccherate, heavy, sponsorizzate, ignoranti e chi più ne ha più ne metta sia davvero capace sulle assi di un palco o sia piuttosto uno dei tanti bluff ben congegnati provenienti dagli US? Sul palco non si può mentire, almeno non più di tanto… Dopo qualche secondo però la smentita di ogni pensiero maligno arriva con le note dell’opener, l’impatto è paragonabile infatti a una “Batista Bomb” o ad un frontale contro un gatto delle nevi. Gli yankee non scherzano affatto, e sono decisi a farsi ricordare a lungo, basta guardare negli occhi il frontman: secco, alto, curvo ed accecato dalla furia vomita dall’inizio alla fine tutta la rabbia che ha in corpo, con la sua maglia di devilman (bellissima) e i capelli sul volto non perde l’occasione di incitare il pubblico al massacro, e dopo pochi minuti già si getta nelle prime file a tastare con mano l’energia dei fan. I presenti non ci pensano due volte a farsi del male in un pogo feroce come in disastrosi circle pit, ogni dieci secondi qualcuno è a terra grazie al pavimento bagnato, e anche chi scrive si porta a casa un discreto numero di lividi. La formazione non lascia nulla al caso, i suoni infatti si dimostrano più che buoni, soprattutto per il tragico passato del locale, unico difetto i volumi che avrebbero potuto donare una dimensione davvero imponente al già ottimo live show, ma non si può avere tutto dalla vita, le leggi lo vietano. Serissimi nella esecuzione dei pezzi, quasi a rimarcare l’importanza del rituale live, i cinque non perdono un colpo per i settanta minuti a loro disposizione, non sbagliando nemmeno una nota e proponendo una scaletta molto simile al live Killadelphia, probabilmente altro neo minuscolo: “Laid to Rest”, “Now You’ve got Something To Die For” e “Ruin” se ne vanno prima della metà dello show, e potevano essere forse dosate meglio, anche perché sono sicuramente i pezzi di maggior presa. Non manca un pezzo dei tempi in cui il gruppo si chiamava “Burn The Priest” (chissà perché han cambiato nome… ndR), per una scaletta che si dimostra davvero omogenea anche se poco ben distribuita. “Sapete cosa fare”, digrigna Randy in uno degli ultimi pezzi dimenticando che è la prima volta che il pubblico assiste ad un loro show, così il “Wall of Death”, chiusura violenta di ogni esibizione del gruppo, non viene bene come su DVD, ma poco importa. Impressionante la tecnica sfoderata, il suono hypergroovy e la capacità di resa onstage, oltre al carattere, caratteristiche che consacrano i Lamb Of God come i più credibili eredi dei Pantera di “Far Beyond Driven”.
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