Report a cura di Giovanni Mascherpa
Lodevolmente abitudinari nel frequentare i palchi italiani, quelli milanesi di preferenza, i Leprous ritornano a farci visita a qualche mese dall’uscita del nuovo “Malina”. Tempo sufficiente per capire se sia stata adeguatamente assimilata la svolta ‘semplificativa’ dell’ultimo disco e se il fedele pubblico del nostro paese abbia voglia di dare il consueto, caldo supporto ai norvegesi. Muta solo leggermente al rialzo la capienza della venue, da headliner – non contiamo l’apparizione a supporto di Devin Townsend di febbraio – Einar Solberg e compagni rimangono entità underground, anche se a confronto delle ultime apparizioni per i tour di “Coal” e “The Congregation” ci pare esserci un certo aumento di spettatori, segno di una graduale crescita di interesse nei loro confronti. Non deludono mai, i ragazzi nordici, nella scelta dei compagni di tour. In questa occasione, il ricco contorno prevede i già piuttosto noti Agent Fresco, che data la fruibilità della proposta sonora rischiano di essere la ‘next big thing’ del metal più commerciale; gli eclettici australiani Alithia, sperimentatori a largo raggio all’interno di un avant-garde progressive metal dai contorni labili e mutevoli; il trio strumentale degli Astrosaur, connazionale degli headliner, improntato a una ricerca prog che reinterpreta a suo modo le coordinate sludge di Mastodon e The Ocean. Purtroppo, un piccolo inconveniente non ci permette di seguire proprio costoro, mentre siamo perfettamente in tempo per testare qualità e ambizioni degli Alithia.
ALITHIA
Il tendone esterno del Magnolia non è esattamente il luogo più caldo dell’hinterland meneghino di questa stagione, anche se i disagi sono contenuti, a meno di non essere particolarmente sensibili alle basse temperature che proprio in questo lunedì di metà novembre hanno deciso di farsi vive con insistenza. Il palco sovrabbonda di popolazione, e strumenti, circostanza insidiosa soprattutto quando non si è headliner e i tempi per rendere perfettamente operativo l’armamentario disponibile sono fatalmente ridotti. Gli Alithia mettono assieme ben due postazioni tastieristiche – una provvista anche di set di percussioni – i relativi addetti si occupano anche delle voci principali, assieme alla special guest di questo tour, l’esile cantante russa Marjana Semkina, membro dei Iamthemorning accorsa in aiuto alla band australe a causa della defezione del suo cantante John Rousvanis. Sorpassati alcuni imbarazzi tecnici in avvio, con le voci inudibili e le chitarre impastate, appena la Semkina si manifesta a centro stage, catalizzando le attenzioni ed emergendo con le sue linee pulite dal poliedrico insieme, possiamo captare chiaramente l’estro avvampante nella formazione. Agli Alithia non fa difetto alcuno la voglia di sperimentare, i brani si sviluppano in vaste fiumane che profumano di psichedelia spaziale, in un’ottica pesante e moderna, comprendente un djent diluito e immaginifico, il prog compresso di scuola nordeuropea, l’impostazione rigorosa e monumentale del post-metal dei Cult Of Luna. Pesantezza e scorribande ritmicamente coinvolgenti mitigano le tentazioni all’astrattismo, che in alcuni casi portano al disorientamento e a una polverizzazione delle strutture di non semplice comprensione. L’alto tasso tecnico, l’interpretazione molto fisica e divertita dei musicisti – già idolo quel mezzo sosia di Chuck Billy di Jeffrey Ortiz Raul Castro, che a un certo punto si mette a sculettare come se ballasse la salsa – e la personalità della band la portano comunque a fare una gran bella figura, nonostante lo slot dedicato sia un po’ ristretto per chi vive di componimenti abbastanza dilatati come loro. Assolutamente da ritestare con un minutaggio più corposo a disposizione.
AGENT FRESCO
Dall’opulenza del combo australe al soffice tocco pop degli Agent Fresco, le distanze sono evidenti. Quel che arriva va in ogni caso a soddisfare una platea che, come i musicisti protagonisti della serata, ha l’elasticità mentale sufficiente per apprezzare tutte le sfumature del ‘menù’. Affacciatisi sul mercato italiano nella convincente data di supporto ai Katatonia di circa un anno fa, da noi ammirati in posizione abbastanza alta del bill al Complexity Fest olandese di febbraio, dove sono stati fra i più acclamati, i quattro islandesi non bucano nemmeno l’appuntamento del Magnolia. C’è solo da segnalare, fra le piccole mancanze, un leggero difetto di corposità dell’unica chitarra e qualche bruschezza non gradita della batteria, lievemente in alto nel mix. Poca roba, a dire il vero, fastidi avvertibili in prevalenza durante la prima manciata di pezzi. Così vicini, per dosi di melodia dispensate a iosa, a divenire una versione metallica dei Muse e sbarcare quindi in pompa magna negli stadi e nei palazzetti, gli Agent Fresco paiono invece ben contenti di rimanere un oggetto di dolcissima sofficità, un cuscino piumoso di zuccherosità che hanno però l’ardire di tramutarsi quando meno te lo aspetti in uno stacco in tempi dispari, un groove terremotante, uno scatto d’ira vocale. Arnór Dan Arnarson passeggia molleggiato ostentando una serenità beata ben rara da vedersi in questi contesti ed è tutto un gran sorrisi anche per gli altri tre, mentre ci sganciano addosso uno dietro l’altro piccoli gioiellini di sensibilità fiabesca, trafitti da cerebralismi pungenti e capricci stilistici. L’alzarsi di decibel tra il pubblico denota senz’ombra di dubbio alcuno il diffondersi del verbo, contagio impossibile da fermare quando si hanno in dote arie così toccanti come quelle di “Wait For Me”, “Dark Water” (le più celebrate) e “Bemoan”. Le sortite alle tastiere punteggiano di beatitudine il camaleontico chitarrismo di Þórarinn Guðnason, Arnór Dan Arnarson plasma la voce a suo completo piacimento, scalando le note in acrobazia fino alle sottigliezze di un avvincente falsetto. Anche se non mancano fulmini e saette, come quelle della tremenda “Angst”, che vale da avvertimento per chi non crede all’attitudine metallica della band. Anima dura che esce anche nell’unico inedito del prossimo full-length, pezzo articolato e avventuroso, tra i più movimentati proposti in setlist. Nel presentare “Eyes Of A Cloud Catcher”, dedicata al padre morto di tumore poco tempo fa, il singer sintetizza in un certo senso lo spirito del progetto, rifuggendo i pensieri di tristezza legati alla scomparsa del genitore e ponendo invece l’accento sui momenti belli vissuti assieme. Perché gli Agent Fresco a questo mirano, a offrire momenti di impagabile bellezza e serenità anche quando tutt’attorno infuria una tempesta e la notte pare tremendamente nera. Ormai una sicurezza.
Setlist:
Anemoi
He Is Listening
Howls
Pyre
Wait For Me
new song
See Hell
Angst
Bemoan
Dark Water
Eyes Of A Cloud Catcher
The Autumn Red
LEPROUS
I Leprous sono una di quelle band che non ci si stanca mai di vedere all’opera. Non solo per la precisione esecutiva, l’impeto, la partecipazione emotiva che traspare nonostante il contegno cattedratico dei musicisti. C’è anche e soprattutto la volontà di evolvere da un tour all’altro, offrendo una versione differente di se stessi rispetto alle precedenti apparizioni. Così, intanto che ci chiediamo come si affacceranno alla nostra attenzione e collimeranno negli intenti i pezzi di “Malina” allo scoppiettare tentacolare degli immediati predecessori, un violoncellista inizia a suonare, intersecando la sua tarantolata azione con quella di un’intro registrata. La line-up ‘regolare’ compare dopo qualche minuto e parte sicura nei tocchetti di fino della splendida “Bonneville”. Scelta idiosincratica e ardita nel ruolo di opener in “Malina”, conferma anche dal vivo quanto un avvio così soft possa essere impattante e dare un tocco di strana magia, superiore, se ci permettiamo, rispetto a una classica apertura ipertonica, a base di tempi sparati e chitarre caricate alla nitroglicerina. Tre schermi rimandano immagini evocative di quanto raccontato nelle lyrics, assieme agli incroci di luci creano un clima ovattato molto particolare, che porta al raccoglimento, come in passato coi norvegesi difficilmente poteva avvenire. La simbiosi fra musica classica moderna e gli smussati balzi d’umore rilucono di una luce soffusa e sempre preziosa anche nel melting pot ad alto tasso di alternative e pop di “Stuck”, quando la personalità del violoncello si prende pienamente la scena, nell’aristocratica planata finale. Contenere l’esuberanza e concentrarsi sui dettagli, quasi intangibili, è la missione compiuta in “Leashes”, che abbassa ulteriormente i battiti, costringe alla concentrazione, ad armonizzarsi a un ricamare setoso di note che si susseguono pacate e si fanno toccare appena dalla voce di Solberg, sicuro ed enfatico anche sulle note basse. Il vibrare dei corpi appare accentuato anche al confronto dell’apparizione invernale al Live Club di Trezzo sull’Adda, le pose da metallari esibizionisti i Leprous non le assumeranno mai, ma che ci sia molta più fisicità nel modo di stare sul palco è evidente. E anche dall’altra parte se ne accorgono, su “Illuminate” parte qualche accenno di mosh, inusuale se vogliamo per loro, pur sempre inequivocabile segno di apprezzamento. Repentino lo sbalzo nervoso, quando si accende la fiamma bluastra di “The Congregation”. Un passaggio drastico, non proprio un pieno sdoppiamento di personalità, ma quasi. Assistiamo a una duplice trasfigurazione, quella di chi suona e di chi ascolta, entrambi i fronti cambiano atteggiamento, adeguandosi l’un l’altro alla fustigazione scintillante prevista dalla tripletta “The Price”-“Moon”-“Rewind”. Indovinata l’idea di non escludere il violoncello di Raph Weinroth-Browne dal baccanale in corso, la sua inclusione porta sfumature inedite senza travisare il significato dei pezzi, incanalandosi in serpentine perfettamente omogeneizzate agli altri strumenti. Gli ossessionati richiami di “Rewind” portano su di giri prima di sconfinare nella quiete plumbea di “Malina”, simposio di sinfonie, velata tristezza, rassegnazione serena, che la band sa gestire al meglio, non forzando la mano per darle una veste più dura, piuttosto rispettando fedelmente l’equilibrata grazia del disco. Una camera di compensazione, introduttiva al dispiegarsi di un’infilata di brani pertinenti questa volta a “Coal”, che vede comparire se vogliamo episodi non così distanti, con le dovute proporzioni, dalla direzione di “Malina”. Come se un certo flusso umorale dovesse persistere e non troncarsi del tutto, accogliamo il glaciale lirismo di “Salt”, “The Valley” e “Echo”. L’inserimento di Robin Ognedal alla seconda chitarra si rivela un’ottima contromossa al recente abbandono di Øystein Landsverk, anche le caratteristiche sovrapposizioni vocali non deludono affatto, assumendo connotazioni stupefacenti, nonostante si conosca benissimo il modo di interagire delle singole voci. Solberg, nel suo stage-acting, si libera ora più volentieri dal confortevole approdo della tastiera, divincolandosi come un ossesso durante le parti strumentali più frenetiche. Per l’encore è tenuta in serbo “Mirage”, sincopaticamente frizzante come poche altre tracce dell’ultimo album, e la già classica “From The Flame”, diretta e martellante al punto giusto per assestare il colpo di grazia all’uditorio. Nulla da eccepire, inchiniamoci e basta.
Setlist:
Bonneville
Stuck
Leashes
Illuminate
The Price
Moon
Rewind
Malina
Salt
The Valley
Echo
Encore:
Mirage
From The Flame