Report di Giovanni Mascherpa
Foto di Simona Luchini
Pressoché unici nel portare avanti un tour, quello del ventennale, nel problematico dicembre 2021, periodo di rigurgito pandemico e caos generalizzato, che aveva nuovamente falcidiato i live in Italia e nel resto d’Europa, i norvegesi Leprous finalmente omaggiano il loro ultimo album “Aphelion”. Il disco, uscito nell’estate del 2021 e rivelatosi come il più distante dalla dimensione prettamente metal, segnava l’entrata definitiva in una nuova conformazione per la band, slegandola totalmente dai retaggi del passato.
Una versione intimista, dilatata e dai molti richiami a una forma di pop sofisticato, assecondante l’indole di cantautore dolente del suo leader Einar Solberg. La curiosità per questo concerto era quindi anche quella di vedere come il gruppo si sarebbe approcciato al pubblico, visto che a parere di chi scrive durante l’esibizione parmense nel tour di “Pitfalls” non tutto era andato per il verso giusto e la prestazione non era stata all’altezza dello splendido album uscito quell’anno (si era nel 2019).
A supporto del tour e ovviamente anche al Fabrique milanese due formazioni molto distanti tra loro, secondo un’eterogeneità alla quale i Leprous ci hanno spesso abituato nel costruire le date live: in apertura troviamo infatti i Kalandra, quartetto in parte norvegese, in parte svedese, artefice di un neofolk/ambient dalle sfumature alternative rock, realtà emergente con alle spalle un solo album vero e proprio (“The Line” del 2020), già assai noto nella fascia giovanile del pubblico, anche in virtù della visualizzatissima (su Youtube) cover dei Wardruna “Helvegen”; prima degli headliner, un manipolo di musicisti anch’esso di giovane età ma di ben altra rinomanza in ambiti metal, ovvero gli inglesi Monuments, passati per un parziale restyling sonoro con l’ultimo e più melodico “In Stasis”.
Una combinazione potenzialmente interessante, che difatti è già baciata da un’affluenza ampia nel locale quando i Kalandra vanno ad esibirsi, poco dopo le 19…
KALANDRA
Come accennato nell’introduzione, a dispetto di un orario non facilissimo per un lunedì sera c’è già una discreta folla ad accogliere i Kalandra. Il Fabrique è in versione dimezzata, con la parte di sala alle spalle del mixer non disponibile ed il colpo d’occhio, per chi sale sul palco, è già apprezzabile. Lo è numericamente e lo è anche nelle reazioni, perché i presenti seguono con attenzione e trasporto le delicate trame dei quattro ragazzi nordici.
La loro musica così eterea e impalpabile su disco diviene un pizzico più movimentata in sede live, guidata dall’esile e sicura presenza scenica della cantante Katrine Stenbekk. La sua voce fanciullesca e fiabesca è il punto focale di un tessuto sonoro piuttosto minimale, nel quale chitarra, basso e batteria compiono un lavoro fine e ben poco invasivo, dando giusto quel minimo di brio che avvicina la proposta a scenari più prettamente rock. Nella mezz’ora a disposizione il quartetto va in crescendo, iniziando da trame particolarmente soffuse e dormienti, per arrivare verso la fine a materiale più ritmato e arrembante, sempre in proporzione allo stile della casa, ovviamente.
Con nostra sorpresa, il pubblico conosce piuttosto bene la band e le tributa un’accoglienza calorosa, sia durante le pause tra un pezzo e l’altro, sia durante le singole canzoni, salutate non come novità ma come qualcosa di già noto e apprezzato. C’è evidente sintonia tra musicisti e audience, nonostante la nostra poca dimestichezza con queste sonorità i ragazzi, per due quarti – bassista e chitarrista – dei mezzi sosia dei Sòlstafir, ci convincono e portano a casa un’esibizione gradevole e riuscita in ogni aspetto.
MONUMENTS
È un’impostazione decisamente più carica quella che contraddistingue i Monuments, già arrivati con “In Stasis” al quarto album. Carichi, sciolti nelle movenze e rodati da anni di intensi tour, gli inglesi impattano meravigliosamente bene con la platea, desiderosa di sentire sulla viva carne l’impatto della band.
A dispetto dello smussamento di asperità udito nell’ultima prova in studio, dal vivo i Monuments non sono di quelli che ci vanno leggeri, tutt’altro. Sparare “I, The Creator” subito in apertura, dando quindi in pasto un episodio particolarmente crudo e diretto della propria discografia, conquista immediatamente i favori dei convenuti, aprendo addirittura le danze per del sano mosh, non vastissimo rispetto al totale del pubblico, ma apprezzabilmente acceso.
Pur restando preferibilmente sull’ultima fatica in studio, i quattro non lesinano nulla quanto a energia, foga e sentimento. Il frontman Andy Cizek, oramai alla ventiquattresima data del tour, come ci tiene a ricordare lui stesso, è bene calato nel ruolo de frontman carino, simpatico ma irrimediabilmente devastante; la sua prova vocale non denota incertezze né sul pulito né sul growl/urlato, ed è in quest’ultima veste che lo apprezziamo maggiormente, a dire il vero.
Il buon bilanciamento tra melodie arieggiate e leccate e sprazzi djent-core carichi di groove è gestito molto bene, complici anche suoni all’altezza e un’interazione tra i musicisti sciolta ed esente da pecche. In questa sede, pur attenti a far risaltare ritornelli piacenti ed estro strumentale, il gruppo ci va giù ben pesante e bastona con un bel misto di graziosità progressive e tracotanza metalcore. Adrenalina a mille quindi, con diverse richieste di questo o quell’altro brano urlate dal pubblico, evidentemente preparato e voglioso di veder esplorata a più non posso la discografia dei ragazzi. Nonostante cinque brani su otto arrivino da “In Stasis”, ciò non solleva doglianze, data la caratura della prestazione.
Il tempo purtroppo è quello che è, in poco più di quaranta minuti c’è da chiudere bottega, non prima della cinematografica, epica e fascinosa “The Cimmerian”, con tanto di comparsata sul finale del violoncellista dei Leprous Raphael Weinroth-Browne, per una coda strumentale carica di pathos. Concerto davvero positivo, che avrebbe meritato anche maggior spazio, ce ne fosse stato il tempo.
LEPROUS
Puntuali sulla tabella di marcia e accolti da un’ovazione degna di tal nome, Einar Solberg e compagni si appropriano dell’ampio palco del Fabrique con i modi affettati, calmi e accorti delle ultime prove in studio.
Se durante il tour di “Pitfalls” ci era sembrato di vedere Einar Solberg fin troppo al centro della scena, relegando i valenti compari a un ruolo di mero contorno, questa volta l’intreccio strumentale e il modo di stare sul palco di tutti quanti appare ben più armonioso e coeso. Simen Daniel Børven, bassista, Robin Ognedal, chitarrista, danno fondo a tutte le loro camaleontiche doti di strumentisti e interpreti vocali, alternandosi ai loro strumenti di principale competenza, alle tastiere/sintetizzatori e alla voce, coadiuvando splendidamente, ognuno con la sua caratteristica vocalità, l’ampio range vocale del frontman.
L’ondeggiare di synth in primo piano, a mettere in seconda posizione di importanza le chitarre, rende il clima dolcemente ovattato, complice l’idea di partire con una serie di canzoni collocate nella zona melliflua e sospesa del repertorio. “Have You Ever?” posta in apertura, “On Hold” e “Castaway Angels” dipingono un’atmosfera inconfondibile, ad avviso di chi scrive ancora più efficaci in questa sede che su “Aphelion”, complice la morbida, fluida fisicità con la quale i musicisti stessi accompagnano tali sofisticati languori. Con “The Price” a tenere alta l’adrenalina e con un comparto luci non esagerato ma efficacissimo nell’aggiungere spettacolo a una performance decollata in fretta per precisione ed emozionalità, a irrorare energia e far sgolare ci pensano “From The Flame” e “Alleviate”, tra le canzoni più facili e di veloce assimilazione dell’ultima fase di carriera.
Dopo circa tre quarti d’ora Einar ha bisogno di rifiatare e chiede alla platea cosa voglia sentire a quel punto, limitando la scelta a un brano tra quattro offerti, con decisione presa a seconda delle alzate di mano, tipo assemblea sindacale o giù di lì: nel nobile quartetto formato da “Mirage”, “Distant Bells”, “I Lose Hope” e “The Cloak”, è quest’ultima a spuntarla di poco, forse anche per il desiderio di andare un poco indietro nel tempo e non limitarsi agli ultimi album da parte dell’uditorio. Suonata impeccabilmente e immergendoci in un momento altamente visionario e labirintico, come da qualche anno a questa parte i Leprous più non sono, “The Cloak” contribuisce ad alzare ulteriormente il livello della serata, infondendo quello spirito prog avanguardistico e bombastico di cui i norvegesi sono stati artefici almeno fino a “The Congregation”.
Dopo una prima parte eccellente, i Leprous hanno addirittura la capacità di inserire marce ancora più alte, proponendo una “Acquired Taste” spettacolare – peccato solo che le chitarre non avessero il tipo di distorsione e compressione di “Bilateral”, per la scelta di essere più educate e in linea con le prove recenti – una “Below” commuovente e un’altrettanta felice rappresentazione di “Nighttime Disguise”. Il bis è ancor più altisonante, perché “The Sky Is Red” in questa cornice, con le luci rosse e bianche a mettere completamente in controluce i musicisti, liberi di dar sfogo a tutto il proprio impeto ed entusiasmo, quasi toglie il respiro e riempie di un misto di esaltazione e beatitudine un’audience che, dopo un’ora e tre quarti circa, andrebbe tranquillamente avanti all’infinito (o suppergiù) a seguire il sestetto.
Invece è ora di accomiatarsi, sicuri di aver visto all’opera una delle migliori rappresentazioni di metal colto e sperimentale oggi in circolazione. Passano gli anni, cambiano le vesti sonore, il modo di stare sul palco, le scalette e anche chi frequenta i loro concerti – percettibile l’ampiamento e ringiovanimento del fan medio della band – i Leprous veleggiano costantemente sulle ali dell’eccellenza. Una serata magica.