Report a cura di Giovanni Mascherpa
Hanno cavalcato l’istrionismo in lungo e in largo; hanno plasmato nuove dimensioni sonore; hanno catturato dai maestri Ihsahn e Devin Townsend il gusto per la complicatezza scorrevole, attinto al mare magnum del progressive, incanalato il desiderio di stranezza in una musica poliedrica ma coerente, e scorrazzato a passo rapido per la scena metal contemporanea, costruendosi un’identità inconfondibile nel giro di quattro album. L’ultimo, “The Congregation”, ha puntellato e ampliato quanto già sapevamo dei cinque norvegesi, sempre più ricchi di idee, capaci di far erompere dal nulla fastosi scenari digitali, pulsanti una vitalità futuristica implacabile. Una summa di pensieri e idee, quella dei Leprous, che ricomprende avanguardismo, follia, delicatezza e teatralità sotto un unico tetto, dove tali elementi convivono così bene da fondersi in canzoni con riferimenti oramai sfumati e denotanti una visionarietà tutta propria. I Leprous non mancano mai di frequentare i nostri palchi nei loro tour: a due anni dalla sfolgorante apparizione al The Theatre di Rozzano, rieccoli in area milanese, in un Legend già ben affollato quando vi facciamo ingresso per le otto di sera. Il piatto di contorno è piuttosto abbondante, partendo dai milanesi Dropshard (purtroppo persi), passando poi per i Rendezvous Point, dove militano il chitarrista Petter Hallaråker e il batterista Baard Kolstad dei Leprous stessi, e gli Sphere, che si riveleranno essere un po’ fuori contesto con una proposta nettamente più estrema dei compagni di tour. Eccovi le nostre impressioni sul profluvio di sonorità cerebrali che abbiamo avuto il piacere di ascoltare.
RENDEZVOUS POINT
In attività dal 2010 e all’esordio discografico quest’anno con “Solar Storm”, uscito in pratica in corrispondenza di questo tour (2 ottobre), i Rendezvous Point sono a tutti gli effetti una novità a questi livelli e avendo in formazione due membri dei Leprous le aspettative non possono essere modeste. Osservando le reazioni di chi abbiamo vicino ci pare che un minimo di conoscenza di quanto andiamo a sentire un congruo numero di persone ce l’abbia, in quanto non notiamo la tipica freddezza riservata ai newcomer assoluti senza alcun pedigree, tutt’altro. Le movenze un poco timide dei ragazzi non disturbano: da un ensemble prog non ci si aspetta per forza un atteggiamento battagliero, il solo cantante Geirmund Hansen prova a metterci un certo impeto nel sottolineare le sue estese linee vocali, e per quanto riguarda l’intrattenimento può bastare. Sul piano musicale, ci troviamo dinnanzi una band che rimescola con discreta fantasia le regole base del progressive moderno, affidandosi in prevalenza a schemi riflessivi, dove la chitarra dona un’impalcatura solidissima, la batteria si inalbera in pattern jazzati e le tastiere sganciano strali di freddi synth su canzoni molto controllate, trattenute, dove i non detti sono importanti quasi quanto quello che percepiamo alle orecchie. È un prog che sa sottrarre oltre che aggiungere, quello dei Rendezvous Point, che un po’ concede al tepore dei primi Pain Of Salvation e un po’ preferisce un asettico turbinare in linea proprio con alcune divagazioni pacate dei Leprous. Tolta la suite conclusiva “Mirrors”, ci colpiscono dei momenti della performance piuttosto che i brani nella loro interezza, i frutti sonori sono già saporiti ma un pelo acerbi e non avvincono fino in fondo, anche se il giudizio complessivo risulta essere ampiamente sufficiente.
SPHERE
Al primo attacco di chitarre ipercompresse capiamo benissimo che la musica degli Sphere c’entri poco o nulla con il contesto di questo tour. Non sappiamo chi li abbia scelti per condividere il palco coi Leprous, certo che lo stacco con gli headliner è brusco non soltanto per la diversa matrice sonora d’appartenenza, quanto per una caratura artistica largamente deficitaria. Sarà che il sottoscritto mal digerisce il djent, quindi il peso del suo giudizio diventa molto relativo quando ha davanti un certo tipo di gruppi, però va detto che i giovani norvegesi non denotano chissà quanta fantasia nell’elaborare i pezzi e si rifugiano immancabilmente nei clichè del genere di appartenenza. Via libera quindi a rallentamenti groovy leggeri come ghiaia rovesciata in testa, squarciati da strappi poliritmici che fanno tanto ‘vorremmo essere i Meshuggah’, e non arrivano da nessuna parte, ammansiti da ritornelli in clean vocals che rappresentano l’elemento peggio riuscito, a causa dei grossi limiti di chi se ne occupa, ovvero uno dei due chitarristi del combo nordico, Ulrik Nilsen. Anonime le lead vocals in growl, telefonati quasi tutti i cambi di tempo, a favore degli Sphere rimane la potenza di fuoco altisonante, la buona, se non ottima, tecnica e un’aggressività notevole anche nel linguaggio del corpo. L’accoglienza ricevuta è sinceramente superiore alle attese e con loro si nota un grado di agitazione da parte delle prime file piuttosto accentuato; se l’interpretazione delle facce dei presenti non è totalmente errata, gli Sphere catturano più consensi che critiche, anche se l’opportunità di occupare lo slot prima dei Leprous rimane discutibile.
LEPROUS
Divisa sociale di colore scuro, di un blu intenso virato al nero, vistoso quasi quanto la loro musica, pantaloni e camicia a tinta unita a instillare l’idea di avere di fronte una muraglia monocromatica, che stacca con le impavide tinteggiature pittoriche della musica. La quasi fanciullezza dei musicisti, alcuni scavalcanti di poco la zona-teenager, o comunque apparenti quali ragazzini alla prima uscita da casa, contrasta mirabilmente con la maturità estasiante della proposta musicale. Stranamente, però, sul brano di apertura “The Flood” c’è ancora qualche meccanismo da settare al meglio, un paio di cambi di tempo vedono arrivare batteria e chitarre fuori sincrono e Einar Solberg incappa in qualche stecca; barlumi di perplessità destinati a essere sedati in un lampo, perché queste piccole scorie di distrazione vanno a scomparire e rimane solamente scintillante violenza cosmica, scompaginanti trafile di stacchi spiazzanti e fredde coltellate sintetiche diffuse e richiuse all’interno di brani che possono divenire cattedrali di fuoco, navicelle interplanetarie, giardini fioriti composti di materiale ultraterreno. La voce di Solberg prende il sopravvento, assumendo il ruolo di richiamo all’umanità più indifesa insistendo a più riprese su quel timbro liscio e ammansito, comparabile più ad un coro di voci bianche che alla voce di un essere umano di sesso maschile; le polifonie intrecciate con i sodali Øystein Landsverk alla chitarra – sempre più sosia biondo del Johnny Depp di Edward Mani di Forbice – e Simen Daniel Børven al basso saranno sempre l’elemento meno digeribile per i non-fan dei progster norvegesi, eppure funzionano magnificamente quale elemento disturbante e, se vogliamo, anche stonante in quadri sonici che svagano tra l’impressionistico, l’astratto, l’avanguardia più arrogante e superba. Solberg ha di che penare per estrarre note dalla sua tastiera, passando dal commovente pianoforte di “Acquired Taste” al pulsare di una supernova in “Red”, dal trasformismo simil-orchestrale di “Rewind” al gelo eterno di “Slave”. Il leader affonda le dita della mano destra sulle keyboards, mentre la sinistra detta il tempo a sé, agli altri strumentisti e al pubblico, si scuote in sincrono con la musica e gli occhi si spalancano a suggerire lo stupore che chi sta dall’altra parte non può evitare di provare, fosse anche il più sgamato e prevenuto degli ascoltatori. La coesione quasi umana di “The Congregation” si prende una grossa fetta della setlist, portando a un rumoreggiare positivo simile a quello riservato ai precedenti cavalli di battaglia, tra i quali spicca l’allegro danzante in salsa extreme prog di “Chronic”. La grande cura per il dettaglio del quintetto comprende anche un uso intelligente dell’impianto luci, che esplode in flash irregolari durante i passaggi più astrusi e incalzanti, quelli dove l’entropia trattenuta a stento prima viene a galla e infine si moltiplica in un ballo sincopato di suoni e visioni. Segno di una classe non comune è il fatto che i Leprous incarnino il paradigma della band progressive colta, tecnica e arguta come è lecito attendersi, e finiscono d’altro canto per assestare spudorate legnate che anche i loro detrattori non esiterebbero a definire sconquassanti. Assistiamo quindi a un concerto sudato, empatico, fragoroso nel numero di stimoli sensoriali offerti quanto ostentatamente metallico, apprezzabile non solo per chi voglia godere di finezze d’alta classe ma anche per coloro che da un concerto desiderano essere fagocitati, trasformati in un ammasso di carne scosso da vibrazioni provenienti dall’esterno ma oramai pienamente introiettate fino a diventare una parte dell’Io del singolo individuo. Proprio per questo rutilante dinamismo rimaniamo perplessi dal vedere pochissimo movimento dentro il locale, si ha ogni tanto la fastidiosa impressione che chi ascolti stia più attento a un eventuale errore di qualcuno – inutile nascondere che qualche linea vocale non è stata esattamente impeccabile, come ci pare assurdo ritenere che ciò abbia davvero inficiato la bellezza del concerto – che non a godersi pienamente la performance. I Leprous lasciano le loro postazioni una prima volta quando saranno passati circa cinquanta minuti dall’inizio dei lavori, giusto un attimo di acquietamento prima del poker “The Price”-“Moon”–“Down”-“The Valley”. A questo punto, non paghi, eccoci l’affondo definitivo sotto forma di “Forced Entry”, dieci minuti di climax iridescenti più volte repressi e rilanciati secondo traiettorie inconoscibili e stordenti, estatica conclusione di uno spettacolo sufficientemente esoso anche nella durata (un’ora e mezza con pause ridotte all’osso). Sui Leprous si può fare sempre affidamento senza remore, metterne in discussione il valore oggi come oggi è molto, molto difficile.
Setlist:
The Flood
Foe
Third Law
Chronic
Rewind
Acquired Taste
Red
Slave
The Price
Moon
Down
The Valley
Encore:
Forced Entry