18/11/2019 - LEPROUS + THE OCEAN + PORT NOIR @ Campus Industry Music - Parma

Pubblicato il 26/11/2019 da

A cura di Giovanni Mascherpa

Grosso modo nello stesso periodo che li aveva visti protagonisti nel tour di “Malina” (allora era il 13 di novembre, questa volta il 18), i Leprous si ripresentano sui palchi italiani per un’unica data di supporto al già (giustamente) acclamato “Pitfalls”. E se nelle precedenti tornate concertistiche avevamo osservato un graduale miglioramento di affluenza e livello dei locali predisposti per accoglierli, questa volta notiamo un netto cambio di marcia in senso positivo su entrambi i fronti, pur con qualche personale riserva sulla venue. Il numero dei presenti, già in prossimità degli opener Port Noir, si rivela considerevole, davanti al palco staziona già uno zoccolo duro di fan in calma attesa. L’età media, ce ne accorgiamo dopo pochi minuti, pare essere in discesa, segno che con le ultime uscite qualcosa sta cambiando nella tipologia di pubblico dei norvegesi, e non poteva essere altrimenti visto il salto stilistico compiuto con gli ultimi due full-length. Il Campus Industry Music, venue piuttosto capace e bene attrezzata come servizi, palco e impianto audio, con l’aumentare dell’affluenza si rivelerà un filo inadeguato nel contenere decentemente tutti gli accorsi, non fosse altro per la strettoia che si crea all’altezza del mixer, costringendo a stare più pigiati del necessario coloro che stanno in prossimità dello stage; mentre chi è arrivato più tardi è costretto a una visuale non ottimale. Infine i suoni, che per chi scrive sono stati tra il mediocre (per The Ocean) e l’insufficiente (Leprous) proprio sostando in posizione centrale e davanti al mixer; fortunatamente ci è stato riferito che in altri punti del Campus Industry Music si sentiva abbastanza bene. Sarà stata la prossimità di un muro dietro di noi, a fungere da elemento destabilizzatore, fatto sta che dove di solito si dovrebbe sentire in pieno agio, si udivano fastidiosi rimbombi, strumenti slegati fra loro, volumi non propriamente adeguati, una potenza di fuoco ridotta e un effetto ‘scatolame preso a calci’ molto fastidioso per la batteria. Ripetiamo, altrove, anche lontani pochi metri da noi, è andata meglio, ma essendo un report scritto in prima persona e in base quindi a impressioni strettamente soggettive, non possiamo soprassedere sulla circostanza.

 


PORT NOIR

Il trio svedese si trova ad essere fortemente penalizzato nella durata del suo set, ridotto a venti minuti per soli quattro brani. “The New Routine” ha segnato un astuto illanguidimento nel metodo compositivo, portando alle estreme conseguenze la vena ammiccante e commerciale emersa nell’esordio “Puls” e in “Any Way The Wind Carries”. Un alternative/progressive metal di ultimissima generazione, furbo nell’assecondare velleità di pop lamentoso e cantabile, incastonandolo in chitarre compresse e ruvide quanto basta per rientrare in ambiti metal. Scuola progressive djent di oggi, cui i Port Noir sfuggono per un’ampiezza di vedute ancora maggiore, un uso dell’elettronica ‘non-bombastico’ e velato, l’indiscutibile dote di catturare la melodia giusta e mettere sul piatto quelle poche variazioni necessarie a scrivere una hit. Non stupisce che non sia proposto materiale dei primi due album e ci si concentri sull’ultimo nato, i cui pezzi sono suonati in modo preciso e perfettino (“Old Fashioned” la più coinvolgente), dimenticandosi per strada quell’impatto che, ad esempio, avevano messo in campo solo due anni fa di spalla ai Pain Of Salvation. Davanti alle transenne gradiscono, si percepisce una forte attenzione per questi ragazzi, che sorridono compiaciuti, seppure timidi, agli incitamenti del giovane pubblico. Il tatuato chitarrista si divide fra le mini-tastiere davanti a lui e il suo strumento principale; essendo solo in tre, forse sarebbe il caso di affidarsi completamente alle basi (già abbondantemente utilizzate) e non togliere mai l’elemento chitarristico, per non svuotare il suono. Il tempo a disposizione è troppo avaro per dare un giudizio più ragionato, certamente nel 2017 avevano dato un’impressione più brillante, ma avevano anche dalla loro il doppio del tempo…

THE OCEAN
Il fluire melodico e sognante degli ultimi lavori ha consegnato ai The Ocean un’identità ora più vicina a quell’apparato emozionale che gli headliner hanno dalla loro, nonostante le aderenze stilistiche fra le due formazioni rimangano piuttosto labili. Però, per la trasversalità di vedute dell’audience metal attuale, la combinazione fra i berlinesi e gli uomini di Einar Solberg ha senso e ragion d’essere e lo si nota fin dalle prime battute, col pubblico ammaliato dagli andirivieni strumentali e l’ammaliare vocale di Loïc Rossetti, oggi meno irruento del solito e più votato all’ammansimento e al blandimento di chi ha davanti tramite le voci pulite. Non arriva quell’effetto-burrasca così irresistibile che le esibizioni live dei The Ocean sanno normalmente suscitare, il sound non è compatto e ricco di sfumature come altre volte e le transizioni verso le parti a minor distorsione affievoliscono il pathos, suscitando allora forte attesa per le successive, ineluttabili, esplosioni. Si sta costantemente dalle parti di “Pelagial” e “Phanerozoic I: Palaeozoic”, proponendo composizioni di composta complessità come “Silurian: Age of Sea Scorpions” e “Mesopelagic: Into the Uncanny”, dotate in eguale misura di forza immaginifica, induzione a perdersi nei propri pensieri, voglia di farsi cullare dal rullio melanconico degli attimi di bonaccia. I giochi di luce, fondamentali nel caratterizzare le performance dei tedeschi, non hanno lo sfarzo abituale, per quanto non si facciano disprezzare, con la band che rimane costantemente velata dietro gettate di luce blu e bianca. Certo, la caratura del gruppo emerge sempre, Rossetti si butta tra la folla in uno dei suo scatti da cantante hardcore e non si risparmia un attimo, così come gli altri suoi compagni non se ne stanno semplicemente nel loro cantuccio a suonare ma si mostrano partecipi ed energici. Le reazioni sono buone, nonostante si percepisca una lieve spaccatura fra chi è fan consolidato e coloro che hanno solo qualche conoscenza superficiale del materiale. Il set è affrontato e portato a termine con la padronanza della situazione che ai The Ocean non difetta mai, ma sono state altre le circostanze in cui il gruppo ci ha piacevolmente destabilizzato.

LEPROUS
Quando i Leprous arrivano sul palco, attesi come novelli messia, si capisce immediatamente che non è soltanto il sound ad essere mutato, è proprio l’atteggiamento complessivo della band ad aver subito, oggi più che nel periodo di “Malina”, uno spostamento verso la rappresentazione del pensiero del suo mastermind. Con gli altri membri a fargli sostanzialmente da contorno di lusso. Per la prima volta da quando li conosciamo, le tastiere sono in disparte ed Einar vi armeggerà saltuariamente, aiutato nell’uso – comunque assai più sporadico che in passato – dal chitarrista Robin Ognedal e dall’ormai membro aggiunto al violoncello Raph Weinroth-Browne. Come ci aveva confessato in sede di intervista, il polistrumentista nordico si sente ora più cantante che tastierista e quello che era sempre stato un suo naturale e imprescindibile compendio, è adesso relegato a contorno. Ciò comporta, oltre a un cambiamento visivo e identitario del musicista, libero di muoversi e gigioneggiare a piacimento come prima non poteva fare, il ricorso a basi che fino al tour precedente erano introdotte con maggior parsimonia. Atteggiamento, se vogliamo, che va a cozzare con la volontà, perseguita invece in studio, di avere quanti più strumenti realmente suonati e non sostituiti da sample. Un dettaglio magari insignificante, per qualcuno, ma che serve a far capire quanto ora Solberg accentri su di sé tutte le attenzioni, relegando nell’ombra gli altri valenti musicisti. La partenza affidata alle prime due tracce di “Pitfalls”, “Below” e “I Lose Hope”, manda in brodo di giuggiole una platea perfettamente sintonizzata alla nuova dimensione del quintetto, che nel corso dei tour ha guadagnato in disinvoltura nel modo di porsi, non solo da parte del frontman. Quest’ultimo dimostra di poter padroneggiare anche dal vivo il range vocale morbido e relativamente meno istrionico di “Pitfalls”, interpretando i brani con la melanconica passionalità delle versioni in studio. Ci rendiamo conto che il parziale abbandono delle tastiere serve pure ad appagare la voglia di stare al centro dell’attenzione, altrimenti non si spiegherebbe il discorso (un po’ prolisso) intriso di umorismo ‘alla Akerfeldt’ in cui il singer si lancia già dopo i primi due pezzi. Tempi morti che non gli conoscevamo, perdonati facilmente al cospetto delle seguenti buone versioni di “Stuck”, “Slave” e “The Cloak”. Le interazioni con il violoncellista, integrato anche per riarrangiare lievemente le canzoni pre-“Malina” (non comprendenti il suo strumento), non soffrono di problemi di incastro, il musicista canadese si rivela tra l’altro un live performer di insospettabile foga, calato come se non aspettasse altro nel ruolo di metallaro scatenato e ben felice di darci dentro in headbanging. Il concerto si rivela, in accordo con l’immagine che il gruppo vuole attualmente dare di sé, più avaro di spettacolarizzazioni sonore, poco incline alla stupefazione del prossimo. Non è un caso che la scaletta si porti su episodi dai lunghi intermezzi pacifici, quali “Observe The Train”, “Bonneville”, “Distant Bells”. In questo quadro molto eterogeneo, spiccano le dilatate atmosfere di “Angel”, cover dei Massive Attack resa magnificamente dai Leprous, che ne lasciano pressoché intatto il feeling, personalizzandola senza stravolgerla. Per chi scrive l’highlight del concerto, almeno prima dell’encore. Quando arrivano la diretta “From The Flame” e, colpo di teatro conclusivo, l’opulenta magniloquenza di “The Sky Is Red”, punto di incontro, se vogliamo, tra i Leprous di ieri e quelli di oggi. Sinfonie contemporanee vengono proiettate in un universo di metal plumbeo e affilato, una fiammeggiante ode che pone fine a un’ora e mezza suonata con intelligenza, classe e il desiderio di porsi in rottura con l’immediato passato. Lo scrivente ammette di essere un po’ in difficoltà a tracciare un bilancio della serata, che dal punto di vista strettamente personale è stata assai sofferta per un sonoro mai all’altezza, ma che alla luce di reazioni del pubblico e impressioni raccolte da chi era in altra posizione, ha nel complesso soddisfatto. Mentre ci si sente sicuri di affermare che il scivolamento verso una dimensione solista di Solberg, con gli altri a ruotargli attorno in un ruolo secondario, toglie qualcosa in termini di compattezza e urgenza prettamente metal. Pur restando quella dei Leprous una macchina live di prim’ordine.

Setlist:
Below
I Lose Hope
Stuck
Slave
The Cloak
Angel
The Price
Observe the Train
Alleviate
Bonneville
Distant Bells

Encore:
From the Flame
The Sky Is Red

0 commenti
I commenti esprimono il punto di vista e le opinioni del proprio autore e non quelle dei membri dello staff di Metalitalia.com e dei moderatori eccetto i commenti inseriti dagli stessi. L'utente concorda di non inviare messaggi abusivi, osceni, diffamatori, di odio, minatori, sessuali o che possano in altro modo violare qualunque legge applicabile. Inserendo messaggi di questo tipo l'utente verrà immediatamente e permanentemente escluso. L'utente concorda che i moderatori di Metalitalia.com hanno il diritto di rimuovere, modificare, o chiudere argomenti qualora si ritenga necessario. La Redazione di Metalitalia.com invita ad un uso costruttivo dei commenti.