A cura di Maurizio “MorrizZ” Borghi
Foto di Riccardo Plata
Parlare di Limp Bizkit nel 2010 sembra, a tratti, schifosamente anacronistico: una band che non pubblica un disco brillante da quasi 10 anni (parliamo di “Chocolate Starfish and the Hot Dog Flavored Water” ovviamente), che si è riunita da poco nella formazione originale (mossa che sa di prelievo facile) e che fa parlare di sè esclusivamente su Twitter, rimandando all’infinito quello che dovrebbe essere il prossimo capitolo discografico, forse non meriterebbe tanto rispetto. Chi ha riempito il Palasharp di Milano per la loro calata italica però non la pensa così, o più semplicemente se ne infischia e non vede l’ora di muovere un po’ il culo…
THE BLACKOUT
Non ci siamo: alla Limp Bizkit g-g-generation non interessano i patemi adolescenziali, le pose plastiche, le frange emo e il post-hardcore frignone dei cugini poveri dei LostProphets (la formazione proviene proprio dal Galles, e ha molto da spartire con la band di Ian Watkins). Anche se qualche esagitato smuove le prime file la performance dei The Blackout passa perlopiù inosservata, anche se dobbiamo riconoscere, per onestà, una degna tenuta di palco e una carica sfrontata dinanzi al pubblico abbastanza ostico. Simpatica la cover di “Fight For Your Right” dei Beastie Boys, che raccoglie meritatamente la risposta del pubblico, anche se del tutto estranea alla proposta musicale della formazione. Fuori luogo.
LIMP BIZKIT
Alle 21:00 spaccate si illumina un palco decisamente spoglio, ornato solo dalla bandiera tricolore che veste la consolle di Dj Lethal. L’introduzione, tra il clamore del pubblico, è ovviamente tutta dell’ex House Of Pain, che fa salire le urla con “Pure Imagination” di Willy Wonka E La Fabbrica Di Cioccolato, mentre entrano nell’ordine un’esaltato John Otto, Sam Rivers e il suo basso coi led, Fred Durst in un’inedita versione con canotta dei Boston Celtics e New Era bianco, e un attesissimo Wes Borland con moonboot pelosi, armatura luccicante sulle spalle e faccia rossa nascosta sotto mascherone di Pulcinella! Il gruppo approfitta della botta d’adrenalina iniziale per giocarsi l’unico inedito della serata (abbastanza moscio a dire il vero), lanciandosi poi nell’esecuzione di quello che è, in pratica, l’intero repertorio di singoli della loro carriera. Dopo meno di dieci minuti le sorprese sono finite quindi, ma la band risulta abbastanza in forma e riesce a far divertire tutti i presenti, dalla prima fila allo scoppiato seduto in tribuna alla decima birra. Niente fiamme, niente fuochi d’artificio e, sfortunatamente, niente corpo di ballo tutto al femminile. A dire il vero nemmeno un telone dietro il palco. I Limp affidano tutto ad una scaletta sicura, con variazioni affidate al solito medley di Wes (stavolta vengono accennati riff di Nirvana, Pearl Jam, Metallica e addirittura il tema di Beverly Hills Cop) e ad un paio di simpatici siparietti col pubblico: Durst scova nelle prime file un fan che indossa la stessa canotta di Kevin Garnett e lo invita sul palco a bere una birra con lui, verso la fine della serata tocca invece a due frontman improvvisati (prima un ragazzo visibilmente emozionato poi una ragazza scatenata) intonare l’esplosivo finale di “Nookie”. Un paio di omaggi al pubblico italiano sono “That’s Amore”, lasciata scorrere per intero durante la pausa prima dell’encore, e la sigla conclusiva (omaggio involontario?), quella “Seven Nation Army” diventata inno della Nazionale campione del mondo 2006. Uno show privo di sorprese ma sicuramente piacevole: a nessuno dei presenti interessa indagare sul perchè la band non si scambi uno sguardo per i 90 minuti a disposizione, nè si chiede perchè Sam Rivers non abbia fatto un passo se non per entrare ed uscire dal palco nella pausa comandata. Ci si vuol solo divertire, senza troppe pretese: missione compiuta dunque, ora aspettiamo “Gold Cobra” con le dita incrociate.
(intro)
Why Try
Break Stuff
My Generation
Livin’ It Up
Eat You Alive
My Way
Hot Dog
Re-Arranged
Boiler
Rolling
That’s Amore
Encore:
Behind Blue Eyes
Nookie
Take A Look Around
Faith