Introduzione di Marco Gallarati
Report a cura di Thomas Ciapponi e Marco Gallarati
Periferia est di Milano, un lunedì sera. Non ancora metà marzo, non ancora primavera. Eppur giornata baciata dalle prime temperature miti dell’anno. Le stesse temperature che permetteranno, al calar della notte, lo svilupparsi di un nebbione Fantozziano lungo la tratta ferroviaria verso la stazione di Rogoredo, deprimente ed oscura zona industriale in cui, al termine di una proditoria sfilza di capannoni aziendali, è situato uno degli alternative-metal club più underground e in crescita di Milano, il piacevole Lo-Fi, spartano quanto si voglia ma in grado di avere tutto il necessario per lo svolgimento in santa pace di concerti di nicchia e di valore. Ebbé, perché certamente di questo tipo di spettacoli si può parlare quando a calcare le assi di un palco sono i tedeschi Long Distance Calling, gli islandesi Solstafir e i norvegesi Sahg, questi ultimi ‘sostituti’ dei connazionali Audrey Horne per la parte di tour che riguarda anche l’Italia. Il pezzo forte è sicuramente la (ex-)band interamente strumentale, ormai alle soglie di un vero e proprio ‘successo commerciale’, ma assolutamente non da sottovalutare il potente apporto qualitativo dato dalle altre due compagini, adattissime a fungere da support-act ma non solo, in quanto in grado molto bene di fare spettacolo in solitaria. Le porte hanno aperto da poco, la gente non è ovviamente stra-numerosa, ma la venue è pronta ad agitarsi in ogni suo presente. Facciamo un rapido salto sul tourbus dei Long Distance Calling per svolgere l’intervista di rito e poi ci si tuffa ai piedi dei Sahg, già on stage da qualche minuto! Entriamo!
SAHG
Il quartetto di Bergen è assente dalle scene discografiche da un bel po’ di tempo: “III”, il capitolo conclusivo della trilogia Sahghiana, è uscito infatti nel 2010 e solo ora la band si appresta a dare un seguito alla prima parte della propria carriera. Viene all’uopo, dunque, l’opportunità di ricaricare le pile attraverso questa manciata di date europee. Pochissimi fronzoli e nessun abbellimento scenografico – come del resto NON avranno nemmeno i due gruppi seguenti – e gli scandinavi si indiavolano sul palco al ritmo del loro pesantissimo e acido doom-stoner metal. Tra Black Sabbath, Monster Magnet e puro e semplice rock’n’roll energizzato all’ennesima potenza, Olav Iversen e compagni donano una decisa quarantina di minuti di adrenalina a tutta la platea, ben trasportata dal groove e dagli incedere psych del combo. “The Executioner Undead” è il pezzo che più ci ha colpito per intensità e vigore, ma è da applaudire tutta la performance dei Sahg, non caratterizzata da suoni perfetti, anzi, ma di certo coinvolgente. Anche qualche cedimento della voce di Iversen è passato quasi inosservato, tanta è stata la foga messa sugli strumenti – in tal merito vanno citate obbligatoriamente le movenze invasate del drummer Thomas Lonnheim! Bravi i norvegesi, dunque, e ora passiamo oltre con rapidità e aspettiamo i Solstafir…
(Marco Gallarati)
SOLSTAFIR
Il cambio palco è veloce, giusto il tempo di un breve soundcheck. L’approccio spartano al live (leggasi: zero scenografia e orpelli visivi) delle formazioni ‘in lotta’ questa sera costringe il pubblico ad interessarsi quasi esclusivamente alla musica, aiutato in ciò anche dalla bassezza del palco del Lo-Fi, che nasconde perfino gli strumenti dei musicisti se non si è posizionati fra le prime tre-quattro file di gente. A volte si ascolta e si osservano teste e toraci in movimento e poco altro, concentrandosi così per forza sull’incedere musicale; incedere che, per quanto concerne i freddi isolani Solstafir, è quello di un rock-alternative metal sornione, psichedelico, istrionico e introspettivo, stile comunque corroborante e appagante, che ha visto in “Fjara” il momento più delicato e sentito dall’audience, brano magico che ha ormai fatto incetta di consensi e approvazioni per l’etere. Quattro pezzi per circa quaranta minuti è il sunto della performance dei Cowboys From Ice, dal look a metà strada tra l’approccio lisergico dei Doors e lo spaghetti-western, altro che ghiacciai, geyser e vulcani! Anche durante i Solstafir, soprattutto all’altezza delle sezioni in crescendo cacofonico e più pesanti, i suoni non sono stati esattamente puliti, creando più che altro confusione e ‘sporcizia’. Ma davvero poco male, considerato il degno impatto emotivo dell’iniziale “Ljos I Stormi”, oppure quello più epico della fenomenale title-track dell’ultimo doppio album del gruppo, quello “Svartir Sandar” che ha ammaliato. Uno show di sostanza e pochissimo fumo, ideale antipasto per quello che si rivelerà essere un concerto superlativo, quello degli headliner: musica e (poche) parole ai Long Distance Calling, quindi…
(Marco Gallarati)
LONG DISTANCE CALLING
Se gli islandesi si sono difesi bene con le sole quattro tracce proposte, i Long Distance Calling rispondono al meglio con un’esibizione tanto carica di aspettative quanto intensa dal punto di vista esecutivo, impeccabili nella riproduzione dei propri brani. Complice lo stretto palco del Lo-Fi, la band risulta compressa nel suo assetto da concerti, relegando il nuovo entrato Fischer nelle retrovie ad occuparsi degli effetti tastieristici e facendogli largo al microfono solo nelle sporadiche occasioni nelle quali si richiede la sua presenza, principalmente sui nuovi pezzi. Il poco spazio disponibile non intacca minimamente il nuovissimo spirito colorato della band, molto attiva dal punto di vista della presenza scenica, elargita soprattutto dall’accoppiata chitarra-basso di Florian Füntmann e Jan Hoffmann che, a conti fatti, sembrano essere ancora i veri e propri frontman dei Long Distance Calling, in attesa di un affiatamento maggiore con l’ultimo arrivato. I tedeschi, rispetto alle due band di supporto, godono di suoni e volumi piuttosto buoni, ottimali sui pezzi strumentali e un po’ meno in quelli cantati, una dimensione entro la quale si dovrà lavorare ancora molto, seppur già eseguita e studiata egregiamente. Proprio in episodi come “Tell The End” e “The Man Within” – accolti in maniera piuttosto fredda dal pubblico rispetto al resto del repertorio – le intense atmosfere della serata vengono spezzate per essere raggiunte da una comprensibile curiosità da parte degli astanti, forse un po’ spiazzati dalle nette differenze sceniche e musicali tra i due aspetti (e del resto “The Man Within” in mezzo ad “Aurora” e “Metulsky Curse” stona parecchio). Piace molto l’assortita scaletta, che per l’occasione va a pescare brani datati come i due appena citati, mentre “Inside The Flood” e “Ductus” fungono da veri e propri condottieri di un nuovo corso ricco di melodie e tastiere. La band è in forma e ha voglia di fare bene, ecco perchè in certi pezzi già di per sé elettrizzanti, come “Black Paper Planes” e “Arecibo (Long Distance Calling)”, si raggiungono picchi emotivi da pelle d’oca: la prima con i suoi crescendo atmosferici e melanconici, la seconda con un ricchissimo groove metallizzato che sa di vera e propria bastonata sul collo. Uno show divertente e coinvolgente, quello del quintetto di Münster, che nel giro di un’ora o poco più riesce a imporre il proprio pensiero musicale ai seppur pochi presenti, facendosi ricordare non solo per intensità e dedizione totale alle proprie composizioni, ma anche per una varietà di suoni che riesce a mettere d’accordo un po’ tutti. Un gruppo in crescita sotto tutti gli aspetti, bravo nel saper gestire le proprie ambizioni per integrarle all’interno di un contesto non certo adatto alle grandi masse. Sembra di assistere in tutto e per tutto ad un’esibizione di una metalband, cosa che forse, in realtà, è quello che si sentono di essere questi ragazzi, umili e attaccatissimi al proprio piccolo seguito. Molti erano presenti per i Solstafir e molti per loro; l’idea che ci siamo fatti è che, ad oggi, la scena ha bisogno di formazioni innovative e un po’ fuori dall’ordinario come quelle presenti in questa tranquilla serata. Tutti a casa contenti.
(Thomas Ciapponi)