Report a cura di Gennaro Dileo
Dopo aver superato un’ingarbugliata vicenda giudiziaria, il Circolo Colony si sta meritatamente affermando come una valida realtà in grado di ospitare una serie di eventi di pregevole fattura. In un torrido mercoledì di fine luglio abbiamo finalmente la possibilità di assistere ad un concerto dei Loudness in Italia, occasione praticamente unica che ci permette di tastare il polso di questi eroi dell’heavy metal, in attività da ben trentacinque anni. Nonostante l’affluenza di pubblico non abbia oltrepassato le duecento unità, annotiamo che sin dall’apertura dei cancelli una buona parte di esso ha avidamente assaltato il banchetto del merchandise, per acquistare una maglietta o l’ultimo album “The Sun Will Rise Again”. Nel tabellone era prevista la presenza di ben due special guest, ma i tedeschi Double Crush Syndrome hanno gettato la spugna a pochi istanti dal via, a causa di un improvviso problema di salute occorso ad un membro della squadra. Tale inconveniente ha permesso ai My Own Ghost e ai Loudness di rosicchiare qualche minuto in più a testa, fattore che si è rivelato vincente per il colosso giapponese, un po’ meno per il giovane collettivo europeo…
MY OWN GHOST
Spetta al succitato giovane collettivo lussemburghese il compito proibitivo di scaldare gli animi dei presenti, impresa che si rivela decisamente più complicata del previsto quando si palesa alle orecchie degli inossidabili ‘defender’ una miscela edulcorata di gothic metal all’acqua di rose, annaffiata da velleitari stereotipi radiofonici di matrice rock. Autori di un esordio intitolato “Love Kills”, i Nostri impiattano una serie di episodi tutto sommato orecchiabili ma privi della benché minima consistenza e personalità, dai quali emerge con prepotenza un riffing scolastico scandito da trame stantie e poco avvincenti. Lo zenit della fiera dell’ovvio viene impietosamente raggiunto con l’ennesima reinterpretazione di “Enjoy The Silence” dei Depeche Mode, elegantemente ignorata dalla maggior parte del pubblico, impegnato a bersi una birra o a comprarsi qualche disco in offerta alle bancarelle ubicate all’interno del club. Diamo atto a questi giovanotti di belle speranze di non voler puntare sull’immagine, in quanto la protagonista Julie Rodesch appare come la tradizionale ragazza della porta accanto, peraltro dotata di una notevole estensione vocale, ben lontana dalle consuete ‘femmes fatales’ che imperversano in questo ambito. I tre quarti d’ora di spettacolo faticano a trascorrere velocemente e, nonostante i numerosi punti a loro sfavore, i My Own Ghost terminano l’esibizione con dignità, tenacia e qualche applauso.
LOUDNESS
Trascorso il tempo tecnico necessario per il cambio del palco, i Loudness vengono accolti con una fragorosa ovazione dai fan assiepati nelle prime file. Nessuna intro celebrativa o magniloquente accompagna il loro ingresso: i quattro protagonisti si mostrano sorridenti e affabili ai nostri occhi, prendono i rispettivi posti di comando ed aprono le danze con il monumentale anthem da stadio ‘Crazy Nights’. Sin dalle prime battute i Nostri appaiono carichi come una molla, con una menzione d’onore per il chitarrista Akira Takasaki, autentico fuoriclasse delle sei corde in grado di macinare senza sosta riff al fulmicotone, vertiginosi assoli in tapping ed abbondanti cascate di melodia. Gran parte della scaletta viene dedicata ai classici degli anni Ottanta, che alternano violente scariche elettriche (“Black Star Oblivion”, “Esper”) a momenti più introspettivi, teatrali e malinconici (“Heavy Chains”, “So Lonely”). Gli storici ed oggettivi limiti tecnici del frontman Minoru Niihara vengono fieramente controbilianciati dalla sua smodata passione interpretativa, caratteristica che sin dagli esordi ha contribuito a rendere uniche le composizioni della band nipponica. Il poderoso muro eretto da tecnici del suono preparati e competenti ha contribuito ad amplificare all’infinito la palpabile tensione elettrica durante l’esecuzione delle scattanti “In The Mirror” e “The Sun Will Rise Again”. Il motore ritmico composto dal bassista Masayoshi Yamashita e dal batterista/samurai Masayuki Suzuki ha scandito il tempo in maniera chirurgica attraverso le complesse trame strumentali di”Street Woman”, risultando altresì abbondantemente espressivo nelle copiose melodie scaturite dalla meravigliosa “Let It Go”. L’epilogo viene affidato alla scatenata “S. D. I.”, vorticoso ottovolante barocco traboccante di pura poesia strumentale, che chiude un’esibizione coinvolgente, a tratti emozionante. Con l’augurio di rivederci al più presto, cari Loudness.