Introduzione di Dario Onofrio
Report di Andrea Intacchi, Dario Onofrio e Roberto Guerra
Foto di Luna La Chimia, Matteo Musazzi e Enrico Dal Boni
Che i ragazzi del Luppolo In Rock ci abbiano ormai abituati fin troppo bene a uno standard qualitativo alto è un dato di fatto: tornare al Parco delle Ex Colonie Padane è diventato per molti un rituale, sopravvissuto persino agli anni della pandemia, che vede quest’anno una line-up di tutto rispetto presenziare alla kermesse metallara dal 21 al 23 luglio.
I piatti principali sono Doro, Saxon e Carcass, supportati da una lunga schiera di band internazionali e nostrane di livello.
A livello organizzativo, insomma, i ragazzi cremonesi hanno imparato a coccolare il loro pubblico alzando sempre più l’asticella degli ospiti: considerato che erano presenti persino Soulfly e Possessed, gente d’oltreoceano che non si vede spesso da queste parti, possiamo dire che – nonostante qualche piccolissimo intoppo sui suoni in alcuni dei concerti – la maggior parte dei presenti è riuscita a passare un bel fine settimana, dentro e fuori l’area concerti.
Anche se il prezzo della (buonissima) birra è stato aumentato e pure se non c’era forse tutto lo street food dello scorso anno, la partecipazione ci sembra sia stata buona, anche se non eccezionale.
Purtroppo, poi, come per i Katatonia nella scorsa edizione, anche quest’anno la sfortuna ha colpito di nuovo: stavolta è toccato agli svedesi Crashdïet vedersi bloccare in aeroporto in Norvegia il giorno stesso della loro esibizione e quindi dovendo cancellare il concerto il giorno stesso, cosa che non ha comunque scoraggiato il numeroso pubblico accorso già la prima giornata del festival.
Nonostante questo non ci sono stati altri intoppi di rilievo da segnalare: anche la coda alle casse per mangiare e bere è sempre stata gestita in maniera efficace, e si è respirata (complici anche i ventisei gradi ventilati, diametralmente opposti al caldo asfissiante della scorsa edizione) una atmosfera di festa gioiosa e collettiva: vediamo com’è andata!
VENERDÌ 21 LUGLIO
DOBERMANN
Ad aprire le danze il trio dei torinesi Dobermann che, nonostante l’infausta notizia appena arrivata sul forfait dei Crashdïet, ce la mette tutta per scaldare il pubblico già accorso all’area festival.
Il trio ha comunque energia da vendere e sferza gli astanti a suon di un buonissimo hard/glam rock d’annata, con pezzi veramente coinvolgenti come “I Need A Holyday” o “Summer Devil”, che richiamano anche chi è rimasto fuori per concedersi un sorso di birra.
La prestazione è ottima: Paul Del Bello ha una voce graffiante al punto giusto, mentre Valerio ‘Mohicano’ Ricciardi e Antonio Burzotta, rispettivamente chitarra e batteria, sono il giusto motivo per saltare e ballare a ritmo di musica. Quando parte “Rock Steady”, una delle hit del gruppo, i presenti si infiammano al massimo, anche perché fortunatamente i temporali della notte precedente hanno rinfrescato l’aria permettendo di respirare un poco, rispetto alla classica calura che si respira nelle lande cremonesi. La chiusura è affidata alla traccia che prende il nome dal gruppo: “Dobermann” riecheggia nelle orecchie dei presenti come un anthem, e ci fa dimenticare in parte la delusione per l’assenza della sleaze band finlandese.
Davvero un’ottima performance che fa da antipasto ai piatti principali della serata. (Dario Onofrio)
ECLIPSE
La prima delle due band svedesi della giornata (sarebbero dovute essere tre, ma appunto la mancanza dei Crashdiet ha ridimensionato il programma) sono gli apprezzatissimi Eclipse, la cui popolarità ha subito una piacevole impennata nel corso degli ultimi anni, complice una pletora di album assolutamente di ottimo livello e degni di rientrare di diritto tra le opere meglio riuscite del recente panorama hard rock europeo, e non solo.
Il loro show si svolge con ancora un lembo di sole a scaldare gli astanti, ma ciò nonostante si nota con piacere il coinvolgimento che si impossessa degli estimatori sulle note di “Roses On Your Grave”, “The Hardest Part Is Losing You” e “Saturday Night (Hallelujah)”.
L’intero combo si presenta spontaneo, sorridente e piacevolmente convinto del proprio rendimento per tutto l’arco dello show, dove trova posto persino il debutto assoluto in sede live del brano “Hearts Collide”, oltre a tracce ormai note nel panorama come “Runaways”, “The Downfall Of Eden” e il tormentone “Never Look Back”.
Il biondo vocalist Erik Martensson alterna fasi incentrate solo sulla voce e altre dove invece imbraccia la sua possente Gretsch per affiancare alla sei corde il suo collega Magnus Henriksson, che ci domandiamo come faccia a non morire di caldo con indosso la camicia a maniche lunghe.
Sul finale è impossibile non ridere, in quanto il sopracitato frontman annuncia la traccia conclusiva “Viva La Victoria” pronunciando una parte del titolo per lasciare il resto al pubblico, con un risultato che non richiede chissà quale fantasia per essere compreso; non sappiamo se si tratti di una gag voluta o di una mancanza di conoscenza in merito alle classiche sparate tipiche del pubblico italiano, ma a prescindere si tratta dell’ennesima conferma della spontaneità e della simpatia che da sempre caratterizza gli Eclipse.
Il loro show finisce abbastanza in fretta, mentre il sole si nasconde e il nostro entusiasmo sale, in attesa dello show dei loro connazionali in dirittura d’arrivo. (Roberto Guerra)
H.E.A.T.
Lo show degli svedesi H.E.A.T era sicuramente il più atteso della giornata insieme a quello della ‘metal queen’ Doro, e infatti l’arena del Luppolo in Rock è già riempita prima che le note di “Back To The Rythm” iniziassero a far saltare tutti i presenti a tempo di musica. Sin dall’inizio ci siamo subito resi conto della potenza del combo dal vivo: una masnada di pazzi scatenati a cominciare dal bravissimo Kenny Leckremo, un frontman davvero carismatico che non è mai stato fermo per tutta la durata del concerto.
Una dopo l’altra arrivano le bordate di “Dangerous Ground” e di “Rock Your Body”, dall’ottimo “H.E.A.T II” che aveva segnato il rientro di Leckremo in formazione, superando alcuni iniziali piccoli problemi coi suoni, che però non compromettono la bellezza dello show. Una band che dal vivo è veramente una furia incontenibile: tutti i musicisti si divertono come dei matti a farci saltare e nel vederci fare headbanging una canzone dietro l’altra.
C’è anche il tempo di un simpatico siparietto con Kenny che non riesce a togliersi la giacca di pelle per via della sudata da caldo al quale gli svedesi non sono proprio abituati, condita dalle note di Jona Tee alla tastiera che se la ride sonoramente. Ma non c’è tempo per tirare il fiato: dopo “Redefined” e “One By One” arriva una “Beg Beg Beg” tutta da cantare, per poi avviarsi verso la conclusione del concerto.
La chitarra di Dave Dalone è sicuramente una di quelle cose che regala potenza a profusione per quanto riguarda il coinvolgimento del pubblico, insieme alla batteria di Don Crash e al basso di Jimmy Jay che fungono fa perfette fondamenta per il lavoro AOR/hard rock del combo. La kermesse viene conclusa da “Living On The Run” e “Nationwide”, quindi almeno un altro pezzo dall’ultima fatica in studio della band.
Che dire: le aspettative non sono state deluse. Complice anche l’atmosfera in questa breve pausa dal caldo, il pubblico ha dato il meglio di sé cercando di cantare tutto e partecipare al massimo allo show degli H.E.A.T. Gli svedesi hanno risposto regalandoci tutta l’energia di cui avevamo bisogno, confermandosi un astro ormai consolidato e solido della scena hard rock internazionale. (Dario Onofrio)
DORO
Era da parecchio tempo che non avevamo occasione di parlare di una calata su suolo italico della bionda metal queen per antonomasia e detentrice di questo titolo da ormai quarant’anni.
La posta in gioco è abbastanza alta, considerando l’accoglienza calorosa ricevuta dagli H.E.A.T. poco prima, il che porta inevitabilmente le aspettative ad alzarsi nel momento in cui la bella e storica voce dei Warlock si palesa on stage sulle note dell’immortale “I Rule The Ruins”, proveniente da quel capolavoro immortale dal titolo “Triumph And Agony”.
I suoni si presentano buoni, ma con meno carica demolitiva di quanto avremmo sperato in concomitanza delle ritmiche, anche se la band a livello esecutivo si mostra sin da subito in ottima sinergia, sciorinando con fare professionale una sequenza di brani tra i più amati del repertorio di colei che ci mette il nome: Doro sembra infatti avvertire ben poco il peso degli anni che passano, tant’è che la sua performance ci sembra sin da subito pulita e idonea per la valorizzazione di inni come “Earthshaker Rock”, “Burning The Witches”, “Fight For Rock” e così via.
Come prevedibile, la scaletta si compone quasi interamente di classici della storica band teutonica, i Warlock, che ha proiettato il nome di Doro nell’Olimpo, ma non mancano anche estratti del suo controverso periodo solista, inclusa l’accoppiata conclusiva “Burn It Up”/”All For Metal” e c’è posto persino per una cover più o meno apprezzabile di “Breaking The Law”, su cui molti presenti si scatenano, inclusi quelli che hanno letteralmente fatto le belle statuine fino ad ora, cosa che inevitabilmente scatena qualche commento stizzito da parte di alcuni.
In ogni caso, siamo sicuri di aver assistito ad uno show più che buono, ad opera di una formazione rodata e quadrata, che però non ha ricevuto la giusta accoglienza da dei presenti che, ad occhio a croce, sembrano essersi intrattenuti maggiormente con lo show precedente. In ogni caso, tra una settimana avremo modo di testare la resa della metal queen e compagni in quel di Wacken, dove è previsto un concerto speciale per il quarantesimo anniversario; per il momento, concludiamo questa prima giornata di festival con un buon livello di entusiasmo. (Roberto Guerra)
Guarda tutte le foto della prima giornata.
SABATO 22 LUGLIO
SCALA MERCALLI
Iniziamo con quella che è forse una delle realtà più sottovalutate d’Italia in ambito heavy metal alla vecchia maniera, con un palco agghindato in modo da riflettere ottimamente le loro tematiche belliche, e questo grazie alla presenza del cannone sul lato sinistro.
Lo show è invero piuttosto breve, ma non manca l’energia necessaria a creare l’atmosfera in vista di tutto il ben di Dio che si esibirà nelle ore successive. Detta in maniera molto terra terra, gli Scala Mercalli spaccano, in particolare il frontman Christian Bartolacci e il batterista fondatore Sergio Ciccoli, il quale fa sfoggio di un’attitudine ed una esecuzione degna di lode, nonché di una spiccata simpatia, caratteristiche degne del motore trainante di un sound old-school heavy/power metal con tutti i crismi.
I presenti risultano già in numero soddisfacente, prova della curiosità che accompagna la salita sul palco della formazione marchigiana, ripagata con classe e professionalità da un combo che ci piacerebbe vedere più spesso, anche su palchi internazionali.
Forse si sarebbe potuta prestare una attenzione maggiore all’equalizzazione sonora, ma considerando che parliamo del primo show di oggi, ci sentiamo di non pretendere di più. (Roberto Guerra)
ANCILLOTTI
Sta iniziando lentamente a calare il sole quando Bud, Bid, Brian e Ciano salgono sul palco del Luppolo in Rock con la loro carica esplosiva di heavy vecchia scuola, travolgendo i presenti con una carica dinamitarda a base di batteria lanciata a mille e riff taglienti come rasoi.
Gli Ancillotti sfoderano come sempre tutta l’artiglieria che solo un gruppo affiatato può dimostrare: nonostante il sole cocente e lo scarso minutaggio, pezzi come “Revolution” e “Broken Arrow” scorrono freschi come boccali di birra, servita dalla voce ruvida e potente di Bud. Si vede chiaramente che siamo in presenza di un combo con alle spalle tanta della storia dell’heavy metal nostrano, felicissimo di essere presente a questa festa basata su sonorità di un’altra epoca.
Nessuno dei quattro musicisti vuole saperne di stare fermo, il pubblico chiama il nome della band con entusiasmo e si crea da subito un bellissimo feeling fra chi suona sopra e chi suda sotto al palco.
Anche per questo, pezzi come “Bang You Head” e “Legacy of Rock” vengono accolti con entusiasmo dai presenti nonostante tutto, ricordando il debutto della band in procinto di spegnere già dieci candeline dalla sua pubblicazione nel 2014. La chiusura della setlist è affidata alla inossidabile “Warrior”, che fa anche scatenare qualche primo timido mosh fra i presenti: un bel modo di continuare la festa del Luppolo in Rock e tributare il metallo nostrano! (Dario Onofrio)
THRESHOLD
In una giornata così heavy vecchia scuola, i Threshold rischiano forse di sembrare un po’ dei pesci fuor d’acqua: qualcuno del pubblico ne approfitta infatti per andare a rifocillarsi prima dei Raven e dei Saxon. Per chi resta, oltre all’implacabile morsa del sole, il premio è però un concerto molto bello e intenso: nonostante l’afa, infatti, Karl Groom e i suoi sodali sfoderano una setlist basata sostanzialmente sulle ultime due fatiche della band in studio.
L’apertura è affidata a “Haunted”, direttamente dall’ultimo “Dividing Lines”, che subito cattura l’attenzione dei presenti e di uno sparuto numero di fan con la maglietta dei progster britannici.
Poco da dire dal punto di vista musicale: come già visto in passato, i Nostri sono perfettamente a loro agio su un palco, con Glynn Morgan che ormai ha ripreso al cento per cento il suo posto nella band, trascinando i presenti anche in un pezzo difficile come “The Domino Effect”, suite tratta sempre dal loro ultimo lavoro. L’unico brano non proveniente dagli ultimi due dischi è l’immancabile “Mission Profile” da “Subsurface”, che viene accolta con un boato e cantata da gran parte dei presenti, che reagiscono bene anche quando partono le bellissime “Silenced” e “Snowblind”.
C’è anche il tempo di fare gli auguri al batterista Johanne James, visto che proprio oggi spegne le candeline sulla torta, mentre Richard West e Steve Anderson improvvisano una “Happy Birthday To You”, ma dopo questo simpatico siparietto si riparte con un’altra suite come “Lost In Translation” da “Legends Of The Shires”, per poi lasciare spazio alle finali “King Of Nothing” e l’ormai immancabile “Small Dark Lines”.
Avere avuto il coraggio di suonare due suite in questa setlist è encomiabile, un po’ un peccato però non aver sentito nulla da quel capolavoro che è stato “Psychedelicatessen”. Ma, in fondo, va bene anche così: chi si aspettava un bel concerto dai Threshold non è rimasto sicuramente deluso. (Dario Onofrio)
RAVEN
Sono circa le 21.00 quando la palestra inglese targata Raven ha aperto i battenti per offrire un’ora di sudorifera dose di NWOBHM.
La scena è composta da John e Mark Gallagher, insieme a Mike Heller, un telone semplice semplice alle loro spalle, con logo della band ed una scritta ben chiara ed esplicita, “All For One”, a celebrare il loro album più famoso, che proprio quest’anno va a spegnere le sue specialissime quaranta candeline.
Con i Raven non vi sono molto dubbi del caso: ciò che si aspetta da loro è energia da vendere e del sano divertimento. Ed è stato così anche a Cremona, sin da quando le note di “Take Control” hanno preso, appunto, il controllo del palco, sprigionando la consueta grinta a trecentosessanta gradi, testimoniata in particolar modo dalla schizofrenia di Mark, assolutamente incapace di stare al suo posto, tanto che nemmeno il cavo della sua chitarra è riuscito a seguire il suo eterno girovagare, costringendo un addetto della crew ad intervenire in modalità ‘art attack’ con tanto di nastro isolante; piccoli contrattempi del mestiere che non hanno però impedito alla band a maggioranza britannica (Heller è statunitense) di proseguire egregiamente il proprio show.
E, puntuale come un orologio svizzero, è stata la nevrotica “Hell Patrol”, con gli acuti storici di John, ad alzare ulteriormente la temperatura a centro pit, seguita dalle più recenti “The Power” e “Top Of The Mountain”, estratte dal fortunato “Metal City”, penultimo album rilasciato dal gruppo di Newcastle. Nell’ultimo brano citato, anch’esso poderoso, si sono tuttavia fatti notare alcuni limiti sonori, con il volume della batteria sin troppo elevato, andando così a creare un leggero impastamento generale.
A proposito di dischi, proprio lo scorso giugno, i Raven hanno pubblicato la loro ultima fatica, “All Hell’s Breaking Loose”, da cui, per l’occasione, hanno proposto il singolo “Surfin Tsunami”, esaltando le capacità tecniche dello stesso Heller. Ritmi serrati e spediti, interrotti, si fa per dire, dalla più cadenzata e corale “Rock Until You Drop”. Ed è stato in questo momento che abbiamo notato uno strano movimento provenire nelle vicinanze. Forse l’esaltazione generale, forse la presenza di zanzare un po’ troppe invadenti, sta di fatto che il metallaro in questione, ha iniziato un personalissimo incontro di pugilato con l’aria, simulando uppercut in serie, seguendo chirurgicamente l’andamento del pezzo.
Nel frattempo, la scena è stata rubata dal buon Mark che, udite udite, si è fermato a centro palco per un assolo di qualche minuto, raccogliendo i meritati applausi…per la cronaca i round della battaglia metallaro-aria sono proseguiti costantemente. E’ stato quindi il turno di “Faster Than The Speed of Light”, tanto per gradire, lasciando quindi il posto ad alcuni brani tratti proprio da “All For One”, “Break The Chain” e “Seek And Destroy”.
Mark è ormai un spugna di sudore, e come ultima cartuccia viene sparata, un po’ a sorpresa, “Chainsaw”, a chiudere un concerto dal perfetto impatto atletico e godurioso. Sorrisoni ed headbanging, né più né meno. L’età avanza per tutti, anche per i Raven, ma anche questa volta i (veri) fratelli Gallagher hanno vinto.
(Andrea Intacchi)
SAXON
Chi meglio dei Saxon poteva chiudere una giornata all’insegna dell’heavy metal più classico? I leoni d’Inghilterra hanno fatto nuovamente visita al nostro paese dopo lo show di Milano tenutosi lo scorso ottobre in compagnia dei Diamond Head.
Ed è proprio da quest’ultimi che si è palesata la vera novità della serata: come già annunciato ad aprile, infatti, a sostituire Paul Quinn nelle date live, ci ha pensato Brian Tatler, fondatore della band inglese. Da professionista qual è, il biondo chitarrista si è semplicemente messo al servizio di Biff e compagni, senza alcun protagonismo del caso, creando comunque con Doug Scarratt una coppia a suo modo ben affiatata.
Cosa aggiungere invece rispetto alla prestazione dei Sassoni del metal? Potrebbe essere banale ripeterci ma, ormai, con i Saxon si va sul sicuro.
Basterebbe dire che il capopopolo Byford ha guidato ancora una volta la truppa con maestria e classe, dimostrando di avere raggiunto una seconda (o terza) giovinezza vocale; e lo stesso discorso vale per Nigel Glockler, ordinato e massiccio con la consueta bandana d’ordinanza. Da parte sua Nibbs Carter ha nuovamente interpretato la parte ‘folle’ della band, continuando ad aizzare i presenti durante i vari pezzi.
E allora, entrando nel vivo dell’azione, la scaletta proposta in quel di Cremona non si è discostata molto da quella sciorinata nello show meneghino, pur con alcune leggere modifiche. Una buona fetta di brani è stata dedicata all’ultimo “Carpe Diem”, dal quale hanno sicuramente preso piede e incisività sia “Age Of Steam”, una delle migliori in sede live, sia “Dambusters” che “The Pilgrimage”, la “Crusader” (hanno fatto anche questa sia chiaro) del nuovo millennio, mentre, anche in questo caso, vuoi per alcuni problemi tecnici, non ha convinto pienamente la title-track del recente disco, proposta in apertura ma apparsa un po’ troppo debole. Dettagli che non sono andati ad intaccare una prestazione coinvolgente, sinonimo assoluto di garanzia: una sorta di greatest hits dei Saxon, accontentando alla fine un po’ tutti.
E mentre è iniziata a la spedita “Motorcycle Man”, a centro pit sono partiti i poghi di rito, proseguiti in pratica lungo tutto il concerto, anche durante quei pezzi apparentemente più soft. Anzi, segnaliamo tra le altre cose, una lezione di equilibrismo avvenuta nel corso di “Sacrifice”, quando una piramide umana si è innalzata alle nostre spalle, giusto per salutare meglio il quintetto britannico.
Ma non è tutto: altro aspetto curioso, segno dei tempi moderni che impazzano di giorno in giorno è accorso durante “Dallas 1pm”: detto che ormai lo scattare foto e filmare video (anche di tutti i santissimi pezzi) è divenuta prassi assai frequente, assistere ad un doppio filmato contemporaneo, con due telefoni, uno in verticale, l’altro in orizzontale, ci era sicuramente mancato, ma è successo anche questo. Chissà quando, e come, chi riprendeva, rivedrà il video in doppio formato.
Tant’è: sul palco nel mentre è apparsa anche una bandiera tricolore con tanto di scritta “Saxon Uber Alles from Genova”; vessillo live posto accuratamente da Biff proprio davanti alla batteria di Nigel. E poi, è stato, come detto, un elenco di storia discografica dei Saxon: da “Power And Glory” a “Heavy Metal Thunder”, da “Stronger Arm The Law” a “Solid Ball Of Rock” sino a “And The Bands Played On”, da sempre uno dei brani accolti con maggior enfasi dal pubblico. Senza dimenticare l’immancabile “Wheels Of Steel”, oltre agli encore finali per i quali anche i presenti hanno sfoderato gli ultimi assaggi di pogo misto a leggiadri crowd-surfing, così che “Princess Of The Night” ha posto il sigillo finale ad un sabato luppoliano dal sapore di fedeltà alla causa metal.
(Andrea Intacchi)
Guarda tutte le foto della seconda giornata.
DOMENICA 23 LUGLIO
SLUG GORE
Chi ha prestato attenzione alle novità emerse nel sottobosco estremo negli ultimi tempi conoscerà sicuramente il progetto Slug Gore, così come chi non disdegna la visione di qualche contenuto a tema più o meno metallico sulla piattaforma YouTube; questo perché nella line-up trovano posto figure come Poldo, che è anche frontman e vocalist, e Danny Metal, in questo caso posizionato dietro alle pelli.
Un combo destinato inevitabilmente a far discutere – e questo appare evidente anche ascoltando qualche feedback tra il pubblico presente – dedito peraltro ad una formula musicale non per tutti, per quanto in tema con l’andamento odierno, basata su una ignorante e divertente miscela tra death metal e grindcore.
Il risultato appare addirittura orecchiabile ed abbordabile per certi versi, il che non è male se pensiamo ad una band appartenente al suddetto filone. Similmente, anche l’attitudine on stage, per quanto giovanile, risulta valida per l’intrattenimento, senza far mancare le battute sugli assurdi titoli delle brevissime canzoni e le immancabili lamentele a causa del caldo pomeridiano, coadiuvato dal sole a picco.
Si sarebbe potuto curare meglio il sound della chitarra, ma anche in questo caso parliamo di uno show tanto breve quanto simpatico, che mette in mostra la faccia più colorata e sorridente del genere proposto, al contrario di chi verrà dopo, che oramai è un’autentica istituzione tra gli amanti della violenza musicale più becera. (Roberto Guerra)
CRIPPLE BASTARDS
Come dicevamo, i Cripple Bastards e il loro leader Giulio Baldizzone non hanno bisogno di alcuna presentazione, se si parla di violenza musicale e critica sociale a denti stretti, trattandosi della più famosa e seminale tra le realtà di genere grindcore nostrane.
I loro testi e la loro attitudine, più hardcore che metal sotto molti aspetti, rappresentano degli autentici sfoggi di rabbia verso qualunque cosa, e bastano titoli come “Misantropo A Senso Unico”, “Polizia, Una Razza Da Estinguere” e, soprattutto, “Italia Di Merda” a rendere ulteriormente chiaro l’andamento artistico, peraltro perfetto per spingere al pogo più violento una enorme fetta dei presenti, tra i quali se ne notano molti con indosso una loro maglietta.
Il furente Giulio è un frontman e leader con tutti i crismi, e in quanto tale si rende interprete e ambasciatore della propria proposta con grinta e appetito, cosa che viene notata da ogni estimatore presente tra un moshpit e l’altro.
Qualcuno qui e là lamenta la monotonia musicale di fondo, così come un’interazione col pubblico molto essenziale, ma riteniamo si tratti di una critica sterile e superflua, in quanto parliamo di una formazione e di un sound che puntano all’energia e al fomento più netto e privo di fronzoli. Considerando l’andamento di oggi, riteniamo che i Cripple Bastards abbiano portato a casa le penne senza alcun tipo di inciampo e con tutto il proprio peculiare stile. (Roberto Guerra)
POSSESSED
Ora facciamo un balzo indietro nel tempo, agli albori del death metal e di gran parte della musica estrema, per fare un’autentico bagno di cultura in compagnia di Jeff Becerra e di quella che in tanti considerano la prima, autentica formazione dedita al genere divenuto simbolo della frangia più violenta e sanguinaria della nostra musica preferita. Anzi, senza sbilanciarci molto, potremmo dire che il capolavoro “Seven Churches” degli statunitensi Possessed sia il primo album death metal di sempre, con al proprio interno la canzone stessa da cui il genere prende il nome, peraltro proposta anche quest’oggi per la gioia di ogni deathster che si rispetti.
Il sopracitato frontman è forse la persona che incarna maggiormente il concetto di ‘volontà incrollabile’, considerando la mole di problemi e sfortune che lo hanno sì colpito, ma anche motivato a continuare a rappresentare l’essenza stessa della carica metallica e della fame ferale per ciò che si ama fare nella propria vita, indipendentemente dalla crudele ironia della sorte.
Egli soffre e fa sicuramente molta fatica durante tutto l’arco del concerto, e una cura dei volumi non ottimale non aiuta di certo la sua voce ad emergere dall’impianto, soprattutto considerando il muro sonoro tirato su da un combo barbarico e dedito all’esecuzione di autentiche mazzate telluriche. Tra queste ne figurano alcune dal recente e apprezzatissimo “Revelations Of Oblivion”, così come altre dal secondo album “Beyond The Gates” e dall’EP “The Eyes Of Horror”, e sebbene si tratti di perle di inestimabile qualità, è comprensibile che le attese più fermenti siano tutte per i loro primissimi, iconici vagiti: “The Exorcist”, “Fallen Angel” e “Burning In Hell” in particolar modo rappresentano i tasselli più noti e incrollabili dell’enorme contributo dato dai Possessed all’intero panorama metal globale, insieme alla sopracitata “Death Metal”, ovviamente.
Chi scrive avrà occasione di vedere dal vivo i Possessed altre due volte nelle prossime settimane, con tutta l’intenzione di verificare quale sia il margine di miglioramento della resa live di Jeff e compagni, cui comunque possiamo solo porgere i nostri sentiti omaggi, indipendentemente da qualche sbavatura nel comparto sonoro e da qualche – perdonabile – colpo mancato dal comparto vocale. (Roberto Guerra)
SOULFLY
Ogni volta che si è in attesa di un concerto ad opera di Max Cavalera, a prescindere dal progetto con cui decide di presentarsi, c’è sempre un percettibile alone dubbioso ad aleggiare sul pubblico presente, dato probabilmente da una qualità non esattamente costante delle sue apparizioni in veste di musicista e pilastro cardine di una line-up come quella odierna, esclusi ovviamente gli headliner.
Tuttavia, in questa sede notiamo con piacere che il corpulento e selvaggio frontman brasiliano si mostra carico e in buono stato di forma, come confermato dalle sue movenze on stage e dalla sua abitudine di bestemmiare in italiano, nonché dalla sua volontà di sfoggiare la maglia della squadra di calcio locale, mentre propone ai suoi numerosi fan una buona quantità di estratti dal repertorio dei Soulfly, con in più qualche chicca: oltre alle immancabili “Back To Primitive”, “No Hope = No Fear” e “Eye For An Eye”, in scaletta trovano posto l’accoppiata recente “Superstition”/”Scouring The Vile” e persino le cover di “Wasting Away” dei Nailbomb e, come prevedibile, “Refuse/Resist” dei Sepultura.
Il momento più elevato è rappresentato però, a nostro modo di vedere, da “Bleed”, proveniente dall’apprezzato album autotitolato ed eseguita in compagnia di Richie Cavalera, figliastro di Max, che non perde tra l’altro occasione per ribadire la propria origine italiana da parte di padre, scatenando inevitabilmente un lungo applauso, per certi versi anche più scrosciante di quelli riservati alla fine di ogni pezzo proposto oggi.
Sebbene le nostre aspettative fossero relativamente basse, siamo lieti di annunciare di aver assistito ad un’ottima prova da parte dei Soulfly, che rendono in questo modo giustizia alla loro elevata posizione all’interno del bill, consci probabilmente di quanto sia difficile gettare il pubblico nella mischia al pari di chi si esibirà dopo. (Roberto Guerra)
CARCASS
Il compito di chiudere le danze non solo della giornata, ma dell’intero festival, spetta ai britannici Carcass e alla loro primitiva interpretazione di quello che sarebbe presto divenuto il death metal melodico, da sempre influenzato da quanto proposto dalla band guidata da Jeff Walker a partire dal terzo lavoro in studio “Necroticism – Descanting The Insalubrious”, con il quale la band a suo tempo ha preso le distanze dalla più grezza, ma sempre gradevole, miscela a tinte grind degli esordi, cui comunque la band porge sempre i dovuti omaggi ad ogni concerto con qualche pezzo ben assestato.
La scaletta parte col botto grazie a “Buried Dreams” dal capolavoro “Heartwork” per poi proseguire con uno show variegato e tutto sommato completo, mentre alle spalle della band si intravede una scenografia essenziale, ma proprio per questo dannatamente esaltante: vedere due testate Peavy 5150 in bella vista sotto la luce dei riflettori di luce bianca, attaccate a due casse microfonate e poi sguinzagliate fuori dall’impianto ci ricorda perché amiamo ancora tanto il sistema valvolare ed analogico, e la sberla sonora che ci colpisce in pieno volto sin dai primi rintocchi è un rinforzo a questa considerazione. Se poi consideriamo che tra le mani che impugnano gli strumenti ci sono quelle dell’inconfondibile Bill Steer, divenuto famoso come il chitarrista estremo dallo stile più vintage del creato, e del massiccio frontman sopracitato.
Purtroppo c’è qualche parentesi meno ‘vitale’ in concomitanza degli estratti dal più recente “Torn Arteries”, che personalmente continua a non convincerci, anche se dal vivo ci piace più che su disco, ma quando la band dà fondo al proprio repertorio classico non ce n’è davvero per nessuno, come confermato dal violento e imponente moshpit che si scatena di fronte al palco, con tanto di crowd surfing e gomitate in testa nei casi più sfortunati. In particolare durante “Heartwork” la sensazione è che la transenna possa arrivare vicina al crollo, considerando la quantità di botte e spinte scatenata dai mosher in direzione delle prime file.
Forse avremmo sacrificato qualche medley in favore di un pezzo intero o due in più, così come non ci sarebbe dispiaciuto sentire qualche altro richiamo, oltre alla conclusiva “316L Grade Surgical Steel”, all’album del 2013 “Surgical Steel”, ma nel complesso riteniamo che i Carcass abbiano letteralmente messo a ferro e fuoco la location, offrendo ai presenti il miglior atto finale possibile.
Prima di congedarci, gli organizzatori e i collaboratori ci salutano dal palco, ad ulteriore dimostrazione dell’immenso cuore che si cela dietro l’organizzazione di questo evento, a scanso di qualche ingenuità che ci auguriamo possa essere gestita in maniera ancora più professionale l’anno prossimo. (Roberto Guerra)
Guarda tutte le foto della terza giornata.