Introduzione e report a cura di Marco Gallarati
Venerdì 25 ottobre 2019 verrà ricordato a lungo da chiunque abbia presenziato, al Live Music Club di Trezzo sull’Adda, al concerto-monstre dei Machine Head, probabilmente l’evento singolo più atteso dell’anno e sicuramente l’highlight di questo spezzone autunnale di stagione concertistica. Verrà ricordato a lungo principalmente per due fatti: l’aver proposto per intero l’esordio “Burn My Eyes”, di cui ricorre il venticinquesimo anniversario dalla pubblicazione (1994), in formazione quasi originale; la durata fantasmagorica del set, ben tre ore e trentacinque minuti, dalle 20.30 circa alle 00.05 circa! Uno show unico di rara intensità e peso specifico estremo, che ha messo a dura prova di certo i musicisti in primis – soprattutto Flynn e MacEachern, sempre sul palco – ma anche noi astanti, ‘costretti’ a stare in piedi per molto più tempo di quanto la durata media delle performance degli ultimi anni ci ha abituato, a prescindere dal genere di metal a cui ci si riferisca, classico, alternativo od estremo. Nessuna band di supporto presente, nessun entertainer speciale, solo il monolitico spettacolo di un gruppo di cui si parla tantissimo e si discute ancor di più, divisi e fatti cozzare verbalmente dalle azzardate uscite social del suo mastermind e leader maximo, dai fatti accaduti attorno alla band nell’ultimo anno e mezzo e dal valore discutibile della sua ultima opera, quel “Catharsis” che ha provocato la fuoriuscita dai Machine Fuckin’ Head degli ormai ex storici Dave McClain e Phil Demmel.
Oppure. Oppure, tornando un attimo ad inizio introduzione, venerdì 25 ottobre 2019 ce lo saremo dimenticato fra al massimo cinque giorni, travolti dalla frenesia dell’Era Virale, nella quale si deve partecipare testimoniando l’esserci, condividere per vivere e poi passare elegantemente ad altro, ripetendo ad infinitum il circolo vizioso dell’Obnubilato. Siamo pressochè certi avverrà questa seconda ipotesi, ma è pur vero che al prossimo ritorno dei Machine Head in Italia tutti riacquisteremo la memoria e ci ricorderemo di essere stati presenti ad un evento che, per certi versi, è stato e rimarrà epocale.
Abbiamo preferito, vista la particolarità della data, dividere il report sottostante in due tronconi, dedicati alle due parti di serata svoltesi. Buona lettura.
NB: non sono presenti fotografie ufficiali dell’evento in quanto i Machine Head non hanno rilasciato photopass.
MACHINE HEAD – 1^ parte
Alle 20.30 dunque, con una venue stipata per gran parte ma senza raggiungere il sold-out, si comincia. La popolazione del Live è parecchio variegata in termini anagrafici, segno che Robb Flynn e soci riescono ancora ad attirare la frangia old-school divenuta metallara in piena epoca grunge o tempo prima e ad ampliare una giovane e giovanissima fanbase con sempre più ‘nuovi arrivati’, che probabilmente, di “Burn My Eyes” e del periodo nu- dei MH, hanno solo in mente i video visionabili in rete. C’è curiosità di testare all’opera la nuova formazione ufficiale del gruppo di Oakland, completata dai recenti innesti europei rispondenti al nome di Matt Alston (inglese, batteria, Devilment, Eastern Front) e Waclaw ‘Vogg’ Kieltyka (polacco, chitarra, Decapitated), ma c’è soprattutto la voglia di verificare con i propri occhi come diavolo sarà questo show mastodontico che i Nostri stanno promuovendo da mesi in tutti i modi possibili.
Le setlist delle date precedenti del tour ormai si trovano con estrema facilità on line, quindi non ci stupiamo quando risuonano i primi arpeggi di “Imperium”, chiamata ad aprire le danze con il suo incedere possente, vario ed epico, che anima fin da subito tutti, e che poi sega in due una prima volta l’audience all’altezza del break assassino di centro canzone, in grado di far partire il mosh d’esordio della serata. I suoni sono buoni, ma non tutto quadra alla perfezione, infatti proprio i due nuovi arrivi ci paiono un po’ penalizzati dal settaggio iniziale, con Alston alle prese con un kit un po’ confuso e ‘sporco’ (ricordate sicuramente la pulizia e la ‘pacca’ del drumming di McClain, qui il paragone è un po’ impietoso) e Vogg a volumi limitati da un Flynn fin da subito in gran palla. Il cinquantaduenne leader bada al sodo, poche chiacchiere, poche stronzate, i soliti atteggiamenti comuni a tutti i grandi padri-padroni della scena metal: richiami continui a circle-pit e ‘spread out’, birre e corna al cielo, forzature di reazioni di risposta, Milano di qui, Milano di là, ma nulla di effettivamente sopra le righe. La vecchia “Take My Scars” tiene botta molto bene e poi da qui, alternando due-tre pezzi alla volta a brevi pause di dissetamento doverose, si inizia una lunghissima cavalcata attraverso tutta la discografia degli americani, capaci di riproporre con fedeltà, perizia, passione e qualche aiutino in base ogni brano scelto per l’occasione. Molto sentita “Now We Die”, mentre il nuovissimo singolo “Do Or Die”, del quale rammentiamo meglio la polemica bipolare sorta tra Flynn e i Dope nelle ultime settimane, ha fatto una figura decente ma del tutto by-passabile. Giochi di fumo e un impianto luci imponente, unito ad una scenografia macroscopica ma tutto sommato sobria, sono le uniche alternative visive al soffermare gli occhi sulle dita dei musicisti solcanti i loro strumenti, con un Vogg che si dimostra ottima (e sì, un po’ dimessa) spalla di Flynn, oltre che un chitarrista di livello, e Jared MacEachern super-funzionale alle backing vocals. Robb fa tutto il resto, cantando discretamente bene e limitandosi allo stretto indispensabile dell’intrattenimento. Fino ad un certo punto, però: passano tra qualche sbadiglio le impegnative “Locust”, “This Is The End”, “I Am Hell (Sonata In C#)” e la solita dedica di “Aesthetics Of Hate” a Dimebag Darrell; passa anche un momento solista dedicato a Vogg, obiettivamente non interessantissimo; e poi arriva il momento di Robb ‘DeMaio’ Flynn, che attacca un pippone di cinque minuti a mo’ di introduzione per “Darkness Within”, partendo dal suo amore per le passeggiate nelle città in cui si trova in tour, transitando per la fascinazione nel vedere il Duomo di Milano e connettendosi al tutto per arrivare ad elogiare la musica, che gli ha regalato i suoi momenti più alti e l’ha salvato nei suoi periodi più bui. Anche un bel discorso, ammettiamolo, non provenisse da un personaggio particolare come lui. Segue “Darkness Within”, chiaramente.
Ottima l’accoppiata più vecchia scuola formata da “From This Day” – accolta benissimo dal pubblico, nonostante sia contenuta nel controverso “The Burning Red” – e l’inossidabile “Ten Ton Hammer”. A questo punto i suoni sono regolati meglio, ma Flynn si imbatte in una versione di “Is There Anybody Out There?” un po’ claudicante, con la voce che ha avuto gli unici cedimenti importanti del concerto; la canzone comunque ha un fortissimo grip sul pubblico, grazie al suo deciso ed orecchiabile piglio hard rock. Si guarda l’orologio sempre più spesso, ora, perché sappiamo che l’arrivo di “Burn My Eyes” è molto vicino. I Machine Head formazione attuale non hanno ancora finito, però, e trovano il jolly con la cover di “Hallowed Be Thy Name” degli Iron Maiden, che chiunque in sala (forse) dimostra di conoscere a memoria. E’ una bella riproposizione e finalmente, dopo un’altra brevissima interruzione, Robb annuncia “Halo”, che sappiamo chiudere la prima parte di spettacolo. Lo stesso vocalist ci informa dei dieci minuti di pausa per permettere il cambio del drumkit e della scenografia, Vogg e Alston se ne escono senza particolari saluti e noi presenti rifiatiamo con piacere da quella che è stata già una prova fisica di tutto rispetto. Fino a qui i Machine Head ci hanno stupito per la resistenza, un po’ meno per il resto, che ad ogni modo si è assestato su livelli alti.
Setlist 1^ parte:
Diary Of A Madman (intro – Ozzy Osbourne)
Imperium
Take My Scars
Now We Die
Beautiful Mourning
Do Or Die
Locust
This Is The End
I Am Hell (Sonata In C#)
Aesthetics Of Hate
Guitar solo (Vogg)
Darkness Within
Catharsis
From This Day
Ten Ton Hammer
Is There Anybody Out There?
Hallowed Be Thy Name (cover Iron Maiden)
Halo
MACHINE HEAD – 2^ parte
Durante la pausa si scambiano i primi commenti a caldissimo sul concerto e pochi, davvero pochi, sono quelli negativi. La stanchezza si ritempra rapidamente, magari anche al solo pensiero che, dopo due ore e mezza di musica, adesso sta per iniziare la parte più attesa; o perlomeno quella che ha spinto moltissima gente, qui a Trezzo, a vincere l’idiosincrasia per il Flynn social e ‘kapò’ e dargli una chance finale in sede live, suo terreno di gioco più redditizio.
La scenografia è cambiata rispetto a prima: il backdrop gigante e i pannelli laterali richiamano ora “Burn My Eyes” e la figura umana della cover, dalla quale partono saette dagli occhi, campeggia inquietante sopra il drumkit. Le luci si abbassano e dal nulla si ode partire in base il brano “Real Eyes, Realize, Real Lies”: il vociare urbano e poliziesco dei vari inserti campionati si adagia perfettamente sulle luci rosse e azzurre che vengono fatte circolare a 360°, esattamente come quelle delle volanti della polizia americana. L’effetto è azzeccatissimo e subito si percepisce come l’atmosfera stia cambiando: un sentore di guerriglia, cupo ed oscuro, si profila all’orizzonte e quando Chris Kontos si palesa alla batteria siamo pronti all’urlo di battaglia. ‘Let freedom ring with a shotgun blast’ viene intonato da Flynn e tutto il Live, e la rullata d’ingresso di “Davidian” ci lancia in faccia una cannonata di piombo. La maestria di Kontos è baciata dai suoni finalmente puliti e secchi del suo drumset, mentre la grossa differenza, a nostro parere, per dare quel senso oppressivo di chiusura, venti di ribellione e violenza urbana alla riproposizione di “Burn My Eyes”, è rappresentata dai volumi e dalle linee di basso di MacEachern, rimbombanti in modo impressionante rispetto alla prima sessione. E qui ci piacerebbe comunque ricordare un personaggio che, per certi versi, ha mostrato di essere di una coerenza rimarchevole: ci riferiamo ovviamente ad Adam Duce, il grande assente della formazione originale dei Machine Head; purtroppo mai menzionato, mai ricordato, mai citato dal vecchio amico Flynn…e che invece magari un pochettino se lo sarebbe meritato, forse-ma-forse, un applauso da Trezzo. Unico un po’ sacrificato, chiudendo la parentesi polemica, ci è parso Logan Mader, la cui chitarra è andata in crescendo restando però leggermente nelle retrovie. Lo si sapeva, del non eccelso tecnicismo di Mader, ma qualche tacca di volume in più avrebbe fatto sicuramente massa. Il breakdown che chiude “Davidian” si conferma per l’ennesima volta il miglior breakdown mai concepito quando ancora queste parti spaccacollo non si chiamavano così: headbanging collettivo e capelli roteanti ovunque.
“Old” è la canzone seguente ad essere presentata e di nuovo la venue si vede costretta a partecipare a pieni polmoni, durante quello che è riconosciuto come uno fra i migliori chorus della discografia dei Machine Head; chiunque in sala si trova in men che non si dica, difatti, a gridare a squarciagola ‘Jesus wept’. Arriva, a ruota, la mai dimenticata “A Thousand Lies” e sono i salti a farla da padrone, al Live, nel bel mezzo delle ripartenze groovy del pezzo, nel quale Robb Flynn si adoperò in un bel flow hip-hop qualche anno prima delle svolte nu- di “The Burning Red” e “Supercharger”: ma qui l’atmosfera, e soprattutto il resto del brano, sono di una pesantezza e di una claustrofobia terribili, e lo dimostra il finale al rallentatore con i suoi ripetuti ‘slow’ catacombali. Si chiude un poker di partenza (mettendo da parte le due ore e un quarto precedenti) da infarto con la monolitica “None But My Own”: gli arpeggi su cui ondeggia la strofa angosciante sono buio che cola, spazzato via dalle sezioni più aggressive di tal brano fondi-cervella. E’ tempo di divertissement, giusto per rischiarare un attimo il mood malsano venutosi a creare con l’esecuzione di “Burn My Eyes”, con anche Flynn che ha abbandonato parzialmente le vesti da imbonitore del weekend per concentrarsi maggiormente sull’esecuzione, tanto che pare di trovarsi di fronte quasi ad una band diversa da quella calcante lo stage fino a mezzora prima. Divertissement, scrivevamo…ed è Kontos a prodigarsi in un lungo assolo alle drums, utilissimo ad introdurre, all’ennesima ripresa dell’esercizio di stile, la successiva “The Rage To Overcome”, canzone il cui incipit è proprio una selva di tamburi tuonanti; anche in questo caso ci si trova, inevitabilmente, a sgolarsi nel momento del verso ‘an open mind with a closed fist’, ma è impossibile restare impassibili di fronte alla potenza anthemica sprigionata dalle tracce di tale capolavoro d’album.
I Machine Head se ne tornano per breve tempo nelle retrovie, per rientrare pochissimo dopo e proporci probabilmente il trittico di brani più devastante ed iconico della serata. “Death Church” e la sua mortale cadenza apocalittica lasciano basiti per intensità e profondità, con ancora Flynn in grado di reggere l’impegno; ma è con “A Nation On Fire” e “Blood For Blood” che i Nostri toccano lo zenit di coinvolgimento: il finale tellurico della prima e la vigoria frenetica della seconda sono mischiati e connessi in un tutt’uno di annichilimento che può solo far spellare le mani per la violenza profusa in un pogo davvero killer. A questo punto – e speriamo che in tanti abbiano fatto il collegamento – il frontman di Oakland chiede agli astanti di accendere le torce dei telefonini, ponendole in alto rivolte alla band: è la volta di “I’m Your God Now”, brano le cui lyrics parlano di dipendenza; non sappiamo se l’intento di Flynn fosse quello di prodursi propriamente in una critica sociale, ma diciamo che sì, ci piace pensare ciò al posto di considerare questo momento ‘romantico’ un mero gioco di luci. Il nostro Dio d’oggigiorno è proprio il telefonino, poche palle. Sarebbe infine la volta di “Block”, pezzo praticamente rinominato ‘Fuck It All’ per usucapione e che tutti conoscono a menadito e attendono con impazienza; siamo oltre le tre ore di durata, schiene e gambe iniziano a cedere e il pensiero di un letto accogliente, soprattutto per noi vecchietti di una certa, inizia a trasformarsi in bisogno urgente. Ma i Nostri sono impietosi, chiudono momentaneamente le porte all’Oscurità per dare spazio ad una ventina di minuti di alternanza di cover, eseguite a mo’ di versione in sala prove: si susseguono spezzoni di “One” dei Metallica e di “Smells Like Teen Spirit” dei Nirvana, per poi presentare una rapida, ma quasi completa, “Bulls On Parade” (Rage Against The Machine); si procede ancora con “South Of Heaven” degli Slayer e, infine, un brevissimo accenno castrato di “Raining Blood”. La band la chiude qui e, al rimarchevole scoccare dei duecentodieci minuti di durata di concerto, annuncia “Block”, che proietta tutti quanti in un brodo di caos primordiale e atavico, fino a giungere allo sfogo anarchico dei generalisti e ripetuti ‘Fuck It All’ del ritornello e di fine brano.
Prestazione davvero ‘da macchine’ per i Machine Head, quindi. Difficile dedicare male parole ad un gruppo che omaggia i fan con uno show così lungo, fisicamente intenso e qualitativamente più che buono come quello a cui abbiamo assistito il 25 ottobre 2019. Si può disprezzare la band, si può avere in antipatia Robb Flynn e le sue svariate manie, ma di fronte alla bontà di una serata così bisogna solo mettere da parte i pregiudizi e alzare per aria le corna. Saluti finali generali e prolungati per tutti e sei i musicisti on stage, presentati uno ad uno, e poi si torna a casa, a godersi immagini sfavillanti qualche attimo prima di addormentarsi beati e riabbracciare Morfeo.
Setlist 2^ parte:
Real Eyes, Realize, Real Lies (intro)
Davidian
Old
A Thousand Lies
None But My Own
Drum solo (Chris Kontos)
The Rage To Overcome
Death Church
A Nation On Fire
Blood For Blood
I’m Your God Now
Cover jam (One, Smells Like Teen Spirit)
Bulls On Parade (cover Rage Against The Machine)
South Of Heaven (cover Slayer con coda di Raining Blood)
Block