13/11/2011 - MACHINE HEAD + BRING ME THE HORIZON + DEVILDRIVER + DARKEST HOUR @ Alcatraz - Milano

Pubblicato il 19/11/2011 da

Introduzione a cura di Marco Gallarati
Report a cura di Marco Gallarati e Maurizio Borghi
Foto a cura di Riccardo Plata

In un novembre meneghino (e metallico) quasi al collasso per l’assommarsi di eventi live ed appuntamenti più o meno imperdibili, forse il più imperdibile di tutti è stato quello andato in onda domenica 13 in un Alcatraz non sold-out, ma comunque gremito di gente. Settaggio A, ovviamente, per i Machine Head, assenti dai palchi italiani da quasi due anni e ora tornati alla grande in pista con l’ottimo “Unto The Locust”. Ci si aspettava tanta gente non solo per la presenza di suddetto headliner, oltre al fatto che la data capitasse in un giorno festivo pure scevro dal campionato di calcio, ma anche perché i restanti tre gruppi del pacchetto sono benissimo in grado di portare avanti tour da headliner a loro volta: Devildriver e Darkest Hour sono due entità ormai esperte ed affermate, mentre i penos…ehm…discussi Bring Me The Horizon, nonostante le critiche e le polemiche, hanno comunque dimostrato di avere un seguito incomprensib…ehm…corposo. Se qualcuno di voi, inoltre, sperava di poter vedere i Metallica – impegnati nel pomeriggio nelle registrazioni della puntata di Che Tempo Che Fa di Fabio Fazio – magari fare un’ospitata on stage con Flynn e compari…be’, niente da fare, niente Four Horsemen. In compenso – tanti onori a loro! – avvistati in mezzo al pubblico gli Iced Earth al completo, previsti l’indomani in questa stessa venue. Altra popolarità, altri interessi, altra attitudine. Ma bando alle ciance, ecco i Darkest Hour entrare in scena!

 


DARKEST HOUR

Sarà parso un sogno, ai tanti giovani (e meno giovani) in fila pazientemente fuori dal locale fin dall’ora di pranzo, quando alle 18.15 spaccate, from Washington, DC, i Darkest Hour attaccano finalmente la loro “The World Engulfed In Flames”, giusta esplosione dell’intro “Terra Nocturnus”, entrambe tratte dalla fatica di inizio anno a titolo “The Human Romance”. La melodic death metal band americana apre con vigore le ostilità di un bill bellicoso, attraverso suoni già capaci e piacevoli, con il solo sacrificio di una batteria un po’ persa dietro il discreto muro sonoro di chitarre e basso e dietro le grida di John Henry, apparso in buona forma vocale e desideroso di dare il giusto incipit ad un pubblico in parte anche presente per loro. Si scatenano, infatti, fin dall’orario dell’ape milanese (aperitivo, per i non autoctoni), focolai di pogo e bailamme vari, che forniscono bene l’idea di come i Darkest Hour, pur non essendo mai stati completamente parte della scena metal-core, riescono e probabilmente riusciranno a sopravvivere alla decadenza del trend. “No God” ed il singolo “Your Everyday Disaster” sono stati fra i brani meglio eseguiti di una setlist chiusa dall’ottima “Doomsayer (The Beginning Of The End)” e purtroppo orfana, almeno per chi scrive, di un pezzo perfetto quale “The Sadist Nation”, ormai del resto datato 2003. Comunque sia, la prima mezzora di musica pare esser stata spesa bene! Palla ai Devildriver.
(Marco Gallarati)

 

DEVILDRIVER
La serata incalza quando sul palco salgono i Devildriver, formazione ormai consolidata che con cinque album alle spalle non ha bisogno di presentazioni. Pur essendo passati con frequenza dalla penisola, in molti aspettano di vederli per la prima volta dal vivo e di testarne l’effettiva efficacia dopo aver apprezzato le convincenti prove in studio. Sfortunatamente, come è accaduto in altre occasioni, il mixaggio ha azzoppato in maniera indecente la prova dei californiani, che nuovamente non sono riusciti ad esprimersi al meglio. Non si può infatti negare la preparazione tecnica, l’accorta esecuzione dei pezzi, la presenza scenica d’impatto: semplicemente i suoni sono rimasti impastati e confusi e uno dei punti focali quale la batteria di Jonathan Boecklin è rimasto in gran parte sommerso in un impasto di suoni davvero poco professionale. Il gruppo porta a casa lo stesso la serata grazie all’inossidabile carisma di Dez Fafara, che ritrova i vecchi sostenitori e ne trova di nuovi generando con poche ed incisive parole il caos sotto il palco, senza tralasciare un immancabile e devastante circle-pit di bibliche dimensioni. Molti occhi sono sull’ex-Bury Your Dead Aaron “Bubble” Patrick, tour manager e bassista della formazione dal licenziamento di John Miller: il musicista, forse un po’ fuori luogo visto il look, se la cava egregiamente e sforna una prova energica e senza sbavature. Un altro successo meritato dunque, che si porta però con sé un’inevitabile domanda: non è tempo di cambiar fonico o sganciare una mazzetta a quello dell’headliner?
(Maurizio Borghi)

Setlist:
End Of The Line
Head On To Heartache (Let Them Rot)
Dead To Rights
You Make Me Sick
Not All Who Wander Are Lost
Before The Hangman’s Noose
I Could Care Less
Clouds Over California

 

BRING ME THE HORIZON
Abbiamo temuto veramente il peggio per i Bring Me The Horizon, collocati in una posizione davvero privilegiata e in forte contrasto coi gusti del pubblico degli headliner, in Italia molto old-school e poco propensi ad ogni tipo di modernità. Alla fine dello show dei Devildriver, però, rimaniamo piacevolmente stupiti dal completo disinteresse della folla, che approfitta dei minuti riservati agli inglesi per farsi un giretto al bar (la direzione dell’Alcatraz ringrazia). L’attacco di “Diamonds Aren’t Forever”, purtroppo per la band e per i suoi sostenitori, giustifica le maledizioni più oscene lanciate dai diehard fan dei Machine Fuckin’ Head. Chi scrive ha saputo apprezzare i lavori in studio del gruppo, è incline alle sonorità moderne e, quant’è vero Iddio, ha assistito a concerti veramente orripilanti (Brokencyde o Jeffree Star, per citarne un paio), ma non si sarebbe mai aspettato tale sconcertante mediocrità. Una band scoordinata, un frontman sguaiato e sgolato, una presenza scenica energica ma allo stesso tempo svogliata e poco comunicativa. Le canzoni della setlist sono quasi irriconoscibili e, come se non bastasse, andando avanti la performance cala ulteriormente verso l’abisso; le pause tra una canzone e l’altra si allungano oltre ogni comprensione; l’irritazione di chi è rimasto nei paraggi sale vertiginosamente. Aaron “Bubble” Patrick, il più fashion dei componenti dei Devildriver, partecipa cantando le clean vocals di “Fuck” e si dimostra per qualche minuto un cantante migliore di quello designato. Per non rischiare la rissa, l’idolo Oli Sykes incassa ogni insulto senza proferire parola, ma quando parte il prevedibile e quasi obbligatorio remix 2 step si rischia davvero la rivolta. Il buon senso del pubblico ha la meglio per fortuna e agli inglesi non resta che rivolgersi alle prime file (qualche sostenitore variopinto era pur sempre presente) e concludere l’indegno siparietto con “Blessed With A Curse” (interminabile) e “Chelsea Smile”. Al posto di migliorare…
(Maurizio Borghi)

Setlist:
Diamonds Aren’t Forever
Alligator Blood
Fuck
Sleep With One Eye Open
Football Season Is Over
Blessed With A Curse
Chelsea Smile

 

MACHINE HEAD
Un fastidioso ronzio. Un ronzio fottutamente durato tre giorni. Questa è l’ultima sensazione fisico-emotiva che ci avevano lasciato i Machine Head nel febbraio del 2010, strascico di un concerto apprezzato e di successo ma rovinato in maniera pietosa e criminale da volumi da ricovero coatto (per chiunque ne fu responsabile). E avevamo paura, certo, che la terrificante evenienza potesse venire a ripetersi anche questa volta. Ma per fortuna – e per puro buonsenso patologico – così non è andata, e abbiamo potuto apprezzare appieno uno show devastante per intensità, tenuta e repertorio, un po’ claudicante se andiamo ad analizzare nel dettaglio la prestazione – soprattutto vocale – della band. Un grande schermo sul fondale e due più piccoli ai lati della batteria ‘orizzontale’ di McClain forniscono una buona e non troppo pacchiana coreografia ai Machine Fuckin’ Head, con passaggi e accenni di immagini degli album da cui vengono tratti via via i pezzi. Era pressoché ovvio si partisse con la monumentale “I Am Hell (Sonata In C#)”, opener di “Unto The Locust”, eseguita nel tripudio generale in maniera encomiabile per essere il primo brano. Ciò che invece non era così scontato, era la proposizione quasi in toto dell’ultima fatica, da cui la formazione di Oakland ha lasciato da parte solo “Who We Are” e “Pearls Before The Swine”: sono passate dunque al vaglio “Be Still And Know” – grossi problemi per Flynn nello stare attaccato al microfono durante il bridge prima del chorus, tant’è che la parte vocale non si è proprio udita – l’osannata “Locust”, la metalcore-oriented “This Is The End” – e qui va segnalata l’eccessiva squillanza delle backing vocals di Adam Duce durante il ritornello, imperfezione che ha fregato non poco la riuscita globale del brano – ed infine la semi-ballatona di turno, quella “Darkness Within” che ha visto il singer prima promulgarsi in una filippica pro-musica (a richiamare le lyrics della canzone) e poi cantare la prima strofa in solitaria con chitarra acustica. A dimostrazione che i quattro di Oakland non disdegnano niente della loro discografia, durante l’ora e tre quarti (!!) di performance, ecco almeno un episodio estratto da ogni album da loro composto, con “The Blood, The Sweat, The Tears” e “Bulldozer” a rappresentare i due scandalosi “The Burning Red” e “Supercharger”. Peccato per la sola “Ten Ton Hammer” proveniente da “The More Things Change…”, un po’ sacrificato; mentre “Imperium”, che è e si conferma una delle canzoni più apprezzate in assoluto dal pubblico, basta e avanza per “Through The Ashes Of Empires”. Non viene dimenticato ovviamente neanche “The Blackening”, da un combo che non offre un grande spettacolo dal vivo, ma che si fa forte di un repertorio mostruoso ed eccezionale, in grado di by-passare presenza on stage, vuote parole, video e altre menate assortite. Diciamolo chiaramente: non avessero scritto le loro canzoni, nel bene e nel male, non ci sarebbe forse nessun Machine Head da esaltare e glorificare. “Davidian” ha chiuso lo spettacolo in modo decente e ormai su di giri, con il suo solito finale slow massacrante. La band, dunque, non ha fornito una prova perfetta, ma l’entusiasmo è andato comunque alle stelle e la voce è finita a metà strada tra un abisso e una cantina. Un piccolo trionfo – stavolta giustificato dai suoni umani! – e un’ulteriore conferma per un gruppo fra i più amati in circolazione!
(Marco Gallarati)

Setlist:
I Am Hell (Sonata In C#)
Be Still And Know
Imperium
Beautiful Mourning
The Blood, The Sweat, The Tears
Locust
This Is The End
Aesthetics Of Hate
Old
Darkness Within
Bulldozer
Ten Ton Hammer

Encore:
Halo
Davidian

 

 

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