19/11/2014 - MACHINE HEAD + DARKEST HOUR + DIABLO BLVD @ Alcatraz - Milano

Pubblicato il 21/11/2014 da

Introduzione a cura di Maurizio ‘Morrizz’ Borghi
Report a cura di Marco Gallarati

Dopo tre anni i Machine Head si ricongiungono col pubblico milanese, tornando a suonare all’Alcatraz per la quarta volta nella loro carriera (se ovviamente si conta lo show del dicembre 2007, interrotto sul finale per lo svenimento di Phil Demmel). Archiviata la difficile separazione con il bassista storico Adam Duce, è chiaro a tutti come l’incarnazione attuale faccia perno più che mai sul frontman ed unico elemento fondatore rimasto, Robb Flynn a.k.a. The General, che ha preso definitivamente in mano le redini del gruppo. Dopo vent’anni di onorato servizio, in cui la band è rimasta attiva pur costretta a lottare più volte per la propria sopravvivenza, i Machine Head hanno raggiunto nel 2014 lo status di gruppo ‘classico’ del genere, che attira fan affezionati, sia che siano nostalgici dei ’90, sia nuove leve di metalkid, grazie ad un sound che si è allargato in varie direzioni ma che in qualche modo è comunque rimasto fedele a se stesso. L’ottavo album in studio “Bloodstone & Diamonds”, ancora fresco di stampa, è un’ulteriore novità che solletica le aspettative del pubblico, che in perfetto stile milanese riempie il club con tutta calma. Di sicuro gli opener sono la parte meno interessante sul tavolo: se in passato il package era fornito di nomi di prim’ordine (ricordiamo ad esempio Hatebreed, Bleeding Through, Devildriver, o i contestati Dragonforce e Bring Me The Horizon), in serata sono previsti i Darkest Hour e i semi-sconosciuti Diablo Blvd. I primi validi, ma già visti nello stesso contesto, con l’aggravante di un disco parecchio rischioso per la svolta melodica; i secondi, totalmente avvolti nel mistero e accorsi all’ultimo per sostituire i defezionari Devil You Know, si esibiscono davanti ad una sala impietosamente vuota. Assistiamo ad un paio di pezzi e i Nostri ci sembrano motivati e professionali, anche se la loro proposta – un heavy rock tra Corrosion Of Conformity, Danzig e The Cult – ci sembra un pelo fuori luogo. Per essere la band di un comico belga famoso in madrepatria ci aspettavamo almeno un po’ di cabaret, ma visto che non abbiamo assistito che a due pezzi della scaletta non vogliamo sbilanciarci in un giudizio definitivo. E quindi andiamo avanti con il proseguo dell’evento…

Machine Head - flyer - 2014

DARKEST HOUR
Ridendo e scherzando, i sempre-giovani Darkest Hour sono giunti al ventesimo anno d’attività, a quindici anni dal debutto “The Mark Of The Judas” e, con il da poco pubblicato nuovo disco omonimo, all’ottavo full-length in carriera: traguardi invidiabili per una formazione che ha vissuto il momento di massimo splendore durante il boom del metal-core, trend del quale i Nostri hanno fatto parte ma solo in maniera trasversale, e che, da quando la moda è lentamente scemata, si è trovata a doversi un attimo re-inventare, andando a melodicizzare sempre più il proprio suono, ora a tratti anche associabile ai penultimi In Flames. Per la seconda volta consecutiva la band supporta i Machine Head in Europa, stavolta in veste di main support act, e dobbiamo dire che le carte in regola per fare bella figura i ragazzi le hanno messe sul piatto tutte: escludendo la mise un po’ troppo da nerd del vocalist John Henry – lungi da noi manifestare troppo apprezzamento per le formazioni che curano tanto il look, ma un minimo di uniformità è gradita: il singer dei Darkest Hour è parso invece più un elemento aggiunto ad una line-up coesa invece di esserne il cardine portante e fondatore – dicevamo…escludendo la mise di Henry, il quintetto di Washington, DC si è presentato in formissima sul palco e ha iniziato a sciorinare il proprio melodic death metal con richiami metal-core in maniera capace e potente, grazie anche a dei suoni ben bilanciati e corretti in fretta dai fonici, non appena accortisi dei volumi troppo roboanti delle prime tracce. Il nuovo batterista Travis Orbin ha lasciato davvero poco spazio allo spettacolo, impegnatissimo a pestare di brutto, grosso com’è, su un drumkit parso realmente minuscolo di fronte ai suoi bicipiti; ci hanno pensato comunque i tre axe-men a sollazzare la platea con un’ottima e ripetuta pletora di assoli melodici e pose ‘classiche’. L’Alcatraz si è andato quindi pian piano riempiendo e l’audience più giovane ha trovato modo di menare un po’ le mani prodigandosi in qualche circle-pit e in decenti poghi. Quaranta minuti di esibizione per l’Ora Più Oscura, tempo che ha visto il suo picco di violenza nell’esecuzione del brano-simbolo della prima parte di carriera dei Darkest Hour, quella “The Sadist Nation” che ancora oggi riesce a farci parecchio esaltare. Si spengono i riflettori, puntuali, alle 20.30 ed inizia l’attesa più lunga per i tanti malati di Machine Fuckin’ Head accorsi ad ammirare i propri beniamini…

MACHINE HEAD
Ed è con cinque minuti di ritardo che, finalmente, i Machine Head si affacciano nel buio dello stage, per l’occasione tutto bardato di rosso e nero e di drappelloni riportanti l’effigie della band in bianco-nero, scenografia peraltro identica a quella già usata nella data estiva al germanico Summer Breeze Open Air. L’incipit, così come in quella piovosa serata di metà agosto, è affidato a “Imperium”, che si presenta imperiosa e con suoni già discretamente settati, unicamente – e comunque leggermente – deficitari nella secchezza ostentata del rullante di batteria e nella non ottimale nitidezza delle ritmiche di chitarra. Dettagli, quasi inezie, che certamente prendono aspetto soggettivo e che soprattutto fanno del tutto dimenticare il disastro sonoro della calata dei Nostri nel 2010, quando, con Hatebreed e Bleeding Through, sfondarono una discreta serie di timpani con volumi criminali. Resa più che buona, perciò, quella odierna dei Machine Head, che dopo l’apocalittica “Imperium” vanno giù pesante con una manciata di brani davvero impegnativi per lunghezza e profondità: “Beautiful Mourning”, la nuova “Now We Die”, primo estratto da “Bloodstone & Diamonds”, e “Locust” mettono alla prova l’audience che ormai affolla l’Alcatraz e che risponde con entusiasmo e vigoroso dinamismo. Dobbiamo ammettere che ci saremmo aspettati più gente per la corazzata MH e, almeno fino ai Darkest Hour, la venue meneghina settata in versione A mezza vuota avrebbe fatto presagire un quasi-fiasco per il combo di Oakland; a fine concerto, però, pur non raggiungendo le vette d’affluenza delle ultime volte nel milanese, Flynn e compagni crediamo possano ritenersi soddisfatti del successo ottenuto, ancora una volta. Per fortuna la band ci ha risparmiato il momento-cover – gettonatissimi, in altre date di questa tournée, gli Iron Maiden – interpretando bene lo status di formazione-traino della ‘nuova’ generazione di Mostri Sacri del Metal, senza lasciarsi andare ad abusati omaggi di gioventù a discapito di materiale originale. A farci scampare la cover, ecco un breve salto nel passato composto da “The Blood, The Sweat, The Tears” e “Ten Ton Hammer”, due mazzate tra capo e collo che ci hanno riconciliato con il groove più moderno ben in auge alla formazione USA. Dopo l’apprezzata “Night Of Long Knives” e l’esaltante “Bite The Bullet”, ci tocca sorbirci il solito pippone nostalgico di Robb, che rammenta a tutti la longevità dei MH andando a rispolverare l’anniversario del ventennale della loro prima data italiana, quando vennero nel 1994 di supporto agli Slayer; e di seguito “Darkness Within”, episodio che piace tanto agli astanti ma che a nostro parere è piuttosto sopravvalutato. Si viaggia veloci verso il finale e il singolo “Killers & Kings” arriva subito dopo la solita ed efficace “Bulldozer”. E poi, come se nulla fosse, a mo’ di palla piombata, ecco precipitarci in testa tutta la furia e l’imponente dinamismo dell’immortale “Davidian”, che da sola vale sicuramente mezza setlist, se non di più. Siamo a quasi un’ora e venti di concerto ed è tempo per i bis: McClain, Demmel e MacEachern – quest’ultimo un suggestivo incrocio fisico tra Cliff Burton e James Hetfield del tempo che fu – non se lo fanno ripetere e scortano poderosamente Flynn nell’esecuzione prima di “Aesthetics Of Hate”, tranciata a metà, e poi di “Old”, durante la quale l’adrenalina degli accorsi viene fatta esplodere dal dissacrante urlo del frontman, che a pieni polmoni si è esibito in un inedito ‘cazzo duro, Milano!’ da sganasciarsi dal ridere. Si chiude, questa volta sul serio, con una seconda rientrata on stage e la proposizione dell’anthemica “Halo”, che sigilla l’apoteosi di uno show redditizio, divertente e assolutamente piacevole. I Machine Head, nonostante la pesante perdita di Duce, hanno saputo rigenerarsi per l’ennesima volta e, se possibile, ora la nuova line-up appare più affiatata e lanciata che mai. Il futuro è assicurato. Toccatevi pure tutti. Tié.

Setlist:
Diary Of A Madman (intro)
Imperium
Beautiful Mourning
Now We Die
Locust
The Blood, The Sweat, The Tears
Ten Ton Hammer
Night Of Long Knives
Bite The Bullet
Darkness Within
Bulldozer
Killers & Kings
Davidian
Encore:
Aesthetics Of Hate
Old
Encore 2:
Halo

15 commenti
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