A cura di Marco Gallarati
Foto di Francesco Castaldo
Dopo la pausa invernale del periodo natalizio, la stagione concertistica è ormai ripresa a pieno regime e certamente il Black Procession Tour è fra gli eventi più ghiotti a cui non mancare di questo inizio 2010! I Machine Head cavalcano ormai da quasi tre anni lo tsunami chiamato “The Blackening” ed è per ben la quarta volta che tornano in Italia per ingraziarsi i favori dei nostri metalheads; gli Hatebreed, reduci da un lavoro non entusiasmante, sono comunque una garanzia dal vivo; i Bleeding Through, almeno nel circuito metal-core, sono sicuramente fra le band più in vista, e si accingono a pubblicare il loro nuovo album. Peccato, invece, per la defezione annunciata degli All Shall Perish: un’altra band da manate in faccia non l’avrebbe disprezzata nessuno… Insomma, di carne al fuoco ce n’è proprio tanta e, come leggerete, i singoli concerti hanno riservato discrete sorprese! Alcatraz settato in versione A e in fase di riempimento: si entra!
BLEEDING THROUGH
Spacca il minuto – 19 in punto – la partenza dell’intro “Finis Fatalis Spei”, incipit della setlist dei Bleeding Through: “Declaration” segue a ruota e i cinque americani si fiondano sul palco con vigore e la presenza scenica di chi è ormai abituato a muoversi on stage parecchi giorni all’anno. Anche il quintetto di Orange County, come prima di loro Chimaira, Killswitch Engage ed Hatebreed, si appresta a rilasciare un disco omonimo in piena carriera, ma stasera i ragazzi hanno pochissimo tempo (la mezzora riservata agli opening-act) e quindi ci danno dentro con il materiale noto e già rodato. Brendan Schieppati e la tastierista Marta Peterson attirano su di loro l’attenzione di tutta la platea, già ben partecipe sebbene la gente accorsa principalmente per i Machine Head sia tanta. Nonostante abbiano ora il solo Brian Leppke alla chitarra, i Bleeding Through tengono discretamente il palco, riuscendo a scatenare i primi circle-pit, tanta violent dance e anche un wall of death. A detta di chi scrive, la band ha anche avuto i suoni migliori della serata, ma su questo punto ci soffermeremo meglio in seguito. “For Love And Failing” e l’epica “Love Lost In A Hail Of Gunfire” hanno generato scompiglio nel pit, mentre “Kill To Believe” ha permesso a Schieppati di mettere in mostra il suo ottimo cantato pulito. Peccato per il breve minutaggio a disposizione, perché sappiamo bene quanto questi californiani rendano anche sulla lunga distanza.
HATEBREED
Se i Bleeding Through hanno scaldato la folta squadra di mosh-corers presente all’Alcatraz, con gli Hatebreed la guerra ha inizio: anche per Jasta e compari parte della musica introduttiva, ma fortuna vuole che si impalli qualcosa ed il pezzo si senta male. Panico? Paura? Macché! I cinque del Connecticut si catapultano on stage e Jamey introduce a sorpresa “I Will Be Heard”, un opener da infarto. Il pit si anima d’un sol colpo e quando la terza canzone, dopo “Never Let It Die”, si scopre essere la monolitica “Doomsayer”, l’esaltazione è già al suo picco. Il buon Jamey è reduce dall’intervento ai denti di qualche giorno fa, vocalmente non è mai stato un mostro di potenza, ma quello che importa è che la band tutta, come al solito, compie bene il suo dovere, ovvero quello di animare il moshpit ed essere più massiccia possibile. Tutti i grandi classici vengono eseguiti, da “Live For This” a “To The Threshold”, da “This Is Now” a “Tear It Down”. C’è anche un bello spazio per l’ultimo album, l’omonimo che non ha esattamente esaltato la stampa specializzata: il singolo “In Ashes They Shall Reap”, “Hands Of A Dying Man” e l’ottima “Everyone Bleeds Now” sono state proposte bene dagli Hatebreed, tutto sommato non in perfetta forma ma coinvolgenti comunque. E ora, tutti in attesa dei rumorosissimi Machine Head…
MACHINE HEAD
Eh sì, purtroppo il tanto atteso grande evento questa volta non è stato per niente all’altezza delle aspettative. Almeno per chi scrive, considerato che comunque la stra-grande maggioranza del pubblico è parsa aver gradito lo spettacolo di Robb Flynn e compagni, tributando ai quattro di Oakland ovazioni a più non posso durante e soprattutto al termine dello spettacolo. Spettacolo – e qui entrano in gioco le soggettive sensibilità del proprio apparato uditivo – letteralmente buttato nello sciacquone da dei tecnici assassini, che hanno sparato a volumi assurdi (e crediamo a tutti gli effetti illegali) i suoni degli strumenti dei Machine Head. Davvero una pecca inaccettabile, tenendo conto dell’importanza della band in questione e dell’esperienza e la bravura che dovrebbero avere i fonici al suo seguito. Nulla da dire invece – ragionando con calma e a freddo – sulla performance della formazione statunitense: i ragazzi ci hanno messo l’anima, sputato sangue e lasciato ettolitri di sudore sul palco; Phil Demmel non è svenuto, Flynn non è stato perfetto ma alla fine chissenefrega, McClain e Duce hanno creato un muro sonoro di dimensioni megalitiche (e ci mancherebbe pure, con la doppia cassa ed il basso talmente alti da farci cozzare stomaco e polmoni nei loro loculi!) e finalmente siamo riusciti anche a sentire “Davidian” in chiusura di bis. Bello, tutto veramente bello ed emozionante! Peccato che, in definitiva, la cacofonia abbia regnato sovrana, trasformando alcuni brani (“Old” preso e gettato alle ortiche, ad esempio) in ammassi ronzanti di rumore metallico e generando noia e fastidio dopo la prima mezzora di uno show durato quasi due ore e – in siffatte condizioni – tremendamente lungo e deprimente. La scaletta è stata ovviamente simile alle ultime ascoltate qui in Italia, con qualche gradita sorpresa tratta da “The More Things Change…”, come la spaccaossa “Struck A Nerve” oppure la poco suonata “Spine”. Ma sono state le devastanti “Ten Ton Hammer”, “Imperium” e “Block” a generare il caos totale, mentre al lentone “The Burning Red” è toccato il compito di rinsavire parzialmente le orecchie degli astanti. Insomma, la notizia veramente positiva della serata si è risolta essere l’annuncio che i Machine Head inizieranno a scrivere il nuovo disco fra circa un mese e mezzo, al termine dell’ultima tranche del tour. Per il resto, ma più che altro per il volume, prestazione da dimenticare.