A cura di Marco Gallarati e Maurizio “MoRRiZZ” Borghi
Foto di Barbara Francone (www.roadrunnerrecords.it)
Davvero una piacevole serata, quella trascorsa lo scorso 19 giugno in quel di Trezzo sull’Adda, in occasione della calata italica di coloro i quali hanno probabilmente concepito uno dei migliori dischi di heavy metal degli ultimi due-tre anni, i nuovamente osannati Machine Head. Con un platter così acclamato a sostegno (“The Blackening”, per chi fosse stato in Zimbabwe negli ultimi mesi), non era difficile immaginare l’apoteosi di cori e inneggiamenti rivolti dal sudato e accaldato pubblico milanese ai quattro pard di Oakland. Assieme alla corazzata della Roadrunner, sul palco della versione open air del Live Music Club, si sono avvicendati anche i Mastodon, ormai una stella del firmamento metal mondiale, e i prezzemolini Caliban, di nuovo fra noi a solo tre mesi dallo show del Transilvania Live. E’ giusto spendere due parole sulla nuova location concepita all’esterno del capannone nel quale solitamente si svolgono i concerti al Live di Trezzo: molto bello il palco, piuttosto grande e piazzato ben in alto, in modo da permettere un’ottima visuale un po’ a tutti quanti; inoltre, davvero esauriente la zona catering, con panini, salamelle, patatine fritte, birra a profusione e addirittura un forno per le pizze! Non ci fossero state l’afa e squadriglie di assetate zanzare, la serata sarebbe stata davvero perfetta! Complimenti, comunque, ai gestori del locale. Ma bando alle ciance, lasciamo da parte le note di colore ed entriamo nel merito delle sette note…
CALIBAN
Con il nuovo e forse prematuro “The Awakening” nei negozi, i Caliban non si lasciano sfuggire la ghiotta occasione e tornano presto dalle nostre parti, dopo la data di marzo, nella quale erano stati decisamente annichiliti dai Bleeding Through. Purtroppo per i tedeschi, questo loro assiduo presenziare sta portando ad un’eccessiva sovraesposizione che, probabilmente, non sta giovando e non gioverà loro più di tanto. Andy Dörner e compagni si impegnano a fondo nel cercare di coinvolgere il già buon numero di presenti, ma è chiaro che Mastodon e Machine Head stazionano su di un altro pianeta; e, oltre a ciò, i soliti limiti del quintetto germanico si ripresentano puntuali: ripetitività dei brani e clean vocals fastidiose. “Stigmata”, “I Will Never Let You Down”, “The Beloved And The Hatred” si susseguono poderose, ma la cosa da ricordare della performance odierna resta senz’altro la simpatica tenuta dei ragazzi, addobbati con camicie bianche chiazzate di rosso sangue, a richiamare la cover del nuovo disco: trovata oltremodo trendy, ma non disprezzabile. Un’ultima cosa: dite ad Andy di non truccarsi più gli occhi e di tagliarsi la barba. Così nun se po’ vedè!!
MASTODON
Il cielo ancora chiaro quando il quartetto di Atlanta salta sul palco: un abisso tra i tedeschi che li hanno preceduti e la formazione che ha destabilizzato il pubblico dell’Heineken Jammin Festival. Distaccati e quasi immobili nella loro locazione sul palco, i Mastodon sono trasportati da una forza cieca per tutta la durata del set: nessuna interruzione tra un pezzo e l’altro, solo qualche secondo di intro registrata. Poche parole al pubblico, ma una pioggia di note, tecnicismi, linee melodiche inusuali. Brann Dailor è spettacolare dietro la sua batteria-tributo a Randy Rhoads, così come i suoi tempi jazzati che aiutano ad ipnotizzare il pubblico perso nei riff intricati della formazione, che è tanto abile strumentalmente quanto redneck alla vista. Dopo una miriade di tracce dall’ultimo “Blood Mountain”, i Mastodon chiudono alla grande con “Blood and Thunder”, riuscendo finalmente a strappare applausi a un pubblico letteralmente in trance per tutta la durata dello spettacolo. Meglio dell’ultima data all’Heineken: monolitici.
MACHINE HEAD
C’era da aspettarselo: tre anni di assenza dai palchi italiani ed un seguito di pubblico in crescita esponenziale erano fattori troppo decisivi per non far assegnare il giudizio ‘apoteosi totale’ allo show dei gloriosi Machine Head. Il loro thrash metal moderno, carico di groove, cattiveria, melodia e mirabilia tecniche, ha toccato vertici impensabili con “The Blackening”, e i quattro ragazzoni risultano quindi caricati a pallettoni, ansiosi di riversare sugli invasati fan italiani tutta la loro monumentale potenza! La setlist di un gruppo di fama quale i Machine Head farebbe impallidire svariate centinaia di formazioni e quando anche i pezzi nuovi fanno ribaltare il pubblico da cima a fondo, allora vuol dire che il successo è proprio su tutta la linea. Volumi forse esagerati e suoni all’inizio un po’ confusi non hanno impedito all’opener “Clenching The Fists Of Dissent” di aprire varchi nel moshpit: prima mazzata e già tutti sudati! “Imperium” segue a ruota e lo stacco swedish di fine canzone genera un informe Caos primordiale sotto il palco. Ma è solo l’inizio, per fortuna. Rispolverati un paio di brani dal periodo più discusso della loro carriera (fra cui un’ottima “The Blood, The Sweat, The Tears”), i quattro di Oakland scorrazzano abilmente tra passato e presente, presentando clavate del calibro di “Ten Ton Hammer”, “Take My Scars” e “Old” e pezzi più elaborati e freschi quali “Halo”, “Now I Lay Thee Down” e l’inno pro-Dimebag Darrell “Aesthetics Of Hate”. Flynn è il solito sbracato caciarone, sempre pronto a lanciare bicchieri di bevanda alla folla e a raccogliere con ammirazione e (un pelo di) commozione i continui cori a favore della band; per la gioia del pubblico, riesce anche a lanciare il fatidico bestemmione d’ordinanza. McClain, Demmel ed il gigantesco Adam Duce compiono il loro sporco lavoro con passionale trasporto e certosina precisione: insomma, un four-piece che oggigiorno fa davvero paura! I bis sono affidati alla solita “Descend The Shades Of Night”, ostinatamente proposta in scaletta nonostante castri l’esaltazione proprio sul più bello, e alla classica “Davidian”, utile a tramortire definitivamente i pochi ancora in forze. Concerto da ricordare, quindi, per una formazione che – notizia di questi giorni – potremo ri-ammirare poco prima di Natale. E già verrebbe voglia di correre avanti nel tempo, se fosse semplice… Mille di questi giorni, cari Machine fuckin’ Head!