A cura di Sara ‘SavageNemesis’ Sostini
Arrivare a staccare i biglietti per “A Night With” riteniamo sia un traguardo non da poco per ciascuna band. Vuol dire aver consolidato il proprio posto all’interno della jungla musicale, posto sostenuto da una solida fanbase ovunque nel mondo e da una discografia importante in cui non mancano episodi di enorme rilevanza per la storia della musica metal: tutte caratteristiche, queste, che corrispondono in pieno al curriculum dei Machine Head. Eccoli quindi, nell’ultimo piovigginoso giorno di settembre, alle prese con l’ardua impresa di sostenere due ore e mezzo di concerto, ad otto anni di distanza dalla loro ultima discesa nella Città Eterna (in compagnia nientemeno che di Iron Maiden, Motorhead e Mastodon, battesimo del fuoco per chi scrive). Ci chiediamo, mentre sostiamo nell’anticamera dell’Orion di Ciampino, se i quattro americani riusciranno a tenere botta per tutta la durata di quello che promette di essere uno show molto impegnativo, sudicio e sudato. A voi il resoconto dell’impresa.
In un Orion discretamente riempito echeggia l’arpeggio iniziale di “Imperium” ed accade la metamorfosi tipica di tutti i concerti attesi: il chiacchiericcio sparso e confuso distribuito un po’ ovunque nell’ampia sala a gradoni si trasforma in un’unica voce, potente ed invasata dalla comparsa di Robb Flynn e soci che, senza perdere tempo in smancerie di sorta, cominciano a suonare con quell’inconfondibile cipiglio ignorante che li distingue. Lanciatisi come furie nell’esecuzione di “Beautiful Mourning”, danno immediatamente fuoco a tutto quanto di infiammabile sia presente nella sala: corpi, anime, aria, tutto brucia in senso quasi letterale (d’altronde, la temperatura interna durante il concerto ha contribuito più volte a rendere vivida questa sensazione!). Ma con “Now We Die”, dall’ultimo “Bloodstone & Diamonds”, capiamo che quella che ci si prospetta davanti non sarà una serata facile nè tantomeno semplice da affrontare; basta guardare nel pit, dove un’informe massa di gente si muove, corre e si scontra, ululando l’anthem ‘Ashes to ashes / The ocean crashes’ tanto da sovrastare il nerboruto cantante, per farsi un’idea del grado di forza bruta che il quartetto di Oakland è in grado di scatenare nel proprio pubblico. Complice un’acustica piuttosto buona e quello che sembra essere uno stato di forma ottimo per ciascuno dei membri del gruppo, il concerto decolla con un’impennata verticale durante l’esecuzione di “Locust”: i riff distorti e grassi come olio da motore orchestrati dalla storica coppia Flynn-Demmel si scontrano con la cavalcata forsennata di Jared MacEachern (ormai totalmente integrato nella formazione), mentre Dave McClain pesta dietro le pelli quasi come se ne andasse della propria vita. La completa assenza di gruppi di supporto e la prospettiva di due ore e mezzo di concerto danno l’occasione ai Machine Head di dispiegare adeguatamente la potenza, le esperienze e la musica maturata in più di vent’anni di carriera, visibili nella coesione del quartetto in sede live e nel rodaggio consumato con cui mettono in scena il proprio show: accanto a quei brani, più fortunati e più riusciti, che li hanno portati ai livelli di ‘big’ nel corso degli anni (“Ten Ton Hammer”, “Descend The Shades Of Night”), questi musicisti non hanno paura di suonare altre canzoni che, pur amate da moltissimi fan, hanno segnato il ‘tracollo’ nu-metal sul finire degli anni Novanta (come “The Blood, The Sweat, The Tears” e “Crashing Around You”, peraltro suonate di seguito); anzi, le mostrano orgogliosi come cicatrici di guerra, perchè se sono arrivati fino a qui è stato passando per strade buie ed accidentate. Scenari post-distopici e guerriglia urbana, miseria e frustrazione vengono gettati in pasto al pubblico con quell’americanissimo miscuglio di strafottenza, ignoranza e rabbia che li ha resi cari agli adolescenti e post-adolescenti di mezzo mondo, e l’Orion non fa certo eccezione: l’età è varia ma tutti i presenti seguono la roca e sommessa voce (a tratti quasi di memoria metalcore) di Flynn durante l’esecuzione di “Darkness Within”, perchè i Machine Head sono anche melodie polverose, ritornelloni da stadio cantati a squarciagola e tanto, tanto di quel groove a-là Pantera in grado di scatenare un headbanging sfrenato e scrosci di applausi a tempo a velocità sempre più convulsa. Nonostante l’aria sia satura di sudore e gli spettatori boccheggino vistosamente, i Nostri non sembrano (quasi) per niente accusare la fatica; il tempo di una rapida pausa per sgrassare gli strumenti ed ecco deflagrare “Killers & Kings” in tutta la propria potenza, culminata in un quasi ‘liberatorio’ wall of death, vera e propria rarità per le pareti dell’Orion. Infine è tempo di classici: “Davidian”, unico estratto insieme ad “Old” da “Burn My Eyes”, viene accolta con un boato dal pubblico ed i quattro teppisti di Oakland non si fanno certo pregare per dare fondo alle proprie cartucce. “Now I Lay Thee Down”, con i suoi riff lancinanti ed i breakdown aggressivi, dimostra che “The Blackening” è considerato da entrambe le parti come un capitolo fondamentale della storia del gruppo, imprescindibile e monolitico. Le distorsioni sfrenate di “Aesthetics Of Hate” creano repentini quanto magmatici circle-pit trasformatisi in cumuli di cavallette saltellanti (anche se esauste) ai vari ‘Jump! Jump!’ ringhiati da Flynn. L’ultima fatica del gruppo viene adeguatamente proposta anche attraverso “Game Over” ed infine la doppietta micidiale “Old” ed “Halo” lascia solo morti e feriti sul campo di battaglia, mentre i Machine Head si godono il trionfo, sorridenti e sudati, come pesti pugili sul ring a fine round. Applausi per l’energia, la grinta e l’attitudine lercia.
Setlist:
Imperium
Beautiful Mourning
Now We Die
Bite the Bullet
Locust
From This Day
Ten Ton Hammer
This Is the End
In Comes the Flood
The Blood, the Sweat, the Tears
Crashing Around You
Darkness Within
Declaration
Bulldozer
Killers & Kings
Davidian
Descend the Shades of Night
Now I Lay Thee Down
Aesthetics of Hate
Game Over
Old
Halo