Introduzione a cura di Luca Pessina
Report a cura di Luca Pessina e Marco Gallarati
Gli anni Novanta tirano ancora. Ciò non è una novità se si pensa a generi come il death o il power metal, che tuttora vivono di realtà storiche affermatesi proprio in quel periodo o di fenomeni che accuratamente modellano suoni e attitudine su quelle care ai vecchi maestri e su quanto ascoltabile su dischi usciti nel 1991 o nel 1995. Tale discorso però può essere allargato anche al gothic e al doom metal, filoni meno popolari, ma che continuano a vantare un grosso seguito nato e sviluppatosi ormai un paio di decenni fa e oggi duro a morire. Un festival come il Madrid Is The Dark, giunto nel dicembre 2016 alla sua quarta edizione, non può che confermare questa tendenza: con un cartellone popolato per buona parte da vecchie glorie e da gruppi più giovani cresciuti con il mito dei maestri, l’evento ha fatto registrare il sold out in uno dei più noti locali madrileni per sonorità underground. Nemmeno l’improvvisa defezione degli In The Woods… (prontamente rimpiazzati dai 40 Watt Sun) ha frenato gli entusiasmi, tanto che gli organizzatori hanno per la prima volta accolto fan provenienti da altre nazioni e riscontrato un notevole interesse da parte della stampa del settore. Parlando di organizzazione, si può dire che i ragazzi del Madrid Is The Dark abbiano svolto bene il loro lavoro, facendosi trovare piuttosto impreparati soltanto all’apertura cancelli della prima giornata, quando il personale è apparso un po’ confuso nel processo di emissione dei biglietti. Per il resto, il Madrid Is The Dark è stato senza dubbio un successo: a partire dal rispetto degli orari sino ad arrivare alla qualità dei suoni, la crew del festival si è dimostrata esperta e quasi sempre “sul pezzo”. Peccato solo per dei prezzi un po’ cari sulla birra e, soprattutto, per l’assenza di stand, ad eccezione del consueto banco del merchandise delle band protagoniste; tuttavia, non ci sentiamo di fare pesare troppo l’assenza di un metal market, dato che non conosciamo a sufficienza la scena madrilena, nè eventuali normative per la vendita di tali prodotti all’interno di un locale come la Sala Changò. Nel complesso, il Madrid Is The Dark 2016 è stata per chi scrive una bella esperienza, tanto che ci si augura di poterla ripetere in futuro, a maggior ragione se il cartellone allestito si assesterà sullo stesso livello di quest’ultima edizione.
HELEVORN
Ad aprire la quarta edizione complessiva del Madrid Is The Dark giocano parzialmente in casa gli spagnoli Helevorn: la band, difatti, non è madrilena, bensì nativa di Palma di Maiorca, nelle isole Baleari. Difficile, effettivamente, immaginarsi una compagine dedita al doom/gothic metal provenire da un arcipelago noto principalmente per le sue qualità e attività turistico-marittime, ma tant’è… Il sestetto introduce con discreto savoir faire e più che sufficienti capacità i temi principali della manifestazione, ovvero la prevalenza di sonorità crepuscolari, decadenti, oscure e, soprattutto, orientate agli anni Novanta! Gli Helevorn sono pressochè sconosciuti nel resto d’Europa, ma in Spagna sanno il fatto loro e hanno un buon seguito di pubblico, che presenzia attento a questa performance d’apertura. Nata nel 1999 e con tre full all’attivo – l’ultimo risale al 2014, “Compassion Forlorn” – la formazione balearica propone, come scritto più sopra, un classico doom-gothic metal con sola voce maschile e tastiere, in grado di ricordare decine di band uscite allo scoperto nella prima metà dei Nineties: forse My Dying Bride, Type O Negative e Crematory sono tre influenze importanti del background stilistico degli Helevorn, che possono usufruire di suoni già accettabili per potenza e pulizia. Ottimo il growl profondo del vocalist Josep Brunet, che però non convince altrettanto bene in alcune parti di voce pulita grave, dove maggior espressività avrebbe potuto essere utile. La tastiera del corpulentino (eufemismo) Enrique Sierra ricama passaggi e arabeschi sentiti e strasentiti in quest’ambito, ma che comunque restano quasi imprescindibili nel genere. Maggiormente compassate le due chitarre e il basso, che fungono principalmente da accompagnamento e propulsori ritmici. “Burden Me” e “Two Voices Surrounding” ci sono parsi i pezzi migliori eseguiti, per una quarantina di minuti utile ad immergerci nelle atmosfere plumbee del festival. Per non esagerare in depressione, ad ognimodo, conviene munirsi della prima birretta ed attendere i prossimi in pista, la vera ‘chicca’ della manifestazione, i rinati Phlebotomized!
(Marco Gallarati)
PHLEBOTOMIZED
La prima formazione straniera ad esibirsi in questa edizione del Madrid Is The Dark sono i redivivi Phlebotomized, avantgarde death-doom metal band olandese autrice dell’album di culto “Immense Intense Suspense” (1994). Il pubblico presente in sala vanta la presenza di numerosi veterani del periodo, tanto che i sette elementi del gruppo vengono accolti da una fetta della platea con una eccitazione clamorosa, quasi come se fossimo al cospetto di chissà quale realtà seminale. Sulle prime i Phlebotomized sembrano sentire un po’ l’emozione, ma il concerto prende presto una piega piuttosto coinvolgente, soprattutto grazie al buon lavoro al mixer, che dona alla performance dei suoni nitidi ed equilibrati a sufficienza. Considerata la difficoltà della proposta – basata su strutture complicate e cambi di tempo arditissimi, oltre a continui intrecci con protagonisti chitarre e violino – non è il caso di aspettarsi una presenza scenica mostruosa da parte degli olandesi; l’età già piuttosto avanzata e la poca esperienza sul palco sono altri fattori che incidono sulla limitatezza della componente visuale dello show. In ogni caso, la band dà prova di divertirsi e di essere piacevolmente sorpresa dalla calorosa accoglienza tributatale; non è facile replicare dal vivo queste particolari trame e risultare credibili agli occhi dei novizi e dei più giovani con un sound così frenetico ed eccentrico, ma Patrick Van Der Zee e compagni si sono evidentemente preparati bene e, a conti fatti, riescono sia a rendere giustizia a brani come “Desecration of Alleged Christian History” o “Subtle Disbalanced Liquidity”, sia a catturare l’interesse di buona parte del pubblico. In tutta onestà, non avevamo grandi aspettative nei confronti di questo concerto, ma a set terminato siamo felici di potere affermare che i Phlebotomized abbiano tutto sommato ben figurato.
(Luca Pessina)
40 WATT SUN
Si cambia ampiamente registro con l’arrivo dei 40 Watt Sun, la creatura slowcore/depressive rock di Patrick Walker, frontman dei doom metaller Warning. Le sonorità minimali e leggerissime del gruppo sulla carta non hanno molto in comune con il target dell’evento, ma il passato dello schivo Walker e la mestizia delle melodie e dei testi da sempre fanno da collante con il mondo (doom) metal. Esattamente come gli Anathema, i 40 Watt Sun sono sostanzialmente una band indie/alternative rock che ha un seguito composto per buona parte da metalhead; il debut album “The Inside Room” è diventato nel giro di breve tempo un album di culto e il nuovo “Wider Than The Sky” sta riscuotendo simile successo nel circuito underground, nonostante non possegga forse la medesima freschezza del predecessore. Come accennato, quest’oggi i Nostri sono chiamati a sostituire gli attesi In The Woods…: il metal nordico e progressivo dei maestri norvegesi è decisamente lontano dalle lunghe e flebili nenie semi-acustiche di Walker e soci, ma il pubblico locale sembra abbastanza ricettivo nei confronti dei britannici, anche se indubbiamente in sala si vedono persone completamente disinteressate alla performance. La proposta dei 40 Watt Sun è talmente soft da non riuscire quasi mai a coprire il chiacchiericcio dei suddetti astanti ma, alla fine, basta chiudere gli occhi e concentrarsi sugli affranti versi del cantante/chitarrista per godersi degnamente il concerto. Siamo dell’idea che la band renda al meglio in un contesto da headliner e davanti al suo pubblico, ma la classe, la delicatezza e l’intensità emotiva di un brano come “Carry Me Home” sono sempre fuori discussione.
(Luca Pessina)
EREB ALTOR – Bathory set
Si ricambia completamente registro, rispetto al concerto compassato e depressivo dei 40 Watt Sun, con l’arrivo degli svedesi Ereb Altor, che hanno il privilegio di potersi esibire in entrambi i giorni della manifestazione, il venerdì con un set dedicato interamente ai Bathory e a Quorthon, il sabato proponendo loro brani. Questa convintissima compagine scandinava, ad inizio 2016, ha pubblicato un lavoro digitale su Cyclone Empire che altro non è che un tribute-album al pioniere del viking, del pagan, dell’epic e del black metal, mister Thomas Borje Forsberg. L’album in questione è stato intitolato “Blot. Ilt. Taut.” e da esso sono stati tratti praticamente tutti i brani eseguiti alla Sala Changò Live, ripopolatasi a pieno regime dopo i vuoti creati dalla performance precedente. E quindi, con un trasporto realmente sincero e genuino e con un’affezione alla causa al limite dello stolido, gli Ereb Altor fiammeggiano e conquistano la platea, forti anche di una presenza scenica coinvolgente e ‘carica’ e di un ottimo comparto vocale, ben riproducente gli epici cori delle composizioni dei Bathory – bastano “Twilight Of The Gods” e “Blood Fire Death” per farci capire la bontà della formazione. Certo, si tratta pur sempre di un set composto da cover, ma i cori di Mats, di Ragnar (gran ugola!) e dello scatenato bassista Mikael a tratti, seppur probabilmente supportati da basi, hanno emozionato e portato alla mente epoche finite e sconvolte. Al pari degli episodi più famosi e sognanti concepiti in origine da Quorthon – a cui il frontman Mats ripetutamente tesse sperticate lodi nelle pause tra una canzone e l’altra – c’è anche spazio per un paio di fucilate di thrash-black metal primordiale, fra le quali “The Return Of Darkness And Evil” non lascia prigionieri. Tutto sommato un’esibizione più che interessante per gli Ereb Altor, che ha giocato sicuramente (e furbescamente) a loro favore. Pubblico soddisfatto, facce contente, epicità tastabile nell’aria…cosa si vuole di più? Lo scopriremo l’indomani, quando i Nostri risaliranno sul palco per il loro vero spettacolo!
(Marco Gallarati)
SHAPE OF DESPAIR
Gli Shape Of Despair sono una delle realtà più rispettate di sempre in ambito atmospheric/funeral doom. Dopo essere ritornati sulle scene con “Monotony Fields”, apprezzatissimo album che ha rilanciato la loro carriera dopo circa un decennio di relativa inattività, i finlandesi sono tornati anche ad esibirsi live, comparendo persino ad un festival enorme come il francese Hellfest. Chiamata a partecipare ad un evento denominato Madrid Is The Dark, è ovvio che questa sera la band si esibisca davanti al “suo” pubblico; vista la sporadicità dei loro live, per molti gli headliner della manifestazione sono proprio gli Shape Of Despair, i quali ripagano l’hype e l’attesa con una prova maiuscola per pesantezza e lirismo. A differenza di tante band che vantano la presenza di una voce femminile in line-up, i Nostri non concedono nulla ad armonia e frivolezza, anzi! Gli Shape Of Despair non fanno trasparire alcuna emozione, suonano con innata solennità e schiacciano ripetutamente l’audience con un suono lento e sempre più opprimente, nel quale è sovente bandito ogni spiraglio di luce. La stessa voce di Natalie Koskinen sembra provenire da un altro mondo: la cantante è impassibile e avversa a mostrarsi, ma sottolinea tutti i suoi passaggi con estrema padronanza ed eleganza, mentre il suo partner Henri Koivula (già nei Throes Of Dawn) non concede tregua con il suo growling asfissiante. Curiosamente la scaletta è più incentrata sul vecchio “Angels of Distress” che sul succitato ultimo album, ma la resa complessiva resta da brividi. Siamo davanti a dei veri maestri, seri e imperturbabili esattamente come la loro musica.
(Luca Pessina)
SAMAEL
Tocca ai Samael occupare la posizione di headliner in questa prima giornata di festival. La band di Sion è ormai diverso tempo che porta in giro uno show basato sull’esecuzione integrale della propria perla “Ceremony Of Opposites”, l’ultimo album pubblicato prima del forte cambio di approccio stilistico coincidente con la release di “Passage” e con la traslazione di Xytras dalla batteria classica al programming della drum-machine. L’imponente armamentario del tastierista/batterista, che ha costretto tutte le band precedenti ad esibirsi relegate in metà palco vista l’ingombranza di drums e postazione elettronica celate da un drappo nero, viene finalmente scoperto e i quattro elvetici salgono sul palco senza proclami. Dinamici al massimo, sempre in movimento e molto grintosi in quanto a presenza scenica – da segnalare il face-painting del chitarrista Makro, con il viso pittato equamente in bianco e nero, che però non viene imitato, inspiegabilmente, dagli altri tre – i Samael alzano i volumi e bombardano per bene l’audience, che pare reagire in modo moderatamente entusiasta al set proposto. Purtroppo, riproporre un album suonato in origine con una batteria fisica attraverso una serie di campionamenti e basi registrate fa perdere moltissimo del fascino underground dello stesso, rendendo i pezzi troppo piatti e poco riconoscibili. L’imponenza apocalittica del wall-of-sound creato, oltretutto, è un po’ una controindicazione, in quanto diventa difficile distinguere riff e dettagli quando sepolti dalla grandeur delle tastiere. Il basso di Drop è totalmente inudibile e, mentre Xy zompetta sui suoi tamburi invasato, suo fratello Vorph arringa la folla proiettando negli inferi più profondi le sonorità ancestrali di “Baphomet’s Throne”. Il disco, nella sua interezza, non è lunghissimo, quindi resta parecchio tempo per una ghiotta serie di bis: si parte con la hit “Jupiterian Vibe”, che trasforma la Sala Changò in una danza cosmica e aliena, per poi andare davvero molto indietro nel tempo grazie all’esecuzione di “Into The Pentagram” prima e “After The Sepulture” poi. I suoni sono settati meglio e risultano un pelo meno ingombranti, per questa chiusura di concerto, che vede “The Truth Is Marching On” – dal sottovalutato “Above” – e “My Saviour” terminare le cartucce a disposizione del quartetto rossocrociato. Una performance tutto sommato positiva e velleitaria, che però ha lasciato tanto amaro in bocca per il cozzare d’attitudine che porta il gruppo a concepire con nuovi suoni musica bisognosa più che altro della propria resa originale.
(Marco Gallarati)
FAMISHGOD
Per il secondo giorno di festival, purtroppo, giungiamo lievemente in ritardo – causa passeggiata turistica e pranzo protrattisi più del dovuto – alla venue ospitante il Madrid Is The Dark, proprio nel momento in cui i madrileni Famishgod stanno ultimando il loro release party con il brano finale: tutti i musicisti (compreso il batterista Jorge Utrera) sono incappucciati dalla testa ai piedi e le loro figure si stagliano sul palco con fattezze da tremendi e immobili nazgul, mentre dal microfono di un ‘invisibile’ Dave Rotten fuoriescono radici contorte e rami secchi, oltre che gorgoglii catacombali, a richiamare l’artwork del ledwall alle sue spalle. E’ ovviamente ingiudicabile la prestazione, ma è altresì indubbio che l’impatto scenografico debba essere stato di quelli forti! Attendiamo ora di sentire il nuovissimo “Roots Of Darkness”, seconda prova in studio uscita proprio ad inizio dicembre per Xtreem Music.
(Marco Gallarati)
EREB ALTOR
Dopo esserci persi quasi completamente i Famishgod, ricorriamo subito ad una birra per trascorrere il tempo in attesa dell’act seguente, che vede di nuovo gli svedesi Ereb Altor passeggiare sulle assi della venue madrilena. Se con lo show del giorno prima dedicato ai Bathory il quartetto scandinavo aveva già conquistato la capitale spagnola, con il set di canzoni proprie concede il bis, rivelandosi come uno dei gruppi più interessanti proposti dal festival. Oltretutto, a conti fatti, ci chiediamo anche perchè mai tale band così fedele alla causa dell’epic-pagan-viking metal non sia ancora entrata in pianta stabile nel giro dei vari Heidenfest e Paganfest, al pari dei soliti Ensiferum, Turisas, Moonsorrow e simili compari. La band di Mats e Ragnar – che nella loro altra incarnazione più doom, gli Isole, utilizzano i veri nomi, Crister Olsson e Daniel Bryntse – calca lo stage in tenuta da battaglia, truccata di rosso-sangue e nero-cenere, pronta a far rivivere guerre di lontani e fantastici eoni. Lo stile non si allontana molto da quello dei Bathory, un epic-doom-pagan metal, con allettanti sfuriate thrash-black, che ha nei cori il suo piatto forte, come si evince dall’ottima “Midsommarblot” eseguita in apertura. Il minutaggio non è elevato, solo tre quarti d’ora, e i brani del gruppo sono piuttosto lunghi e roboanti, ma ciò basta agli Ereb Altor per guadagnarsi sicuramente nuovi fan, compreso chi scrive. L’esecuzione della primordiale “By Honour” fa ripiombare tutti decisamente in clima Quorthon e le ‘horns up’ si sprecano, richiamate spesso dall’esagitato bassista Mikael. “Nattramn” e “Myrding”, poi, chiudono in modo leggermente più movimentato, ma pur sempre ultra-epico, un concerto piacevole e riuscitissimo. Dovranno anche quasi tutto a ciò che creò Quorthon anni orsono, ma non si può rimproverare proprio niente a questi ragazzi!
(Marco Gallarati)
NOVEMBRE
Per i Novembre salire sul palco del Madrid Is The Dark IV avrebbe potuto essere un terno al lotto, ma invece siamo qui, dopo il report dolceamaro di fine aprile sulla data di Trezzo, a tessere solo lodi e buone parole per la formazione capitolina: esibirsi dopo i possenti Ereb Altor avrebbe potuto essere controproducente, così come l’assenza di Massimiliano Pagliuso alla chitarra solista un ulteriore deficit. Ebbene, attesi dagli spagnoli con impazienza, ma anche da personaggi giunti da diverse parti del globo, l’ensemble di Carmelo Orlando ha fornito una prestazione vigorosa e verace, senza perdersi in fronzoli e proponendo una scaletta ottimamente bilanciata tra materiale vecchio e nuovo. L’audience iberica, peraltro, ha dimostrato di conoscere quasi a menadito la discografia dei Nostri, perchè ha partecipato e risposto in modo caloroso sia sui brani più recenti (la grandiosa “Australis”, “Umana” e le coinvolgenti “Annoluce” e “Bremen”), sia sugli episodi più datati, come ad esempio “Nostalgiaplatz” e la combo “Come Pierrot / Everasia”. L’attuale formazione live dei Novembre, che presenta i gemelli Ferilli a batteria e seconda chitarra, Fabio Fraschini al basso e Dario Vero alla prima chitarra, oltre naturalmente a Carmelo alla voce, è parsa affiatata e compatta, capace di un tiro aggressivo e dinamico, così come della dolcezza necessaria per affrontare i momenti più melanconici della sua musica. L’esperto vocalist, sia nel suo vivissimo e potente screaming che nel pulito dolciastro e soffuso, ha fornito una prova all’altezza delle aspettative, sebbene ancora, per certi versi, sia difficile abituarsi a vederlo on stage senza in braccio una chitarra. Sottigliezze di pochissimo conto, comunque, in quanto la conclusione di set affidata a “Cold Blue Steel” ha sigillato nel successo e nei battimani la performance dei nostri portabandiera in terra madrilena. Bravissimi Novembre.
(Marco Gallarati)
AHAB
Abbiamo ormai visionato diverse volte gli Ahab dal vivo e mai – mai! – questa band ha deluso o disatteso le attese. Con i nautical doomster tedeschi si va tranquillamente sul sicuro, testimoni di un periglioso e movimentato viaggio sui marosi di un oceano tanto calmo e pacifico quanto disturbato e imprevedibile. Cornelius Althammer alle pelli è un vero e proprio spettacolo tra i batteristi doom, considerato il modo in cui interpreta tempi medio-lungo dilatati, e i suoi giochi ai piatti così come i suoi fill sono uno dei punti di forza del combo teutonico. Stephan Wandernoth e Christian Hector, basso e chitarra rispettivamente, con il loro look da screamo-corer mancati, caricano di effetti le loro strumentazioni e tengono elevato il pathos che il pacato vocalist (e chitarrista) Daniel Droste tende empaticamente ad abbassare, con il suo lento movimento, un pulito estatico e sognante ed un growl fra i più abissali in circolazione. I fasti dell’ultimo lavoro “The Boats Of The Glen Carrig” si stanno lentamente affievolendo ma, con prima “The Weedmen” e poi “To Mourn Job”, gli Ahab li riesumano prontamente e li illuminano di luce spettrale e deflagrante. La resa sonora è fra le più efficaci del festival e le esplosioni di groove e potenza fanno da ottimo contraltare alle sezioni acustiche e/o psichedeliche che tanto hanno importanza nella musica creata dai ragazzi di Heidelberg. “Deliverance (Shouting At The Dead)” ammalia con la sua poesia Poeiana e con il lungo stacco melodico di metà canzone, mentre la solita “The Hunt” è la lunga traversata a bordo della Pequod che ci porta a scorgere la coda e gli spruzzi del bianco incubo Moby Dick, al termine di poco oltre cinquanta minuti di progressive-doom metal di altissima qualità. Applausi scroscianti.
(Marco Gallarati)
DRACONIAN
Con i Draconian torniamo ad un gothic-doom metal di matrice più classica, che ha ancora le sue radici nell’esplosione di band con voce femminile avvenuta nella seconda metà degli anni Novanta. Rispetto agli Shape Of Despair, gli svedesi denotano più tatto, melodia e semplicità, ma, al contempo, anche meno personalità, visto che che la maggior parte delle loro formule derivano direttamente da quanto sperimentato venti anni fa da Theatre Of Tragedy e Tristania, senza ovviamente dimenticare i seminali My Dying Bride. In ogni caso, la performance del sestetto risulta carica e spigliata: a musicisti attivi in questo campo non si chiede una presenza scenica clamorosa, bensì un’interpretazione sentita e onesta, capace di smuovere le giuste corde emotive nel pubblico. Da questo punto di vista, la prova dei Draconian è sicuramente convincente: nonostante la frontgirl Lisa Cuthbert arrivi dall’Irlanda, si vede che il gruppo è riuscito comunque a prepararsi a dovere per lo show; l’esecuzione appare priva di sbavature e dalla platea emergono sempre più coinvolgimento e approvazione, anche grazie ad una scaletta intelligentemente bilanciata tra episodi solenni, da cui emerge tutto il carattere gotico delle melodie, e altri maggiormente ritmati e aggressivi. Uno scivolone arriva purtroppo nel finale, quando il frontman Anders Jacobsson invita sul palco un’amica locale per cantare con lui la datata “Heaven Laid in Tears”; la Cuthbert – che chiaramente non la prende benissimo – viene costretta a defilarsi in un angolo del palco e il gruppo chiude il concerto con al centro questa minuta interprete spagnola, anziché con la propria frontgirl ‘ufficiale’. A festival o eventi simili un’ospitata inattesa ci sta tutta, ma solitamente tali exploit avvengono nel corso del concerto, non in chiusura, quando una band dovrebbe dare tutto e far risplendere al massimo le proprie qualità. Declassando la propria cantante in un momento così topico, i Draconian hanno massacrato quell’eleganza di cui da sempre si sentono portavoce con la loro proposta musicale.
(Luca Pessina)
TIAMAT
Il Madrid Is The Dark 2016 si chiude quindi con lo show dei Tiamat. Gli svedesi sono una realtà poco attiva da anni, ma la loro reputazione continua a sopravvivere almeno fra i reduci degli anni Novanta, i quali nei rari appuntamenti live magari ancora sperano di ascoltare pezzi estratti da vecchie pietre miliari come “Clouds”, “Wildhoney” o “A Deeper Kind Of Slumber”. Johan Edlund sembra avere perso da tempo il lume della ragione (basta seguirlo su Facebook per farsi un’idea) e non ha più il fisico di una volta; il suo carisma tuttavia appare ancora intatto, tanto che non si fatica a riconoscerlo come l’unico vero frontman esibitosi in questa edizione del festival. Senza chitarra, il Nostro si muove per tutto il palco con movenze feline, fissando e sfidando il pubblico, incitando i suoi compagni – fra cui spicca al basso un irriconoscibile Gustaf Hielm, già in Meshuggah e Pain Of Salvation – e arrivando persino a frustare questi ultimi con il cavo del microfono. Dopo tante performance compassate, fa almeno sorridere vedere qualcuno incarnare ancora una volta il concetto di rockstar. Quasi un incrocio fra Robert Smith e Mick Jagger, Edlund, pur imbolsito, domina la scena e irretisce i presenti sulle note di una scaletta prevalentemente incentrata sugli ultimi album della discografia. Lo show dei Tiamat difatti non ha nulla a che spartire con quanto sentito nel corso del weekend: un ascoltatore casuale o un neofita probabilmente stenterebbe a capire il perchè una formazione che sostanzialmente propone un dark rock agile e sbarazzino sia stato invitato a questo happening, oltre a rimanere basito davanti alla reazione esagitata della folla davanti ad un pezzo come “Vote For Love”. Sin qui il pubblico aveva mantenuto un grande contegno, lasciandosi avvolgere dalle trame fosche e pesanti degli altri gruppi in cartellone; con i Tiamat invece ci troviamo nel mezzo di una festa che torna su registri un po’ più mesti solo all’altezza dei cosiddetti bis, nei quali il quartetto propone “The Sleeping Beauty” (durante la quale Edlund si defila per lasciare buona parte delle linee vocali a chitarrista e bassista) e “Gaia”, classico epilogo che il frontman interpreta con il giusto pathos. A conti fatti, pur avendo trasmesso sensazioni completamente diverse dal resto del bill, la prova dei Tiamat merita applausi sia per la cura nell’esecuzione del materiale, sia per l’oggettiva presa sul pubblico. Una volta accese le luci, ovviamente qualcuno non manca di manifestare il suo disappunto per l’assenza di estratti da “Sumerian Cry” (!), ma a livello formale non si può certo dire che l’esibizione della band svedese sia stata scadente.
(Luca Pessina)