Introduzione e report a cura di Marco Gallarati
Nel 2016 avevamo partecipato al Madrid Is The Dark IV, tornato attivo dopo qualche anno di pausa, con tanta curiosità e spirito da fan, coinvolti in pieno in una manifestazione che faceva del revival doom-gothic metal anni ’90 il fulcro d’interesse inossidabile ed indefesso. L’esperienza si rivelò decisamente positiva, al punto che, non appena assestati i colpi migliori riguardanti il bill dell’edizione 2017, Metalitalia.com ha presto deciso di ripetere il viaggio in terra madrilena. Sempre impostato su una kermesse di due giorni, il primo venerdì ed il primo sabato di dicembre, l’evento aveva nei britannici My Dying Bride, precursori, fondatori e tuttora tra i massimi esponenti mondiali del genere trattato dal festival, la maggiore attrattiva, fino a quando, circa ad un mese e mezzo dal via, la band albionica si è vista costretta a cancellare tutti i suoi concerti previsti a causa di una grave malattia di un parente stretto di Aaron Stainthorpe, che ancor oggi costringe il frontman-leader a non potersi allontanare da casa. Davvero un brutto colpo per l’organizzazione spagnola, che ha dovuto rimborsare alcuni biglietti venduti per il giorno d’esibizione della Sposa Morente e cercare un degno sostituto in fretta e furia. Il ripiego sui Tiamat, raddoppiato dall’aggiunta supplementare dei danesi Saturnus, non ha convinto proprio tutti e, nel complesso, l’appeal della manifestazione ha perso almeno il 50% dell’impatto iniziale; ma oggi, col senno di poi e di ritorno da una trasferta comunque appagante, possiamo promuovere per la seconda volta l’evento e i suoi promoter, in quanto l’afflusso di gente, l’atmosfera, le performance e la riuscita generale del festival sono stati abbondantemente sopra la sufficienza. Certo, per essere un evento mirato ad un ben specifico genere, oltretutto di carattere squisitamente underground, il contorno d’intrattenimenti vari alle singole esibizioni potrebbe essere ampiamente migliorato e rinforzato, tenuto conto pure del prezzo non proprio irrisorio – l’abbonamento per i due giorni è stato difatti venduto a 79 Euro. Nessuno stand di dischi, CD o cianfrusaglie metalliche, nessuna possibilità di mangiare all’interno del locale (bere ovviamente sì!), nessuna parvenza di meet&greet o similia, pochi abbellimenti scenografici sul palco…insomma, d’accordo che come sempre la musica deve stare davanti e sopra a tutto il resto, ma un’organizzazione più proattiva sarebbe gradita per i prossimi anni. La posizione centrale della Sala But, a pochi passi da Calle de Fuencarràl e dalla Gràn Via, favorisce bene gli spostamenti via mezzi pubblici e, pur essendo una discoteca e pur avendo dovuto svolgere il suo ruolo dopo la fine di entrambe le giornate del Madrid Is The Dark V, il locale si è dimostrato all’altezza della situazione, con un’acustica decente e uno spazio di movimento discreto, sebbene limitato alla platea, pochi ambìti divanetti, una zona merchandise angusta e illuminata da lampade giallo shocking da denuncia e i due ampi bar. Non vogliamo però infierire troppo sul MITD, in quanto trattasi di un evento in lenta crescita, che inizia ad assommare estimatori provenienti da diverse parti d’Europa e del mondo, acquistando una rilevanza internazionale piuttosto importante. Quindi bando alle ciance ora e spazio ai trafiletti dei singoli slot, tra alti e bassi, piacevolissime sorprese, poche cocenti delusioni e, soprattutto, vagonate di tristezza doom! Buona lettura.
VENERDI’ 01/12/2017
FOSCOR
Tocca ai catalani Foscor aprire l’edizione 2017 del Madrid Is The Dark. Ufficialmente un terzetto, irrobustito in sede live da Jordi Farré alla batteria e da Esteban Portero al basso, la formazione di Barcellona ha compiuto vent’anni da poco e ha alle spalle una discreta carriera nell’underground spagnolo, culminata qualche mese fa con la prestigiosa release tramite Season Of Mist del quinto full “Les Irreals Visions”. Uno scarno ledwall mostrante immagini tratte presumibilmente da artwork presenti e passati è l’unica concessione scenografica che si permette la band, senza contare la mantella-con-cappuccio che il barbuto vocalist Fiar tiene ben addosso per tutti i quaranta minuti di performance. Il post-black metal atmosferico e semi-progressivo che i Foscor stanno esplorando da qualche tempo a questa parte si fa strada in modo farraginoso tra la già ben nutrita audience della Sala But, non certo aiutato da suoni mal equilibrati e pure poco corretti in corsa. Ma il vero punto debole dello show non sono i suoni, purtroppo: se su disco la band risulta valida e discretamente intrigante, dal vivo appare invece confusa e acerba, come una compagine alle prime armi e senza due decadi d’esperienza vissute. Il succitato Fiar è il capro espiatorio per la non convincente performance dei ragazzi: in fase di screaming e durante gli spezzoni più tirati e blackish, comunque ancora in auge nel songwriting degli iberici, i Foscor piacciono anche a tratti, ma quando la predominanza di un cantato pulito monotono, poco espressivo e incapace di modulare linee vocali interessanti riprende il sopravvento, allora sono dolori: Fiar – ahilui! – affossa tutto il sufficiente lavoro chitarristico della coppia Falke/A.M., e a pochissimo serve la verve interpretativa e teatrale del frontman; ormai il danno è fatto. Convinti che i Foscor non possano essere così insipidi come ci sono sembrati, semplicemente considerando che la Season Of Mist difficilmente sbaglia una band, vogliamo credere si sia trattato solo di un pomeriggio non particolarmente felice. Si parte zoppicando, dunque.
NOVEMBERS DOOM
Un cambio palco incredibilmente veloce ci porta rapidissimi al momento atteso dei Novembers Doom, reduci da un paio di date italiane (Roma e Pavia) nei giorni subito precedenti il MITD. Pronti-via, la band sale sul palco e attacca con “Devils Light”, opening track del recente e apprezzato “Hamartia”: d’accordo la fretta di salire sul palco, passi che il settare i suoni durante il primo pezzo è ormai diventato un fastidioso escamotage per guadagnare tempo, tralasciamo l’assenza di qualsivoglia parvenza di soundcheck; ebbene, un inizio così disastroso e cacofonico sinceramente non ce lo ricordiamo. Brano rovinato e incipit ingiudicabile. Il quintetto di Chicago si risolleva parzialmente con la seguente, e più moderata, “Plague Bird”, ma non pare in forma strepitosa. Paul Kuhr lamenta anche passeggeri problemi al microfono e alle spie, ma per fortuna il fastidio dura lo spazio di metà pezzo, tanto che l’accoppiata formata dalla vecchissima “The Jealous Sun” e dalla splendida “Ghost” ci fa tornare il sorriso perduto. Nessun backdrop, né telone, né stendardo per i Novembers Doom, che puntano allo scarno badare al sodo del loro tradizionale doom-death-gothic metal, ormai imperante da oltreoceano da venticinque anni. “Rain”, tratta dall’ottimo “The Novella Reservoir”, mette in luce il lato più pesante del gruppo, ma anche qui la resa sonora della canzone non è particolarmente esaltante, lasciando un po’ d’amaro in bocca per un set che poteva essere migliore e sfruttato meglio. I Novembers Doom comunque non hanno certo lesinato sull’impegno e sul sudore da versare on stage, chiudendo il loro spazio con il nostalgico incedere dolciastro della lunga “Borderline”. Promossi sì, ma con una lieve riserva.
WARNING
L’anno scorso Patrick Walker era sceso fino a Madrid con i suoi 40 Watt Sun, facendoci vivere uno dei tre quarti d’ora più depressivi e languidi degli ultimi anni. L’organizzazione spagnola, affascinata da un tale personaggio pregno di stolida mestizia, ha subitamente cercato il bis non appena appreso che Walker stava per riesumare i suoi Warning, esibitisi anche al prestigioso Roadburn olandese. Con due soli full all’attivo, dei quali il secondo, “Watching From A Distance”, ormai risalente ad undici anni fa, i britannici si approcciano al palco in silenzio e quasi con timidezza, pienamente rispettanti l’indole del loro leader. Immobili sui loro piedi e nel loro millimetro quadrato, i Nostri partono ad infilare una sequela di riff melodici e strazianti come solo dei doomster d’Albione sanno fare e comporre. I primissimi Anathema paiono risorgere, ma non sarebbe corretto accostarli troppo agli Warning, che volontariamente cesellano la loro musica attorno a dei pattern, strumentali e vocali, talmente ripetitivi da indurre serie ipnosi negli astanti. La voce nasale e acuta di Patrick scandisce le ritmiche lente e dilatate di brani storici quali “Bridges”, “Faces” e “Footprints”, che uniti alla title-track e alla conclusiva “Echoes” formano l’intero “Watching From A Distance”, eseguito integralmente con un trasporto emotivo pari a quello di una lapide millenaria. Ondeggiare a ritmo con in mano una birra, cercando di non crollare tramortiti dall’effluvio pastoso delle chitarre e dai colpi solenni (e precisissimi) del drummer Andy Prestridge, è l’unica via di scampo possibile ad un set che ha messo a dura prova anche chi è normalmente affine al doom metal più prostrante e down-tuned. Difatti, anche un mezzo svuotone della platea sta a testimoniare l’alta osticità della musica dei Warning. Per questo, forse, ancor più meritori di plauso. Prendere o lasciare, nessun compromesso.
IN THE WOODS…
Gli In The Woods…, all’interno del bill di tutto il Madrid Is The Dark, hanno fatto la figura dei rocker scatenati, poco ma sicuro. Saltati l’anno scorso all’ultimo momento, a causa di non precisati problemi di salute di uno dei due gemelli Botteri, a questa tornata giungono in forma strepitosa e decisissimi a recuperare il tempo perso con i loro fan spagnoli e non solo. Ma c’è un ‘ma’, in tutto ciò. Quali In The Woods… abbiamo visto alla Sala But? Della formazione ufficiale della band norvegese, difatti, solo il batterista Anders Kobro e il vocalist inglese Mr. Fog sono della partita, mentre mancano proprio entrambi i gemelli Botteri, Christian e Christopher. Ci verrebbe comunque da dire ‘meno male!’, perchè i loro sostituti si sono rivelati semplicemente eccezionali. Se il chitarrista ritmico Kare André Sletteberg ha svolto un compito buono ma di routine, il bassista olandese Alex Weisbeek e soprattutto la giovane ascia solista Bernt Sorensen hanno rivitalizzato una formazione che aveva mostrato alti e bassi fin dalle prime esibizioni live della sua seconda vita. Come novello Slash, anche per alcune pose plastiche e la posizione delle braccia nel suonare la chitarra, Sorensen ci ha deliziato con interventi solisti puntuali e mirabili, connotando di pura attitudine rock il set comunque plumbeo, progressivo e complesso degli In The Woods… Suoni finalmente all’altezza hanno permesso ai cinque di snocciolare una setlist strepitosa, impostata sul seminale e mai troppo riconosciuto “Heart Of The Ages”, eseguito in buona parte, e rafforzato dalla proposizione della recente, sinistra “Blue Oceans Rise (Like A War)” e da quella “299 796 km/s” che, indimenticabile, è stata l’unico estratto dal capolavoro “Omnio”. Ma, come appena scritto, l’esordio del gruppo l’ha fatta da padrone in quel di Madrid, fin dall’iniziale “Yearning The Seeds Of A New Dimension” ben interpretata da una compagine affiatissima ed ispirata, nonostante si ritrovi solo per suonare live. Mr. Fog ha accusato lievi cali e un po’ di ‘fiatone’ verso il finale dell’esibizione, ma si può tranquillamente affermare come il vocalist abbia ampiamente superato la prova on stage, mettendo in mostra uno screaming inaspettatamente lancinante e feroce. “The Divinity Of Wisdom” ha fatto calare il sipario sul concerto che, nonostante altre prestazioni di livello verranno proposte in seguito, si rivelerà a giochi finiti come il migliore di tutta la manifestazione!
AHAB
All’interno della Sala But si perde facilmente il senso dello scorrere del tempo, scandito esclusivamente da esibizioni, cambi palco e chiacchiere assortite durante questi ultimi. La dilatazione delle coordinate spazio-temporali si acuisce ancor di più quando a salire on stage tocca ai tedeschi Ahab, attesi all’intera rivisitazione del loro fenomenale, e ormai iconico, debutto “The Call Of The Wretched Sea”, epopea di melvilliana memoria dedicata al tomo colossale “Moby Dick”. In seguito a quella release, il quartetto teutonico decise pian piano, attraverso i successivi tre full-length, di allontanarsi vieppiù dal funeral doom metal tout-court, per andare ad abbracciare un doom-gothic metal dalle chiarissime velleità psichedeliche e progressive. Ma il gruppo, dal vivo, è a tutti gli effetti una macchina da guerra doom e lo dimostra ancora una volta al MITD, sebbene rispetto alla performance dell’anno passato si sia notata una certa carenza di forma, soprattutto nell’espressione pulita del vocalist e chitarrista Daniel Droste. Non una parola, non un movimento fuori posto, non un’esagerazione: Droste e Hector al solito seri e semi-immobili sulle loro sei-corde, mentre i più mobili Althammer e Wandernoth si esaltano picchiando duro e scandendo i ritmi catacombali e oceanici di brani d’alta densità ossianica quali “Below The Sun” e “The Pacific”. La seguente “Old Thunder” movimenta un po’ le acque, grazie al suo groove doomy che trascina in un imperioso headbanging. Più di mezzora di set si esaurisce in questo modo, con l’audience devastata e annichilita dai chitarroni grassi degli Ahab e dal growl gorgogliante di Droste, chiamato a sforzare le corde vocali al momento del grido che segna l’apice di ogni concerto della formazione, quel ‘whale ahead!’ che fa decollare “The Hunt” subito dopo una sufficiente versione di “The Sermon”, canzone che raramente i Nostri propongono live. Ci si aspetterebbe a questo punto anche “Ahab’s Oath”, ma il tempo è finito e, come è giusto che sia, anche in Spagna sono ferrei con gli orari. I quattro germanici salutano con semplicità e umiltà e scendono dal palco ringraziando a sguardi gli astanti. Li abbiamo visti meglio altre volte, ma non si può certo dire che la band abbia fallito l’occasione prestigiosa proposta loro dal festival. Ormai una certezza su tutti i fronti.
HAGGARD
Ad una primissima considerazione, il posto da headliner del primo giorno assegnato agli Haggard può sembrare un azzardo o, comunque, la proposizione di una band poco calzante con il restante bill del MITD. Ma è solo in parte così, a dire il vero: elementi doom e gothic metal, sia nella musica che nei cantati operistici e growl, sono presenti nel songwriting del gruppo pseudo-tedesco, sebbene sepolti e confusi nel metal sinfonico, rinascimentale e barocco in auge alla band-orchestra. Grazie al loro heavy metal ad ampio spettro, le loro reminiscenze medievali ed il loro appeal su palco, dovuto alla quantità debordante di strumenti suonati dal vivo, Asis Nasseri e i suoi undici alfieri raccolgono consensi a piena platea da un’audience ben più preparata del previsto. In fondo, senza pubblicazioni di materiale inedito ormai da nove anni – nel 2008, difatti, uscì l’ultimo “Tales Of Ithiria” – gli Haggard sono una sorta di incognita vagante nell’universo metal. Pare però che questa situazione di stallo compositivo stia quasi per finire, in quanto i Nostri hanno proposto un nuovo pezzo proprio in questa occasione, canzone che dovrebbe andare a finire su un probabile disco in uscita nel 2018. In Spagna, gli Haggard si presentano, come già accennato, in formazione a dodici elementi, con Nasseri mastermind a voce growl e chitarre; e poi batteria e basso, una seconda chitarra, un pianista-tastierista, due cantanti lirici (tenore e soprano), violino, viola, violoncello, flauto traverso e oboe; sempre che si sia riusciti a distinguere bene tutti gli strumenti. Germania, Italia e Romania sono le nazioni che si dividono la patria dei musicisti on stage, con i nostrani Giacomo Astorri e Claudio Quarta alle prese con basso e chitarra. L’impatto on stage è sontuoso, nonostante lo spazio di movimento sia davvero ristretto per quasi tutti gli strumentisti: ma questi ragazzi sono talmente abituati a convivere in situazioni di sovrannumero che sanno perfettamente calcolare tempi di esibizione, entrata e uscita, da trasformare un possibile caos senza speranza in uno show organizzatissimo. Ogni musicista riesce prima o poi a ritagliarsi un momento solista, o comunque di prevalenza, ma è chiaro come le parti metalliche siano poco più che di supporto al vero fulcro della musica haggardiana: le composizioni classico-medievali e la lirica della coppia di cantanti solisti, fra i quali l’incredibile voce di Janika Gross stupisce tutti in sala. La compagine è inoltre brava ad interpretare con piglio aggressivo le proprie articolate creazioni: l’headbanging è frequente su palco e non ce lo si aspetterebbe da personaggi vestiti da orchestrali e costretti in pochi decimetri quadrati. “Per Aspera Ad Astra”, “Tales Of Ithiria”, “The Observer”, “Of A Might Divine” e la notissima “Herr Mannelig” (proposta in lingua italiana, come sul disco “Eppur Si Muove”) sono stati i brani più acclamati dalla platea, che ha però ricevuto una doccia fredda all’altezza della conclusiva “Awakening The Centuries”: l’esecuzione di tutto il brano avrebbe sforato pesantemente il tassativo termine delle 23.20, quindi ecco intervenire il tecnico di palco a bloccare il concerto… A Nasseri, nonostante i cori di protesta del pubblico, non è rimasto altro da fare che sfruttare i pochi minuti a disposizione rimasti per presentare uno per uno i componenti dell’orchestra odierna. Finale alternativo apprezzato, ma per la prossima volta, caro Asis, meno parole e un po’ più di sostanza. Bravi Haggard, comunque; e ora tutti a nanna, che si è in piedi da ben ventuno ore ininterrotte…
SABATO 02/12/2017
AUTUMNAL
Il secondo giorno inizia una mezzoretta prima rispetto al precedente. La presenza di una band in più – sette, contro le sei del venerdì – aumenta i ritmi e diminuisce la durata delle esibizioni, aperte ancora una volta da una formazione autoctona. Provenienti proprio da Madrid, gli Autumnal sono un’entità piuttosto antica di creazione (1998), ma mai assurta a grandi livelli per la poca costanza delle loro uscite, solo due full tra il 2006 (“Grey Universe”) ed il 2014 (“The End Of The Third Day”). La proposta del gruppo è classica ma davvero buona e ben eseguita: un doom-gothic metal arioso e molto melodico, a tratti ricordante le cupezze di My Dying Bride ed Anathema, in altri momenti richiamanti influenze più dark-oriented quali Type O Negative, Moonspell, Katatonia-di-mezzo e gli spagnoli Nahemah. Il confronto fra i due opener spagnoli è impietoso nei riguardi dei Foscor, che, seppur in grado di proporre uno stile più originale, vengono sopraffatti dagli Autumnal durante quaranta minuti completamente appaganti e meritevoli d’attenzione. Il vocalist Javier de Pablo alterna con sagacia una stentorea voce pulita ad un grave recitato plumbeo, fino a spingersi, in pochi frangenti, verso un growl profondo ma perfettamente intelligibile. Insomma, nella manciata di brani suonati, fra i quali segnaliamo “A Tear From The Beast” e “The Storm Remains The Same”, l’impressione che ci ha trasmesso questa compagine Autunnale è stata sorprendentemente positiva!
A FOREST OF STARS
Destano molta curiosità i britannici A Forest Of Stars, autori di un avantgarde progressive black metal di stampo teatrale ed istrionico, decisamente ostico da seguire su disco, figuriamoci dal vivo. La platea è ben affollata e pare esserci un’affluenza ancora maggiore rispetto alla prima giornata, particolare che permette alla band di Leeds di poter performare in condizioni ottimali, nonostante la notevole lontananza di genere dallo standard imperversante in questa manifestazione. Dei volumi probabilmente troppo alti e male assortiti per alcuni strumenti (leggasi: il violino di Katie Stone, anche voce femminile e breve meteora nella lineup dei My Dying Bride all’epoca di “For Lies I Sire”), uniti all’ineducatezza tecnica dello screamer Mister Curse – che ha ben interpretato il ruolo di frontman tormentato e un po’ folle, ma che ha reso cacofoniche, con le sue urla sgraziate, alcune parti – hanno di certo inficiato il nostro giudizio sommario: fatto sta che non siamo riusciti a farci andar giù molto bene la prestazione dei ragazzi d’Albione, troppo farraginosa, confusa e convulsa per andarci realmente a genio. Peccato, perchè tornati a casa abbiamo avuto modo di approfondire la conoscenza degli A Forest Of Stars attraverso YouTube, e ciò che abbiamo avuto modo di ascoltare non è così malvagio come ci è sembrato on stage. Solitamente, l’appeal e la resa sonora di una band dal vivo sono il primissimo ago della bilancia con il quale valutare una metalband, ma può anche darsi che per quest’occasione un abbaglio ci abbia colto, considerati anche i diversi pareri positivi ascoltati a fine concerto. Una formazione certamente da rivedere e da valutare meglio, in quanto personalità ed idee sono ben presenti. E’ mancata la prontezza nel trasmetterle, pensiamo.
EVOKEN
Era ora. Finalmente. Gli sono andati vicini gli Warning e gli Ahab il primo giorno e ne sfioreranno le ali membranose i Saturnus a breve, ma niente e nessuno come gli Evoken è stato in grado di risvegliare nei presenti al Madrid Is The Dark i demoni dell’Angoscia e della Rassegnazione, della Turpitudine e del Malessere. Un vero funeral doom/death metal oppressivo, caustico e malvagio, che ha trasmesso disagio a livelli imbarazzanti, si voglia per il cupo suono emesso dagli ampli, si voglia per i filmati disturbanti che, alle spalle di John Paradiso (un cognome, un programma), si sono ripetuti malati ed incessanti: una figura femminile in camice bianco da manicomio che si colpisce ripetutamente con un rasoio da barbiere cavandosi fuori pezzi di viscere e muscolatura; ominidi incappucciati che trascinano per un pendio un personaggio ridotto in stracci, mangiandone le parti intime e tormentandogli con artigli affilati tutto il resto del corpo; sempre gli stessi ominidi incappucciati in movimento tra frame spezzettati e paesaggi nebbiosi. Talmente rapiti da video sì truculenti, che il combo del New Jersey si è palesato realmente davanti ai nostri occhi solo per brevi periodi di tempo, impegnato a travolgerci di riverberi e risonanze oppure lanciato in groove monolitici e pesantissimi, a prescindere dal brano eseguito (segnaliamo la proposizione di un pezzo inedito, “Valorous Consternation”), a prescindere dalla reazione dell’audience, a tratti adorante. Probabilmente la posizione in scaletta non ha reso loro giustizia, soprattutto alla luce della performance quasi-pop, che si vedrà da qui a tre ore, della band solista di Liv-Kristine Espenaes, ma gli Evoken sembrano essersene fregati del tutto, sciorinando le loro nefandezze in maniera certosina e marziale. Un concerto che ha reso più buia e sudicia la Sala But, il cui odore di morte e ferite purulente si è diffuso ovunque, lasciando il pubblico pietrificato ed ampiamente soddisfatto. Gli In The Woods… sono stati superiori, ma gli Evoken rappresentano esattamente lo spirito stesso del festival.
GREEN CARNATION
Arriviamo al concerto spartiacque della seconda giornata del MITD e dopo esserci autoflagellati con il mare magnum doom degli Evoken, è giusto tornare a rivedere la luce con il set dei Green Carnation, anch’essi ormai fermi al palo del full-length album da ben undici anni – l’ultimo “The Acoustic Verses” risale infatti al 2006! Un leit-motiv, quello dell’ultimo disco edito diversi anni addietro, che accomuna parecchi act esibitisi quest’anno all’evento spagnolo, a testimonianza di una ricerca attenta e mirata degli organizzatori per mettere in piedi un bill assolutamente non scontato e lontano quasi del tutto da echi promozionali, peraltro, nel caso ci fossero, assolutamente normali e nella media. Ma torniamo ai Green Carnation, che in un crescendo emotivo d’intensità ed enfasi, ci strappano diversi applausi e sorrisi al termine del loro show, un ottimo esempio di come la musica possa essere personale, originale e d’attrattiva a 360°. Potreste definire la loro proposta in molti modi senza probabilmente mai prenderci in pieno, per cui ci limitiamo al termine ‘progressive metal’ per inquadrare il sound di questi intrepidi norvegesi, creati dall’ex Emperor, Blood Red Throne e Carpathian Forest Tchort e ottimamente condotti per mano da Kjetil Nordhus dietro il microfono, un cantante versatile ed espressivo, adattissimo per i Green Carnation, ed un frontman di spessore. La sua voce squillante, pulitissima, pochissimo metal-oriented e molto rock-oriented, si plasma in modo stentoreo sia sui groove moderni di brani quali “The Quiet Offspring” e “Sentinels Of Chaos”, sia sui più fulminei e poderosi cavalcamenti di “Pile Of Doubt” e “Crushed To Dust”. La formazione scandinava ci dà dentro di brutto e termina il suo spettacolo con ancora una decina di minuti a disposizione. Presi un po’ alla sprovvista, i Green Carnation non si fanno certo pregare e in quattro e quattr’otto piazzano la doppietta conclusiva composta da “Writings On The Wall” e “When I Was You”, sancendo in modo definitivo una performance fra le più riuscite della due-giorni, a dispetto di una posizione difficile in scaletta, schiacciata tra i due colossi doom Evoken e Saturnus e usabile molto facilmente quale pausa per prendersi una boccata d’aria e sgranchirsi le gambe al gelo dicembrino di Madrid. Così non è avvenuto, almeno in parte, e i Nostri hanno avuto un riscontro più che positivo!
SATURNUS
Come accennato nell’introduzione, i Saturnus, assieme ai Tiamat, arrivano a Madrid per sostituire i defezionari My Dying Bride e certamente il loro possente doom metal melodico è a tratti assonante con la musica della formazione inglese, ben più di quanto lo sia lo stile (oltretutto cangiante nel corso degli anni) della compagine di Johan Edlund. Difatti, seppur quest’ultima sia molto amata in Spagna, il richiamo dei Saturnus è forte tra gli astanti alla manifestazione, che attendono trepidanti la salita sul palco dei ragazzoni di Copenaghen. Esattamente cinque anni sono passati dalla release dell’ultimo “Saturn In Ascension” ed è proprio da qui che partono i danesi, eseguendo l’opener “Litany Of Rain”, inaugurante un set di soli cinque brani eseguiti in circa cinquanta minuti e poco più: il doom metal può essere cupo, funereo, complesso, progressivo, ipnotico o, un pelo più semplicemente, melodico e zeppo di richiami nostalgici; la musica dei Saturnus entra nei pori della pelle con lenta dolcezza e il reiterarsi mutevole di ritmiche possenti e assoli di chitarra che ampliano a dismisura l’afflato sognante del nostro sentire. Si decolla verso terre di pace mortale con i Saturnus, a differenza degli Evoken, nella cui musica la speranza di un futuro migliore giace inabissata sotto ondate di marciume. I recitati ed il growl mastodontico di Thomas Akim Grønbæk Jensen declamano le cadenze evocative ed epiche di un sound perfetto per abbandonarsi nei dipinti di un tramonto sanguigno, seguendo gli arzigogoli della chitarra di Rune Stiassny attraverso le successive “I Love Thee”, “Forest Of Insomnia” e “I Long”, brano epico e triste come pochi. Spezzoni di break acustici e pacati puntellano qua e là le ripartenze massicce del combo, che chiude con la vecchia e stupenda “Christ Goodbye” un concerto forse un po’ troppo monocorde, ma sicuramente apprezzato e applauditissimo da tutti i presenti. Dietro a In The Woods…, Evoken e Green Carnation, ma una lezione di stile e classe per chiunque. E ora, all’alba del penultimo spettacolo, prepariamoci a scrivere le note dolenti…
LIV KRISTINE
Per chi scrive, Liv-Kristine Espenaes resterà sempre la vocalist dei due capolavori iniziali dei Theatre Of Tragedy, l’omonimo debutto ed il seguente “Velvet Darkness They Fear”. Già con i successivi album di tale band, molto più orientati ad una ricerca musicale melodica e orecchiabile, l’interesse si era rapidamente spento; figuriamoci quando la bionda soprano norvegese si lanciò nei Leaves’ Eyes, oppure, ancor prima, nel suo progetto solista. Pareva però essere d’interesse questo slot al Madrid Is The Dark, in quanto, in una primissima locandina emessa dai promoter del festival, veniva annunciata la band di Liv-Kristine performante uno speciale set dedicato proprio ai ToT, come del resto successo in alcune occasioni durante gli anni passati, quando anche Raymond J. Rohonyi, male vocalist del Teatro di Tragedia, si era unito alla sua partner per una serie di spettacoli ricercati. Ebbene, tutto ciò non è avvenuto e, al termine di uno scarno show durato tre quarti d’ora alquanto leggerini, ci siamo trovati spaesati al cospetto di canzonette gothic-rock con un fortissimo afflato pop, anche nel caso degli unici due brani eseguiti dei Theatre Of Tragedy, ovvero “Venus” e “Siren”, entrambi tratti dal terzo disco “Aegis” e rivisitati con dubbio piglio. La Espenaes si è mostrata una frontwoman di carisma ed esperienza, sempre sorridente e accomodante verso il pubblico, in netto contrasto (forse troppo!) con le parole al minimo e la rozzezza delle sue controparti maschili succedutesi sulle assi della Sala But. In versione Meg Ryan palestrata e dimagrita, i ballettini della Liv hanno però convinto poco e attratto meno, portando diversa gente a preferire il vento glaciale della Madrid serale al tepore maleodorante del locale al chiuso. La cover ben eseguita e toccante di “Changes” dei Black Sabbath ha fatto scendere il sipario su una performance più adatta sicuramente ad un Metal Female Voices Fest che ad un Madrid Is The Dark, e l’averla posizionata sullo scranno del vice-headliner è stata una mossa un po’ troppo azzardata. Poteva essere un evento nell’evento, invece è stata la delusione più forte: come trovarsi una caramellina al miele invischiata tra le verze e la busecca di un bel piatto di cassoeula.
TIAMAT
Si giunge infine all’ultimo spettacolo del festival, ricalcante quasi esattamente il finale della manifestazione dell’anno scorso: i Tiamat che suonano davanti ad un cospicuo pubblico madrileno. Nel 2016, però, la loro setlist fu normale e regolare, un best of dei loro momenti migliori, ovvero uno show molto altalenante tra pezzi gothic-rock e poche chicche del passato. Stavolta, invece, la chicca del passato la fa da padrone durante tutta l’ora e venti circa di concerto, che ha visto l’attesissima esecuzione integrale di “Clouds”, con in più una sostenuta dose di bis tutti tratti da “Wildhoney”. Insomma, un po’ come per i Moonspell che per diverso tempo hanno girato in lungo ed in largo eseguendo “Wolfheart” ed “Irreligious”, così è successo ai Tiamat in questa occasione, con la possibilità di dare in pasto ai propri fan il loro album più amato per intero e il loro secondo album più amato a metà (o viceversa, a seconda dei gusti). Johan Edlund, ahinoi, ormai ha perso buona parte della sua verve mistica e fascinosa, trasformandosi in un cowboy dark dal carisma in declino e dalla voce non sempre efficace ed espressiva. Gli altri ragazzi della band, inoltre, escluso il drummer Lars Skold che suonò come session su “Wildhoney”, sono tutti musicisti estranei al passato remoto dei Tiamat, capaci sì di riproporre con fedeltà il materiale in programma, ma non di riportarne esattamente lo stesso fulgore atmosferico. Ancora da segnalare, poi, come una performance così unica nella storia degli svedesi non sia stata accoppiata ad una scenografia un minimo a tema e ad hoc: d’accordo che Edlund e soci sono stati chiamati a sostituire i My Dying Bride relativamente poco tempo fa, ma qualcosina in più si poteva probabilmente fare. “Clouds” decolla comunque con brillantezza con una splendida e ritmata “In A Dream”, doppiata subito dalla titletrack e da “Smell Of Incense”. E’ con la doppietta “The Sleeping Beauty” / “Forever Burning Flames” che però i Tiamat si tolgono la polvere di dosso ed entrano nel vivo dell’esibizione. E’ la prima volta che viene eseguito tutto “Clouds” dal vivo e Johan ci tiene a sottolinearlo prima di congedarsi dall’audience per un break di qualche minuto. Si riparte con il brano che più o meno tutti si aspettano sempre dai Tiamat, quel magnifico “Whatever That Hurts” che al solito conquista con il suo misto di gothic metal, dark, groove e musica ritualistica. Seguono poi la cadenzata “The Ar” e la più sognante “Visionaire”, e ancora l’incedere solenne di “Do You Dream Of Me?”, prima di arrivare all’atto conclusivo di tutto l’evento, l’esecuzione dell’indimenticabile “Gaia”, commiato ideale e dalla perfetta atmosfera, prima di tuffarci di nuovo nella realtà gelida della città, alla ricerca di un boccone da mangiare e in attesa di tornare, l’indomani, a casa. Arrivederci, Madrid!