Report a cura di Marco Gallarati
Madrid Is The Dark edizione VI: torniamo nella capitale spagnola per la terza volta di fila, in un weekend dicembrino sicuramente meno freddo e molto più climaticamente delizioso di quello che ci accolse l’anno scorso, per l’ormai consolidato appuntamento annuale con questo medio-piccolo festival indoor che, piano piano e con pazienza, si sta facendo un suo nome in ambito europeo, assieme al gemello iberico (portoghese) Under The Doom, con il quale vengono di consuetudine scambiate parecchie band in cartellone. Quest’anno il MITD ha avuto il coraggio di spaziare ampiamente su più sottogeneri di musica estrema e meno estrema, restando comunque fedelmente incollato al proprio concept di evento incentrato sul metal oscuro, prevalentemente doom, avantgarde e gothic metal. Ma vogliamo lasciare le considerazioni relative alla musica nel report sottostante, come al solito diviso in singoli trafiletti, uno per ogni band. Ci soffermiamo un pelino di più, invece, sull’unica e ripetuta critica che si può porre agli organizzatori del Madrid Is The Dark di questi tempi: se da una parte è verissimo che la location della Sala But, una discoteca fatta e finita posta nella zona centrale della città, a due passi dal Museo de la Historia de Madrid, non permette molta fantasia per predisporre qualche attrattiva logistica da festival, bisogna anche però sottolineare come, in tre anni di nostra presenza consecutiva, non ci sia stato modo di apprezzare una singola miglioria che fosse una, oppure qualche iniziativa di maggior coinvolgimento o interazione tra fan e band. Si entra, si può uscire dal locale con l’apposizione del classico timbro sulla mano, si guardano i concerti, si bevono birre dai bar, c’è una appena sufficiente postazione per il merchandise di gruppi e festival…e punto, finita qui; si passano in pratica due pomeriggi/serate in attesa delle formazioni chiamate on stage. Non si chiede certo di mettere in piedi happening ingestibili, ma ad esempio alcuni meet&greet nell’ampia sala superiore del locale, dove invece era situato il ‘backstage’ e il rifocillamento per gli artisti, si possono pensare e organizzare in tutta comodità.
Insomma, resta lodevole l’approccio retrò e incentrato esclusivamente sul godersi la musica di questa manifestazione, ma più si va avanti negli anni, più la sensazione di stantio comincia a farsi sentire. Ora è tempo, finalmente, di note musicali e smetallate, che restano comunque la cosa più importante. Sempre.
VENERDI’ 07/12/2018
La prima giornata di festival, che vede un’apertura porte prevista per le 15.30 ed il via ai concerti alle ore 16 in punto, è probabilmente il più grosso rischio che l’organizzazione madrilena si è presa, in ambito di lineup perlomeno, negli ultimi anni: difatti, delle sei band previste per il venerdì, solo una – i Clouds – è associabile completamente alla scena atmospheric doom death metal, fulcro portante dell’evento e genere di riferimento per l’audience abituale del MITD. Con headliner gli ormai post-rocker Solstafir e, sotto di loro, i crepuscolari Antimatter da una parte e, dall’altra, l’accoppiata Shining / Forgotten Tomb a ben rappresentare gli esordi e le origini del depressive suicidal black metal, il leit-motiv straniante della giornata sarà l’acuta alternanza di sonorità udibili, per un effetto globale, a fine performance, di lieve amaro in bocca per la protratta poca pesantezza delle proposte visionate.
AATHMA
Si parte dunque a metà pomeriggio con gli opener autoctoni – proprio di Madrid – Aathma, che nel 2017 hanno pubblicato il loro terzo full-length “Avesta”, compendio piuttosto lisergico di stoner/sludge con derive parzialmente prepotenti in campo doom e groove metal. Nonostante l’esperienza ormai decennale, considerata la fondazione avvenuta nel 2007, il power-trio pare un po’ povero in quanto a presenza scenica e soprattutto interazione con gli astanti, peraltro già in buon numero. Da una band d’apertura, a maggior ragione definibile come ‘un po’ fuori contesto’, ci saremmo aspettati un approccio più diretto nei confronti del parterre, invece gli Aathma pensano (anche giustamente) a suonare e basta. E quando la pedaliera del vocalist e chitarrista Juan Dominguez si zittisce completamente dopo il secondo pezzo, quelli che passano sono dieci minuti lunghissimi di lavori tecnici e attesa quasi suicida. Sfortunati i tre, ma poi anche meritevoli di plauso per aver concluso un set di quaranta minuti con sufficiente savoir-faire: molto meglio nelle sezioni più cadenzate del loro suono, gli Aathma, mentre nelle parti più psichedeliche, (s)condite dalla monotonia della voce di Juan, la band è da rivedere.
CLOUDS
La Sala But si riempie veloce in un cambio-palco davvero rapido, mentre le prime birre del festival si fanno largo nel nostro esofago. I Clouds, band internazionale ma con netta prevalenza, attualmente, di musicisti rumeni, sono molto attesi e probabilmente, per alcuni, sono il concerto da non perdere del giorno. Sul palco per il settaggio dei suoni, i Nostri partono subito senza neanche uscire dallo stage per poi rientrarci: l’opener del primo disco “Doliu”, “You Went So Silent”, catalizza e anestetizza l’attenzione di tutti con il suo alternare depressissime suggestioni di voce e pianoforte (purtroppo in base, la band non ha un tastierista ufficiale) e poderose esplosioni di un doom metal ossianico e avvolgente, sulle quali il growl e il pulito dell’ottimo Daniel Neagoe dipingono arazzi di lugubre efficacia. Simili sensazioni si ripetono durante l’esecuzione della seguente “Dor”, title-track dell’ultimo lavoro, uscito a novembre. Epici cantori di dolori e disperazione, i Clouds si protraggono in cinquanta minuti di musica catartica, presentando per l’occasione anche una bella manciata di amici/ospiti, fra i quali hanno spiccato la cantante greca Gogo Melone (Aeonian Sorrow) su “When I’m Gone” e l’olandese Pim Blankenstein (Officium Triste) per “The Forever Sleep”, pezzo più movimentato e più doom-death oriented tra quelli proposti dalla band multi-etnica. Scritto della valida prova della giovane violinista Irina Movileanu, ci piacerebbe che i Clouds rendessero più dinamiche le loro due chitarre, usate troppo come mero supporto ritmico-melodico, senza nessuna infamia ma anche senza lode particolare. Il MITD tributa svariati osanna al gruppo, comunque, segno che questa formazione si è già scavata una profonda e larga nicchia nell’underground del genere.
FORGOTTEN TOMB
In un bill complessivo del festival che, in due giorni, presenta dodici formazioni provenienti da dodici nazioni diverse, arriva subito il momento dell’Italia, rappresentata quest’anno dai Forgotten Tomb, alle prese anche qui, come al nostro recente Metalitalia.com Festival 2018, con la riproposizione per intero del debutto “Songs To Leave”. Con alle spalle un ledwall proiettante immagini disturbanti e con una scenografia ridotta al minimo – così come sarà quella di tutte le formazioni, del resto, headliner compresi – i quattro piacentini hanno ovviamente lasciato parlare la musica, concedendo il minimo sindacale di battute scambiate con l’audience (e ci mancherebbe…). “Entombed By Winter”, con il suo criptico ed oscurissimo incedere, ha preparato il terreno per il resto del set, trainato dal capolavoro “Solitude Ways”, primo vero momento del giorno in cui il pubblico ha iniziato a dare cenni di presenza fisica, mettendosi a scapocciare seguendo il giretto penetrante di chitarra memore dei primissimi Katatonia, in piena enfasi DSBM. Sicuramente l’esibizione più pesante ed oppressiva della giornata, quella di Herr Morbid e soci, che con “Disheartenment” hanno obnubilato definitivamente un’audience attenta e partecipe, che ha anche potuto godere di suoni precisi e dai volumi corretti. Nello scontro a distanza con gli Shining, possiamo già dirvi che in questa occasione gli allievi hanno superato i maestri.
ANTIMATTER
Mick Moss e i suoi Antimatter hanno dimostrato di recente, grazie al lodevole ultimo uscito “Black Market Enlightenment”, di essersi ancor più staccati dalla loro storica aura di creatura ultra-depressa e super-soft per farsi ampiamente baciare da un minimo di luce solare, mood positivo e vigore sonoro, solitamente latitanti da buona parte della loro discografia. Oddio, le sonorità progressive e dark dell’electro-rock della one-man-band britannica non sono per nulla sparite e durante un loro spettacolo non si poga di certo, ma è verissimo che l’approccio del quartetto allo stage è stato il più sorridente, luminoso e rinfrancante della due-giorni complessiva di show, complice anche l’uso di un gioco di luci incentrato sul giallo e sul rosso, colori caldi, richiamanti l’artwork del nuovo platter, proiettato in grande alle loro spalle. Pur stravolgendo le coordinate sonore di chi li ha immediatamente preceduti, gli Antimatter meritano assolutamente di calcare le assi cineree e plumbee del festival spagnolo. Ed infatti il parterre è quasi pieno anche per loro e, in mezzo a tanta gente che osserva rapita, possiamo pure riscontrare alcuni personaggi fra i più invasati dell’intera manifestazione, segnale di come il combo di Moss sappia conquistare alla grande. Che dire, dunque, di una performance pressochè perfetta, solo lievemente guastata da volumi paradossalmente troppo alti? Affiancato da Fab Regmann alla batteria, Ste Hughes al basso e dal virtuoso dell’EBow Dave Hall alla chitarra solista, Mick ha scelto di proporre solo “The Third Arm” e la grandiosa “Partners In Crime” dal da poco edito lavoro, per poi lasciarsi andare ad un mini best-of show a ritroso nella sua carriera, fermandosi a “Leaving Eden”, tratta dall’omonimo disco di undici anni fa. Un’ora di piacevole, corroborante ed inaspettatamente agitata musica ci ha condotto verso i due gruppi chiamati a chiudere la prima giornata del MITD.
SHINING (SWE)
Lo stacco atmosferico tra Antimatter e Shining è ancora più devastante di quello provato nell’alternanza tra Forgotten Tomb e la band di Liverpool. Dall’appeal amichevole e abbracciante di Moss si passa all’ostruzionismo misantropo e alle provocazioni gratuite del discussissimo Niklas Kvarforth, personaggio divenuto iconico di un certo modo di rappresentare il black metal inneggiante al suicidio e alla morte della vita. La prestanza fisica e l’atteggiamento del succitato, uniti alla presenza scenica e alle tenute vestiarie del bassista Magnus Hammarstrom e dell’ottimo chitarrista solista, di cui purtroppo non abbiamo notizia in quanto le informazioni on line sono confuse e/o latenti (probabilmente trattasi dell’olandese Benny Bats), possono poi dare fastidio, tenendo conto dell’abbastanza scontato richiamare l’iconografia di una determinata corrente politica. Ecco spiegati, quindi, i perchè, per un gruppo pre-headliner, non ci sia la Sala But piena e le reazioni degli astanti presenti siano fredde e perloppiù contrastanti. La musica degli Shining svedesi, difficile e ardimentosa nei suoi continui ottovolanti di violenza e melodie sinistre, fa il paio con la voce sconnessa e diseducata (ma potente!) di Kvarforth, che si cimenta in diversi attacchi verbali e fisici al pubblico, apostrofandolo più volte con epiteti discutibili (‘mongoloids’, in particolare, è proprio segno di forzato cattivo gusto) e sputando in direzione del parterre con un’eleganza sopraffina. Si era molto curiosi di visionare per la prima volta questa band tanto chiacchierata e ciò che ci è rimasto dentro di un tale show a tutti gli effetti unico, più della comunque valida e ben suonata proposta musicale, è il compatimento per un musicista tanto estremo e seminale in passato quanto macchietta di se stesso oggigiorno. Pazienza, si passa oltre.
SOLSTAFIR
E l’oltre si chiama Solstafir, per l’ennesimo voltafaccia stilistico di questo stranissimo primo giorno di Madrid Is The Dark. Il coraggio non manca di sicuro al gruppo di Reykjavik, che da qualche tempo a questa parte si avvale on stage della piena presenza di un tastierista, Ragnar Olafsson, il cui look andrebbe seguito maggiormente, considerando quanto il resto della band lo curi machiavellicamente, continuando a protrarre l’algida prosopopea e i vestiti western che hanno fatto affibbiare agli islandesi la nomea di Cowboys From Ice: tastiere e batteria sono quindi appaiate sul retro del palco, la scenografia è ridotta all’osso, mentre Tryggvason, Austman e Sæþórsson sono liberi di aggirarsi sinuosi e claudicanti, à la Clint Eastwood praticamente, per il resto dello stage. Il coraggio di cui sopra deriva dal fatto che, in questa tournée, i Solstafir aprono i loro concerti con la prima quindicina di minuti quasi del tutto strumentali, proponendo in fila l’incipit del disco “Kold”, “78 Days In The Desert”, senza lyrics appunto, seguita a ruota dalla title-track, il cui testo è scarno e minimal. Si arriva quindi a un terzo dell’esibizione completamente assuefatti dal muro di chitarre, basso e tastiere in sottofondo, liquido e rockeggiante, imbastito dai cinque Nostri. Un viaggio psichedelico allucinante che, assieme al citato inglobamento delle keyboards a pieno regime, fanno ben capire dove stiano andando a parare questi musicisti. Certo, la progressiva deriva verso il post-rock e la minima esecuzione di parti vocali, davvero in secondo piano durante la setlist e sepolte dalle tonnellate di riverberi e feedback creati, possono creare due diverse correnti di pensiero: a) i Solstafir stanno per entrare nell’Olimpo dei grandi dello space-prog-post rock di ampie vedute; b) i Solstafir stanno morendo e in ambito metal non hanno più nulla da dire. Purtroppo, evidenziando comunque il gran successo riscontrato tra l’audience di Madrid, le acclamazioni finali ed il buon spettacolo fornito – chiuso dalla doppietta immancabile “Fjara” / “Goddess Of The Ages” – nel dubbio noi propendiamo leggermente per la seconda fazione. Il rischio, in queste situazioni, è infatti che la noia prenda il sopravvento. Ed il gig dei Nostri, fors’anche percepito con troppa stanchezza addosso e tante ore in piedi ad una certa età, è stato in soldoni questo, noioso.
Si esce in fretta dal locale, ci si rifocilla per bene e ci si inchioda a letto, chè il giorno seguente sarà ben più metallico.
SABATO 08/12/2018
Riposati e mangiati, ci ripresentiamo alla Sala But in perfetto orario; e come noi, già diverse decine di persone fanno il loro ingresso durante i primi minuti trascorsi dall’apertura delle porte. L’appuntamento del Madrid Is The Dark è dunque fortemente sentito nella capitale ispanica, un appuntamento che nel sabato dell’Immacolata presenterà almeno due formazioni rispecchianti in pieno gli stilemi del festival, gli opener Mourning Sun e i funeral doomster Mournful Congregation. Wildcard della giornata saranno i While Heaven Wept, al loro ultimo tour (forse?) prima dello scioglimento definitivo, mentre i pressochè sconosciuti olandesi The Wounded cercheranno di sorprenderci positivamente come hanno fatto in sede di ascolto preventivo on line. A chiudere, quasi a porsi simmetricamente opposti agli Shining del giorno prima, ecco la follia genuina e cosmica degli Arcturus; e poi i Triptykon di Tom G. Warrior, che stanno portando in giro uno show in cui alternano i loro brani a quelli più che storici dei Celtic Frost. Carne al fuoco dunque ce n’è, eccome!
MOURNING SUN
Sono le 15.20 e, con ancora un ottimo mega-hamburger sullo stomaco, ci apprestiamo a seguire l’esibizione dei Mourning Sun, combo originario di Santiago del Cile ma ora divenuto mezzo europeo grazie alla presenza del norvegese Rune Gandrud al basso, del danese Mads Mortensen alla batteria e dello spagnolo Daniel Maganto ad una chitarra; quest’ultimo, pur essendo di casa, è assente però sul palco, costringendo il Sole a Lutto ad esibirsi a cinque elementi, con il solo Juan Escobar ad occuparsi del lavoro alla sei-corde, mentre il fondatore Eduardo Poblete ricama svolazzi ora profondi, ora soavi alle sue tastiere. Fulcro della formazione, comunque, è la vocalist Ana Carolina, che si presenta on stage con un lungo abito grigio antracite e la parte viso-collo completamente dipinta di nero ed incastonata da pietruzze di vetro. L’effetto, ombroso e lugubre, è azzeccatissimo e calza a pennello con il lento ed evocativo avantgarde-doom-gothic metal che i Nostri propongono. La prestazione è buona, seguita con attenzione estrema dal centinaio di persone già presenti, e ha in “Latitud:56’S” un inizio ossianico notevole, considerati gli esemplari dodici minuti pieni di vocalizzi e sonorità sperimentali in pieno avant-style. Anche “Spirals Unseen” e “Vena Cava” piacciono molto, ma è con “Cabo De Hornos (Cape Horn)” che i Mourning Sun e Ana Carolina raggiungono l’apice, esattamente quando la cantante performa un folle gorgheggio vocale che da solo è valso l’essere presenti a sì presta ora. Promossa in sede live, ma ora la band deve diventare più produttiva e quadrata anche in studio.
THE WOUNDED
Ci trasferiamo in Olanda dai misconosciuti The Wounded, che ci hanno ben impressionato al momento di scoprirne superficialmente le abilità in qualche ascolto a casaccio su YouTube. Attiva da vent’anni (1998), questa formazione non ha mai firmato contratti con etichette discografiche e si è sempre autoprodotta i propri – quattro – lavori, dei quali l’ultimo, “Sunset”, risale al 2016. E’ però di inizio dicembre la notizia della pubblicazione di un quinto album fresco fresco, “In Silence”, in cui Marco van der Velde e compari rivisitano in chiave ambient e più soft una buona manciata di loro brani. Ecco, non che il doom-gothic metal del sestetto in questione sia particolarmente pesante, oppressivo e/o aggressivo: sonorità sì riferibili al genere in questione per liriche e mood generale, ma per il resto ciò che esce dall’impianto della Sala But è un gothic metal molto leggero e dall’approccio post-rockeggiante, che apre a facili melodie fin dalle iniziali “Wolves We Raised” e “This Paradise”. La presenza di tre chitarre ci pare decisamente esagerata, ma ce la spieghiamo con la necessità del suddetto vocalist di imbracciare lo strumento per sopperire alle sue carenze da frontman di razza. Gli oranje, difatti, paiono la classica band, pur onesta negli intenti, che non è mai andata oltre un certo livello di notorietà (e professionalità) per mancanza d’abnegazione e di quella necessaria convinzione che serve a superare qualche ostacolo e a toccare le giuste corde in una scena, soprattutto all’epoca, piena zeppa di valide entità musicali. Dopo l’esecuzione della vecchia “The Art Of Grief”, conosciuta da buona parte dell’audience, è stata poi la volta della sorprendente, ma invero non troppo riuscita, cover di “Smells Like Teen Spirit” dei Nirvana, rallentata e privata di tutta la sua energia punk: l’immortale e bellissima melodia del chorus è conosciuta anche nei più oscurati stati islamici, ma l’interpretazione dei The Wounded non ci ha convinto del tutto. Così come l’intero spettacolo degli olandesi ha lasciato più di una parvenza d’amaro in bocca, per qualcosa che poteva nascere – l’amore per tale band – ma che non è per nulla sbocciato.
MOURNFUL CONGREGATION
Arriva la caustica ora del funeral doom melodico e stratificato degli australiani Mournful Congregation, pochi giorni prima, con Ophis e gli stessi Mourning Sun di cui sopra, di scena anche in Italia. La band di Adelaide è a tutti gli effetti la più doom-oriented del lotto proposto quest’anno dagli organizzatori del Madrid Is The Dark e finalmente gli estimatori delle sonorità più tetre e catatoniche hanno di che gioire. L’intro “The Indwelling Ascent” prelude all’esecuzione dell’immensa “Whispering Spiritscapes”, opener del recente “The Incubus Of Karma”, ennesima prova mirabolante di una band che finora ha lasciato davvero poco di deludente alle sue spalle. Le tre chitarre, nel caso degli aussie, sono certamente più giustificate, sebbene i suoni non abbiano reso al meglio le intricate partiture doomish del gruppo, che costruisce, minuto su minuto, imponenti colonnati marmorei di riff, riverberi e agganci melodici talmente spessi e soffocanti da far dimenticare il momentum fisico del presente. La scelta di suonare solo tre brani molto lunghi – seguiranno “Suicide Choir” e “Mother-Water, The Great Sea Wept” – penalizza un po’ la dinamica del concerto, ma è chiaro come i cinquanta minuti a disposizione dei Mournful Congregation siano totalmente scollegati da qualsiasi percezione reale di trascorrere del tempo, andandosi a connettere esclusivamente con sinapsi annichilite dal monolite sonoro imposto loro. Damon Good interpreta al meglio le sue parti vocali e la capacità di ottundere i sensi della band è assolutamente intatta. Non si è trattato, però, del concerto migliore dell’evento, in quanto nell’oceano pseudo-immobile di sound espresso, le ondate realmente in grado di impressionarci non sono mai arrivate. E per riprenderci al meglio, optiamo per la solita birra di rinforzo.
WHILE HEAVEN WEPT
Eccolo, per chi scrive, il concerto migliore dell’evento! Subito dopo i Mournful Congregation, lasciamo le sponde gorgoglianti del funeral doom per andare a lambire le più movimentate e classiche sonorità promulgate dagli ottimi While Heaven Wept, che riversano sugli astanti un’ora incredibilmente intensa e sentita del loro epico progressive-power-doom metal, certamente a tratti del tutto fuori contesto in tale festival, ma comunque capace di spiegare le proprie ali e abbattere qualsiasi frontiera di genere per accasarsi in quello speciale cantuccio del cuore dove si conserva con gelosia il ricordo di performance straordinarie. Dopo essersi messa in pausa nel 2017, la band della Virginia ha resistito poco a stare ferma, imbastendo un tour d’addio europeo che sta toccando in questa fine 2018 diverse manifestazioni indoor invernali. Ed è un vero peccato se la formazione di Tom Phillips deciderà di sciogliersi definitivamente dopo questo periodo di riflessione, in quanto l’amalgama on stage, la bravura, il trasporto e l’approccio al palco di tutti i musicisti sono davvero encomiabili. Pensiamo che siano pochi gli spettatori abituali del Madrid Is The Dark a gradire una voce potente e squillante come quella di Hank Rain Irving, ma una volta ascoltatala non ci si può esimere dal tributare al non-crinito singer un applauso enorme; e come a lui, così non si può non fare anche per i suoi compari agli strumenti, con il già citato Phillips sugli scudi alla prima chitarra, ben sostenuto dalla seconda ascia Scott Loose e dal basso di Jim Hunter. Solo le tastiere di Michelle Loose-Schrotz ci sono sembrate lievemente lasciate in secondo piano nel mixing fuoriuscente dagli amplificatori, peccato. La compagine americana sceglie argutamente di trascurare le ultime due release (“Fear Of Infinity”, “Suspended At Aphelion”), caratterizzate da un più marcato accento progressive, per inanellare una serie di brani appartenente al passato remoto epic-doom e a quel “Vast Oceans Lachrymose” che è ancora oggi un piccolo capolavoro di metal di classe a 360°. Iniziare il set con “The Furthest Shore” – sedici minuti – lascia di stucco tutti, per un lungo quarto d’ora di andirivieni strumentali e vocali da togliere il fiato per l’emozione; e sempre dal sopra nominato album, ecco arrivare più tardi la stupenda “Vessel”, brano tanto potente quanto strappalacrime e commovente. Scandendo il gig con ben tre tracce tratte dal secondo “Of Empires Forlorn”, il sestetto yankee ha chiuso il set con l’opener del debutto “Sorrow Of The Angels”, ovvero “Thus With A Kiss I Die”, altri sedici minuti dall’impronta più doomish ed in pieno mood da MITD. Show maiuscolo, quindi, per una band che non è mai stata considerata fra i pezzi grossi della scena, di sicuro anche per la sua trasversalità fra più generi, ma che merita tutto il nostro più sincero plauso.
ARCTURUS
Alle 20 in punto la Sala But è gremita e si prepara a vivere uno dei suoi momenti più attesi, ovvero la salita on stage degli Arcturus, che, nella stessa posizione di pre-headliner della giornata prima, riescono a dare un’interpretazione del concetto di ‘show folle e sopra le righe’ anni-luce più riuscita rispetto ai colleghi di black metal atipico Shining. Finalmente l’enorme drumset di Jan Axel Blomberg aka Hellhammer, che coperto da un drappo nero ha occupato mezzo palco per tutte le esibizioni precedenti, viene mostrato alla platea e, dopo qualche minuto di ritardo, i musicisti entrano in pista infiocchettati nei loro astronomici e steampunk costumi di scena. Simen Hestnaes aka ICS Vortex gigioneggia nel suo pesante pastrano come un diplodoco sudato in una sala da thè, ma non appena si avvicina al microfono sono poesie schizoidi per tutti. A dire il vero, come spesso accade, il primo pezzo, l’immenso “Kinetic” da “The Sham Mirrors”, viene fuori con i suoni un po’ sbilanciati, ma nei successivi “Nightmare Heaven” e “Collapse Generation” – sempre estratti dallo stesso album – la situazione sonora migliora, permettendo anche una perfetta udibilità degli arditi passaggi strumentali intercorrenti tra la chitarra di Knut Magne Valle ed il basso di Hugh Mingay aka Skoll. Solamente le tastiere, peraltro fondamentali, di Steinar Sverd Johnsen rimarranno un po’ ‘chiuse’ nel mix complessivo, soprattutto nelle parti di enfasi maggiore. Quattordici brani eseguiti in circa settanta minuti di performance sono stati una corroborante scarica d’energia e adrenalina, performati da un gruppo sicurissimo di sè e del proprio repertorio, scandagliato in ogni dove quasi in parti uguali, con la sola eccezione di “Sideshow Symphonies”, dal quale solo “Hibernation Sickness Complete” è stata proposta. L’accoppiata composta da “The Chaos Path” e “Alone” è risultata in dieci minuti di intensissimo avant-black psicotico, mentre i brani tratti da “Aspera Hiems Symfonia” – ben tre! – hanno testimoniato come Vortex sia a proprio agissimo anche sulle composizioni originariamente cantate da Garm; d’altronde trattasi dei due migliori interpreti di corde vocali impazzite della scena pseudo-black, poche chiacchiere in merito. Gli Arcturus salutano Madrid con la simbolica “Of Nails And Sinners” e scendono dal palco da facili vincitori su di una folla attonita e ampiamente plaudente per quanto ascoltato. Dopo una tale sinfonia cosmica, scendere dalle stelle per entrare nelle criptiche tombe dei Triptykon sarà impresa ardua!
TRIPTYKON
Anche perchè il cambio-palco tra le due ultime formazioni in programma nell’edizione 2018 del Madrid Is The Dark è di quelli epici: settanta minuti di pausa occorrenti per settare una batteria, un basso, due chitarre e tre microfoni, oltretutto sui registri non particolarmente raffinati che di solito esternano i Triptykon; ma tant’è, si è headliner non per nulla ed il peso della posizione spesso vale un’attesa al limite dell’irritante. Tom G. Warrior e soci avevano annunciato, per questa occasione, uno show diviso in due tra Triptykon e Celtic Frost, set che ormai la band sta portando avanti da qualche tempo. Ma è pur vero che, qualche giorno prima a Los Angeles, i Nostri avevano proposto per la prima volta uno spettacolo interamente dedicato alla creatura svizzera più famosa al mondo dopo il cioccolato; e quindi, si saranno detti, perchè non ripetere l’ideona lasciando del tutto a zero il computo dei brani tratti da “Eparistera Daimones” e “Melana Chasmata”? Bene, detto e fatto, en plein e tutti a casa soddisfatti. O meglio: come rimanere delusi dal riascoltare, o finalmente ascoltare dal vivo, canzoni del calibro di “Procreation (Of The Wicked)”, “Circle Of The Tyrants”, “The Usurper” e “Return To The Eve”? Impossibile, direte voi. E se poi ci aggiungete anche “Visions Of Mortality”, “Os Abysmi Vel Daath”, “Ain Elohim” e “Morbid Tales”, il gioco è completo e l’esibizione a livelli siderali. Ok, tutto vero. C’è stato il thrash, il proto-black, il doom, tutto quello che sono stati e che hanno contribuito a creare i Celtic Frost nella loro storia. Ed è stato ottimo e una degna chiusura della manifestazione, con tanta gente che, a fine esibizione, oltre le 23.30, chiedeva ancora musica del Gelo Celtico. Epperò è strano, fin troppo estremo tutto ciò: se aggiungiamo che Tom G. Warrior sta per portare in giro anche la musica degli Hellhammer con il monicker Triumph Of Death, è plausibilissimo chiedersi quanto il nome Triptykon, e le sonorità ad esso legate, siano ancora fra gli interessi dell’icona rossocrociata. Peccato, perchè certo tale band non merita di vedersi ‘affossata’ in questo modo, dimenticando del tutto i due ottimi dischi pubblicati negli anni scorsi. Per il resto non si può assolutamente rimproverare nulla ai TriptyFrost, in grado di catalizzare gli sguardi di chiunque solo con suoni monolitici, canzoni immortali ed una presenza scenica mai sopra le righe ma efficace e ‘dentro lo show’: con il supporto ritmico dell’apprezzatissimo Hannes Grossmann, il carisma di Tom, abbinato agli scapocciamenti selvaggi di V. Santura e all’aggressività di Vanja Slajh, che pesta il basso con un’ignoranza atavica ma affascinante, sopperisce a qualsiasi lacuna artistico-tecnica si possa verificare. E i quattro, oltretutto, paiono divertirsi un mondo a suonare assieme, interagendo spesso con naturalezza genuina, cosa mai scontata quando si raggiungono vette elevate di notorietà e successo.
Chiusura di evento più che soddisfacente, dunque, sebbene criticabile per i motivi appena sopra elencati. Lasciamo Madrid consapevoli della bontà qualitativa del festival, che nel 2018 non ha, tutto sommato, evidenziato cali disastrosi, come fu ad esempio l’anno scorso con la presenza di Liv-Kristine in versione gothic-pop… Restiamo curiosi di scoprire ora il bill per l’edizione 2019, in quanto la tendenza degli organizzatori pare quella di aprirsi lentamente verso un più ampio calderone di sottogeneri metal e post-rock.