06/12/2019 - MADRID IS THE DARK VII @ Sala But - Madrid (Spagna)

Pubblicato il 18/12/2019 da

A cura di Marco Gallarati

Il festival spagnolo Madrid Is The Dark giunge alla sua settima edizione complessiva, la quarta consecutiva a cui partecipa Metalitalia.com e la quarta consecutiva ad essere organizzata dopo gli anni di pausa intercorsi a seguito della terza tornata della manifestazione, tempo addietro, aumentando in spessore e popolarità il suo status di evento di (fortunata) nicchia nell’ampio e numeroso calendario concertistico annuale europeo. Assieme al suo cugino lusitano, l’Under The Doom di Lisbona, l’happening madrileno allarga pian piano gli orizzonti uscendo dallo stolido e malinconico ripetersi delle esibizioni doom/gothic metal e funeral doom metal inglobando nelle sue lineup una crescente varietà di diramazioni di metallo cupo ed oscuro, poco importa con quale e quanta violenza e/o lentezza esso venga promulgato.
Un bill come quello dell’edizione da poco terminata non poteva non far gola, per non dir ‘golissima’, ai moltissimi aficionado e nostalgici (sia chiaro, ormai ultratrentenni e quarantenni) di tali sonorità ancora presenti in giro per l’Europa e – perchè no? – tutto il mondo: l’astro ormai ben splendente del blackgaze più sognante, i francesi Alcest, da una parte, e dall’altra i creatori di tutto lo scibile che rientra sotto l’egida ‘gothic metal’, gli albionici Paradise Lost, non hanno lasciato indifferenti nessuno e difatti, per la giornata di sabato 7 dicembre, il bollino ‘tutto esaurito’ ha presto di rosso campeggiato sulla locandina del festival; seguito, nei giorni a ridosso dell’evento, dal venerdì 6.
Un festival che basa il suo enorme successo – sempre relativo al bacino d’utenza papabile che possiede una musica che ha avuto pochissimo ricambio generazionale nel corso degli ultimi dieci anni e che si tiene in piedi fondamentalmente sulle gesta dei mammasantissima nati agli albori degli anni Novanta – esclusivamente sulla musica. Sì, perché, a conti fatti, il Madrid Is The Dark altro non è che un doppio concerto singolo tenuto in una discoteca, allungato in durata e richiamo mediatico, ma del tutto scevro e svuotato delle attrattive più comuni e solite di simili manifestazioni: gli organizzatori madrileni, tenendo prezzi tutto sommato notevoli per il tipo di offerta di contenuti musicali e d’altro tipo, non accennano a migliorare o variare le coordinate della loro proposta, lasciando allo striminzito loculo adibito al merchandise, ai bar sempre ben forniti della birra locale (in realtà è della amica/nemica Barcellona) Estrella e alla benevolenza di un pubblico mediamente interessato al solo aspetto emotivo/nostalgico della manifestazione, i punti più caratteristici della loro creatura. E dunque, se per un verso torniamo sempre più che volentieri nella capitale spagnola agli inizi di dicembre, complice anche lo spesso concomitante ponte dell’Immacolata, dall’altro lato ci rendiamo ben conto della nulla volontà di dare ai sempre più numerosi astanti qualcosa di più che non sia la assicurata, e comunque ottima, libidine musicale.
A differenza degli anni passati, come da qualche tempo a questa parte stiamo provando a fare, vi proponiamo un report della due-giorni diviso per date e non più per band, affinché la lettura possa risultarvi meno pesante e più agile. A voi!

 

VENERDI’ 06/12/2019

La prima giornata del festival inizia con una brutta notizia, l’imprevista cancellazione di una delle band in cartellone, gli scozzesi SAOR, in forte crescita e appena usciti dall’underground grazie alla firma per Season Of Mist, per la quale pubblicheranno il prossimo disco. Problemi relativi al volo – probabilmente perso all’ultimo dal gruppo di Glasgow – non permettono ad Andy Marshall e ai suoi musicisti di partecipare al Madrid Is The Dark. L’organizzazione può fare poco, se non posticipare di dieci minuti l’inizio delle ostilità e chiedere ad alcune formazioni in programma di suonare un pelino di più.
E si parte dunque, alle 16.10, con gli atipici catalani OBSIDIAN KINGDOM, del tutto lontani dall’approccio usuale delle sonorità standard dell’evento. Il loro stile è poco inquadrabile e rammenta gli Anathema di metà carriera così come i connazionali Nahemah, con forse un’inclinazione più marcata verso il groove e l’uso dell’elettronica e dei visual, dal vivo molto presenti e condizionanti la performance soprattutto a livello estetico. Proprio il ledwall trasmettente immagini di vario genere, a tratti disturbanti, a tratti di critica sociale, ci distrae quel tanto che basta per giudicare con sufficienza lo show del quintetto di Barcellona, applaudito a Madrid come si confà ad ogni opener che si faccia rispettare, ma ben presto dimenticato se confrontato ai pezzi forti loro seguenti nel bill. Un po’ fuori contesto, insomma.
Ci aspettavamo dagli HAMFERD un buon concerto, ma di certo non così spettacolarmente drammatico e pesantemente doom come in realtà esso è stato. Non una parola spesa sul palco, movimenti minimi e controllatissimi, con il solo frontman Jon Aldarà proteso in mosse vagamente più dinamiche e aggressive: in faroese la parola ‘hamferd’ indica la commemorazione, o la materializzazione dello spirito, dei marinai che perivano o scomparivano nell’oceano, per cui la performance on stage degli isolani è esattamente quello che sembra, un’orazione funebre atta a ricordare le perdite di tali vite. Inappuntabili, in completo nero, giacca e cravatta, i cinque musicisti e Aldarà fanno colare a piombo sulle teste degli astanti il loro funeral doom metal progressivo e quasi classico, impreziosito ai massimi livelli da una prestazione canora incredibile e devastante, in pulito così come in un profondissimo growl. Ossianici e cimiteriali, uno dei momenti più alti della due-giorni. Senza dubbio.

Si passa ad uno degli act più attesi della manifestazione, i DAYLIGHT DIES. La band, come ci rammenta lo stesso Nathan Ellis, è assente dalle lande europee dal 2011, quando si esibì proprio a Madrid, che ci risulta essere quindi l’ultimo concerto in assoluto tenuto dal gruppo statunitense. Finora. E’ quindi certamente un evento ciò che andremo ad ascoltare per i cinquanta minuti del loro slot: la versione americana dei Katatonia non si concede facilmente ai suoi estimatori e la cosa buffa è che ha pensato bene di non portare neanche un briciolo di merchandise da vendere, nè qui nè l’indomani a Lisbona. Scelte criticabili ma che lasciamo a loro, quello che più ci preme sottolineare ora è come l’emozione di vedere il combo di Raleigh sia stata tanta e le aspettative ripagate quasi del tutto, grazie ad uno show sentito ed emozionale, sebbene, come del resto era prevedibile, costellato da vene rugginose e ragnatele di polvere. Il settaggio dei suoni purtroppo non è stato all’altezza, con tanta cacofonia durante gli spezzoni più death-oriented, e si è percepito piuttosto chiaramente come l’affiatamento live del gruppo sia da riplasmare un attimo. Per il resto, non abbiamo potuto far altro che unirci agli applausi convinti del pubblico al termine del set proposto, pieno zeppo di quelle melodie crepuscolari e avvolgenti che contrassegnano tale efficace modo di suonare death/doom metal melodico. Con “All We Had” i Daylight Dies ci hanno salutato mestamente: chissà se li rivedremo on stage prima di morire?
Tocca ai BORKNAGAR, che per molti avrebbero dovuto suonare da headliner al posto degli Alcest in questo giorno d’apertura di festival. Vedremo tra poco come, pur se questa trattasi di obiezione comprensibile, la folla di Madrid abbia concordato con la scelta degli organizzatori. Restiamo dunque sul supergruppo norvegese che, dalla pubblicazione di “Winter Thrice” e del recentissimo “True North”, pare essere assurto ad un nuovo status di culto ed importanza nella scena black metal (e derive varie viking-pagan-folk-avantgarde). La perdita di Vintersorg è stata assorbita benissimo, dato che ICS Vortex è l’istrionico mostro vocale che tutti conosciamo e che Lars Nedland (in arte Lazare dei Solefald) svolge benissimo il ruolo di voce più che complementare. I due fronteggiano l’audience armati dei e protetti dai loro rispettivi strumenti (basso e tastiere), lasciando al mastermind Oystein G. Brun un ruolo da compiaciuto comprimario. I nuovi membri, Jostein Thomassen alla seconda chitarra e Bjorn Dugstad Ronnow alla batteria, sono risultati funzionali al tornado cosmico-emotivo che la band ha riversato su un pubblico adorante ed ipnotizzato dai gorgheggi, fortemente anarchici e trillanti, di Vortex. Non ci è piaciuta molto la resa sonora settata per questo concerto, atta a formare un fin troppo poderoso muro di suono tramite una cassa triggerata e suonata ‘ad elicottero’ per il 90% del tempo e le trame di chitarre poco udibili e poco segnanti uno show retto in piedi e innalzato su vette d’eccellenza da due vocalist speciali. Sembrerà strano scriverlo, ma preferiamo i Borknagar da studio, pur riconoscendo la grandeur roboante della loro prova madrilena. Pomposi, e servirebbe loro esserlo un pochetto di meno.

Prima di levare le tende dalla Sala But ed andare a farci una meritata dormita – siamo a quasi ventiquattro ore di veglia ininterrotta! – cerchiamo di non appisolarci durante l’esibizione sognante e ipnotica della ormai vecchia ‘new sensation’ ALCEST. Neige non ci sembra particolarmente in forma, ma gli astanti non se ne accorgono minimamente, tributando in continuazione, ad ogni termine di brano, letterali ovazioni all’operato del gruppo, che, oltretutto, non è perfetto neanche con i suoni: la voce del polistrumentista, difatti, spesso è sbilanciata e in suo aiuto un ottimo supporto lo dà il chitarrista session Zero, che canta moltissime delle caratteristiche ninna-nanne emanate dalle composizioni del suo leader. I crescendo in tremolo picking mandano spesso in estasi ed entrano in risonanza con il timbro vocale riverberato di Neige (o con quello di Zero), arguendo la pervadente sensazione onirica che si respira all’interno del locale – un brano come il nuovo “Sapphire” ha ben messo in evidenza il suo potenziale evocativo, ad esempio. Certo, in una giornata in cui si sono alternati on stage cantanti monumentali come Aldarà, Vortex e Lazare, ascoltare le nenie degli Alcest è stato come leggere Fabio Volo dopo Manzoni, ma sappiamo bene che è anche grazie alla particolare voce di Neige che i più famosi blackgazer del momento hanno raggiunto impervie cime di inaspettato successo. La lunga “Délivrance” ci accompagna fuori dal locale, discretamente soddisfatti da quanto ascoltato nella prima tornata di performance, mentre l’ex-Peste Noire ritorna poco elegantemente da solo sul palco per un’ultima dose di applausi riservati solo a lui. Ah, questi stimatissimi padri-padroni!

 

SABATO 07/12/2019

La Sala But riapre i battenti l’indomani, un sabato, e l’affluenza, come chiaramente previsto dal sold-out annunciato in anticipo, è fin da subito più corposa, nonostante l’orario d’inizio sia settato ancor più presto rispetto a quello della giornata precedente. A scendere in campo per primo è uno dei gruppi più minimal in assoluto ad aver calcato le assi del Madrid Is The Dark: i DARKHER di Jayn Maiven, composti da lei alla voce e alla chitarra e dal suo solo aiuto alla batteria, C. Smith. Uno strato di feedback rumoristico guidato dalla pedaliera della rosso- e lungocrinita vocalist ci introduce nel suadente, grezzo, scarno e lunare panorama evocato dalla musica del duo britannico. E’ piuttosto chiaro come questa band funzioni meglio nelle opere in studio, in quanto, pur valutando tutto sommato positivamente la performance di Madrid, non è abbastanza profondo e importante il carisma profuso dalla Maiven attraverso i suoi ululati, e le sue spaventose litanie evocano a malapena qualche licantropo spelacchiato. Ciò, almeno, per ora. Crediamo infatti che avvalersi di una band completa che la sostenga alle spalle possa ammantare i Darkher e la sua stregonessa di un significato maggiore, più arcano, dal vivo certamente. Rimandati.
Di impronta musicale completamente opposta sono i redivivi DISILLUSION, combo tedesco tornato di recentissimo sulle scene con la pubblicazione del nuovo “The Liberation”, edito a tredici anni di distanza dal precedente vagito discografico. Progressive death metal, comprensivo di diramazioni imprevedibili e molteplici, è ciò che i cinque di Lipsia ci presentano, finalmente con suoni e volumi pressoché perfetti, la prima band del festival a trovare la quadra giusta sul palco in merito a questo fondamentale aspetto di una performance live. I Disillusion sono anche i primi ad interagire in modo più classico e partecipativo con gli astanti, dopo che il silenzio e le strettamente necessarie parole avevano dominato tutte le esibizioni prima della loro (esclusi forse i Borknagar). Probabilmente anche per questo, l’operato dei Nostri ci è parso di una marcia superiore e molto apprezzabile, nonostante il loro stile sia non proprio funzionale dal vivo, a meno che non se ne conoscano i brani alla perfezione. Come, ad esempio, accade con la fenomenale “Alone I Stand In Fires”. Alla distanza cala molto la resa del teatrale Andy Schmidt alla voce, ma è un appunto che non cambia il nostro giudizio sui teutonici: hanno ancora qualcosa da dire, bene così.
Attesissimi in quanto tra gli esponenti di spicco del più tetragono, indefesso e monolitico funeral doom metal, gli ESOTERIC ci proiettano in un reame di imponente psichedelia e abissale oscurità con soli tre pezzi suonati e una cinquantina di minuti di abbacinante tuffo nel vuoto primordiale. Due anni fa gli Evoken, l’anno scorso i Mournful Congregation, quest’anno gli Esoteric: al MITD, prima o poi, giunge sempre il momento di mettersi a ciondolare estasiati e spinti verso un’altra dimensione da sonorità ultraterrene e stranianti, si voglia anche, in questo particolare caso, per la peculiare caratteristica del cantante Greg Chandler, che si esibisce con un microfono ad archetto al posto della classica asta: a tratti non si capisce bene da dove provengano le urla e i gorgoglii disumani che riecheggiano in sala, terrificanti e stordenti, mentre la band tutta non perde mai di vista il metronomo nell’assestare colpi da massacro uditivo. Massacro operato suonando due estratti dal nuovo “A Pyrrhic Existence”, la pur ‘veloce’ “Rotting In Dereliction” e “Culmination”; vecchia di ben ventidue anni, invece, la mezzana “Stygian Narcosis”, perfettamente descrivente, nel titolo, l’effetto collaterale subito dai presenti al termine dell’inondazione doom evocata del gruppo di Birmingham. Implacabile ed impietoso.

Veniamo forse alla nota più dolente dell’intera manifestazione, di certo una piccola grande delusione: il concerto degli IN THE WOODS… Visti proprio qui due anni fa, gli ormai anglo-norvegesi avevano offerto un’ottima esibizione, ben cavalcando l’onda della reunion da poco attuata, sebbene la lineup fosse diversa da quella da studio che aveva registrato “Pure”. Oggi, fa anche male solo pensarlo, gli In The Woods… sono a malapena una band. Sì, perchè l’anima che porta avanti Mr. Fog e compari è praticamente quella di una coverband di lusso, che cerca di tirare l’acqua al proprio mulino finché possibile. Non per nulla, il solo batterista Anders Kobro è superstite della formazione originale. Suoni inaccettabili per buona parte del set, una presenza scenica troppo movimentata e per nulla coordinata (i musicisti hanno continuato a scambiarsi di posto casualmente, aizzando oltre misura il pubblico a partecipare, in un contesto, quello madrileno, nel quale l’audience non si mostra mai esageratamente smaniosa), la forte impressione che i ragazzi si trovassero sul palco senza aver fatto uno straccio di prova insieme da mesi. Insomma, nonostante le composizioni suonate in una setlist bilanciatissima tra materiale vecchio e nuovo siano di livello eccezionale, la loro riproposizione per noi è stata raffazzonata e molto sotto le attese. Una giornata ‘ni’, oppure qui occorre rimettere in pausa tutto e pensarci su, cari In The Woods…
All’happening madrileno non manca mai neanche, uno circa all’anno, il concerto piuttosto fuori tema, solitamente di una band che esce parecchio dal seminato prettamente metallico per entrare in un contesto più rock, a volte addirittura ai margini del pop. Successe negli anni passati con 40 Watt Sun, Antimatter e la deludente Liv-Kristine; succede nel 2019 con gli olandesi THE GATHERING, in giro per l’Europa con il tour del loro trentesimo anniversario. Gli oranje, costantemente costretti a vivere con il fantasma di Anneke Van Giersbergen sul palco, hanno fornito una prova maiuscola, fra le migliori del festival. Tra momenti delicatissimi e quasi poetici, afflati elettronici eleganti, groove anche possenti e coinvolgenti (“Probably Built In The Fifties” è sempre una garanzia, sotto tale aspetto) ed un suono alternativo ma azzeccatissimo, i cinque hanno intrattenuto con trasporto e gran capacità emozionale un parterre non completamente stregato ma di certo in grado di apprezzare l’operato delle ex-icone del doom/gothic metal. La vocalist norvegese Silje Wergeland, nel bel mezzo dei suoi -anta, se da una parte gioca pericolosamente ad assomigliare ad Anneke (colore e taglio dei capelli, sorriso sempre stampato in faccia), dall’altra, pur non riuscendo a raggiungere le vette dolomitiche della voce della collega, dimostra una tecnica comunque sopraffina ed una presenza scenica ottima e ammaliante. Chi scrive non aveva mai visto la band nella nuova formazione…be’, gran spettacolo, sebbene le composizioni alt-rock siano impallidite di fronte alla potenza sprigionata da “Eleanor” e “On Most Surfaces”!

Si giunge alla fine del festival e ci si trova di fronte a quello che probabilmente è il punto più alto raggiunto dall’organizzazione del Madrid Is The Dark negli ultimi anni. Solo la presenza dei My Dying Bride, cancellati due anni fa a causa della malattia che colpì la figlia di Aaron Stainthorpe, avrebbe potuto essere paritaria a quella degli inventori del gothic metal, i PARADISE LOST. La formazione britannica è fresca reduce dallo studio di registrazione, dove sta completando i lavori sul prossimo disco, dal quale però, nonostante ci fosse una flebilissima speranza, non viene anticipato niente. Nick Holmes, Greg Mackintosh e i loro fedeli pard ci propongono una setlist particolarmente efficace e bilanciata, forse solo orfana di un brano tratto da “Gothic” per essere perfetta: “Enchantment”, “As I Die”, “Hallowed Land”, l’inattesa “Embers Fire”, “The Last Time” hanno tenuto alta la bandiera degli anni d’oro dei PL; la prezzemolina “Say Just Words”, “Isolate” ed “Erased” hanno fatto muovere i sederi di buona parte del pubblico madrileno con le loro ritmiche danzerecce, contrapposte alla pesantezza doomy di un pezzo ormai classico come “Beneath Broken Earth”; ben riproposti anche alcuni estratti dall’ultimo disco “Medusa”, che non perdono efficacia neanche dal vivo; “The Enemy”, infine, ha equilibrato le diverse anime del gruppo con il suo apocalittico incedere. Da una formazione esperta come la loro non si poteva chiedere di più, se non forse un altro paio di tracce.
Un’edizione ben riuscita, quindi, quella del 2019 per il Madrid Is The Dark, con alcuni alti e bassi fisiologici nei confronti di cui, una volta constatata la natura assai statica del festival, si giunge rapidamente a compromesso. Si lavora già sul MITD 2020, ora, e noi attendiamo fiduciosi, perché le chicche e le meraviglie, nel bill di questa manifestazione, ci sono sempre!

 

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