Report di Giacomo Slongo
Mentre negli Stati Uniti le nuove leve della scena death metal ruggiscono, tagliando ogni giorno nuovi traguardi (si pensi al crescente successo di Blood Incantation, Gatecreeper, Skeletal Remains, ecc.), sempre sul suolo americano la cosiddetta vecchia guardia – nella stragrande maggioranza dei casi – fatica a mantenere il passo, con line-up ondivaghe e operazioni nostalgiche messe in piedi per cercare di recuperare la rilevanza persa nel corso degli anni. Una premessa necessaria per mettere a fuoco l’attuale incarnazione dei Malevolent Creation e la scelta, da parte del gruppo floridiano, di celebrare il trentennale di “Retribution” con un tour ad hoc, prima Oltreoceano e poi, in questa rovente estate 2022, sui palchi del Vecchio Continente, fra immancabili apparizioni ai festival e show da headliner in piccoli club. Il punto – e siamo certi che la cosa avrà fatto storcere il naso a diversi fan di lunga data – è che quella che in questi giorni sta eseguendo (quasi) integralmente il suddetto disco è poco più che una cover band, dal momento che il chitarrista/leader maximo Phil Fasciana, unico membro originario rimasto, non fa parte della partita, impossibilitato ad esibirsi dal vivo a causa delle ferite riportate in un grave incidente stradale. Ed ecco quindi il resto della formazione, configuratasi tra il 2017 e il 2020 con Josh Gibbs al basso (ex Solstice), Ron Parmer alla batteria (Brutality, Perdition Temple) e Ryan Taylor alla voce e alla chitarra (Solstice), andare avanti ugualmente per sostenere le spese mediche del proprio comandante in capo, con anche i locali delle due date italiane – l’Alchemica Music Club di Bologna e il Legend Club di Milano – impegnati a sostenerne la causa rinunciando alla commissione in cassa sulle quote di partecipazione. Una scelta che, in qualche modo, salva la faccia alla baracca, ma che non dissipa comunque i dubbi su questa tournée e – più in generale – sul valore odierno della scena US death metal degli anni Ottanta/Novanta, visto che il discorso fatto per i Malevolent Creation, con qualche variazione, potrebbe essere esteso anche ai vari Atheist, Deicide, Massacre, Monstrosity e Suffocation. Ma bando alle chiacchiere ed entriamo nel dettaglio della serata meneghina, battezzata da un paio di opener nostrani e da una risposta di pubblico decorosa viste le premesse e la data infrasettimanale…
Quando arriviamo al Legend, avvolto come tutta Milano da una cappa di umidità tropicale, i DEFYING PLAGUE hanno da poco iniziato a suonare, e la sensazione, di primo impatto, è quella di essere di fronte ad una band che necessita ancora di parecchio rodaggio per emergere e acquisire una certa competitività. Il quintetto è attivo da meno di un anno e, pur non lesinando in energia e trasporto, evidenzia comprensibilmente qualche ingenuità dal punto di vista stilistico, con brani che – almeno in sede live – danno l’impressione di flirtare con le istanze death/thrash dei Sepultura d’annata e degli ultimi Decapitated senza mai inanellare un riff o una soluzione ritmica da sobbalzo sul posto. Aspetteremmo comunque l’uscita del loro esordio per esprimere un giudizio definitivo. Il livello si alza leggermente con i DARK REDEEMER, nonostante una proposta invero un po’ confusionaria che non capiamo bene a chi voglia rivolgersi. Il gruppo bergamasco propone infatti un death/thrash ‘ad ampio raggio’ che richiama ora l’urgenza di Pestilence e Massacre, ora l’appeal groovy e melodico dei Carcass di “Heartwork” e di tante band nordeuropee di fine anni Novanta/inizio anni Duemila (Carnal Forge, Darkane, ecc.), pacchetto a cui si va poi ad aggiungere il contributo di un tastierista oggettivamente demodé e superfluo per la resa di ciò che sentiamo uscire dall’impianto del locale. La tecnica non manca, così come qualche chorus ben costruito, ma – ripetendo il discorso fatto per i Defying Plague – anche qui si necessita di un bel po’ di focus e gavetta. Archiviata la parentesi degli opener, giunge finalmente l’ora dei MALEVOLENT CREATION, i quali però – bisogna dirlo – non si presentano benissimo, con un Taylor visibilmente brillo a ciondolare su e giù dal palco e con il soundcheck ancora da rifinire (ci si domanda cos’abbiano fatto prima dell’apertura porte…). Lo show inizia quindi con un forte senso di approssimazione e precarietà, tanto che la mitica intro di “Eve of the Apocalypse”, dalla colonna sonora di “Henry, pioggia di sangue”, viene fatta partire un paio di volte prima di essere settata sul giusto volume; segnali che ci facevano già temere il peggio, ma che vengono spazzati via non appena il terzetto attacca a suonare. I Nostri saranno anche dei turnisti, gregari di Fasciana chiamati a raccontare una storia di cui non hanno fatto parte, ma la ferocia e la precisione con cui svolgono il loro compito non possono essere sottovalutate. Il suddetto brano, così come le successive “Systematic Execution” e “Slaughter of Innocence”, rasentano l’impatto delle versioni da studio, esaltando soprattutto la prestanza del giovane cantante/chitarrista, che nel momento in cui macina riff e aggredisce il microfono si trasforma in un killer simile a quelli descritti nei testi della band originaria di Buffalo, mascherando piuttosto bene la mancanza della seconda ascia. L’affidabilità di Parmer dietro ai tamburi non la scopriamo invece oggi, e anche stasera coincide con una performance a dir poco solida e penetrante, mentre Gibbs chiude il cerchio prestandosi alle backing vocals e vestendo i panni di frontman aggiuntivo nel modo di tenere il palco e di interagire con il pubblico. Pure in questa versione raccapezzata, quindi, la Creazione Malevola ‘gira’ bene, sicuramente aiutata dalla bontà della scaletta ma mettendoci anche del suo nell’interpretazione del materiale, con tutto che – come accennato nel preambolo dell’articolo – dalla celebrazione di “Retribution” vengono esclusi un paio di episodi (“The Coldest Survive” e “Monster”). Mentre Taylor non accenna a staccarsi dalle bottiglie e dai bicchieri di birra che gli vengono passati, e dopo un breve assolo di batteria, lo show prosegue con “Premature Burial” e con una manciata di altri classici, i quali suggellano un’oretta di concerto non priva di sbavature (i discorsi alticci, l’incipit arrabattato, ecc.) ma che almeno – bisogna riconoscerlo – non ha infangato la memoria di uno dei baluardi discografici della scena di Tampa, oltre a quella del compianto Brett Hoffman. La speranza è che Fasciana torni presto in pista e che questa line-up, dimostratasi più che preparata dal punto di vista dell’esecuzione, abbia modo di riportare un po’ di luce sul monicker dei Malevolent Creation, oggi davvero ai margini della scena di cui hanno sempre fatto parte.