Report di Federico Orano
Foto di David Scatigna
Aaburg, una ridente cittadina di circa novemila abitanti sovrastata da un bellissimo ed elegante castello. Siamo nel nord della Svizzera – direzione Basilea – ed è qui che prende vita da qualche anno il Riverside Festival, una tre giorni di concerti che richiama appassionati non solo tra gli elvetici ma anche dalle vicine Italia, Francia e soprattutto Germania, nazione quest’ultima che confina solamente a pochi chilometri di distanza.
Un evento cresciuto nel tempo, che l’anno scorso vantava band come Sabaton ed Helloween, ma che per quest’edizione ha voluto fare le cose in grande: Megadeth. Krokus e The Dropkick Murphys ad incendiare la serata d’esordio di venerdì 25 Agosto, Limp Bizkit, Royal Republic e Shakra sono stati invece i protagonisti del sabato.
Purtroppo non abbiamo potuto presenziare alle prime due giornate e siamo arrivati ad Aaburg solamente la domenica per poterci gustare il ritorno in Europa dei defender americani, la leggendaria epic-heavy metal band che risponde al nome di Manowar.
Il gruppo di Joey DeMaio ha suonato in alcune occasioni in Germania la scorsa primavera ma è sempre più arduo da incontrare – non solo in giro per il nostro continente.
A far loro compagnia, i templari svedesi degli Hammerfall ed un paio di band di minore fama ma comunque interessanti, come gli italiani Five Ways To Nowhere ed i greci Project Renegade. Con nomi di tale calibro, e visto che in fin dei conti l’area riservata ai concerti principali non è enorme, non è un caso che l’evento fosse completamente sold-out.
Arrivati al Riverside abbiamo trovato un festival altamente godibile e funzionale, ricco di attrazioni da vivere a trecentosessanta gradi con tanti servizi pensati per far vivere al meglio al pubblico l’esperienza live.
Un meteo ballerino non ha certo aiutato a rendere la giornata vivibile nel migliore dei modi ed è un peccato, visto che tra le attrazioni dell’area festival troviamo non solo una ruota panoramica dalla quale si può ammirare il palco, il castello e l’intera cittadina ma anche – se non soprattutto – la cosiddetta “Route 66”, un evento parallelo dedicato alle auto d’epoca, a detta di molti uno dei più grandi d’Europa e meritevole di una bella passeggiata, sorseggiando una birra (venduta all’onesto prezzo – in particolare per i canoni svizzeri – di sei euro) o qualche cibaria (questa sì un pò più cara) nelle numerose bancherelle che si incontrano lungo l’area del festival, che proponeva anche altri due palchi più piccoli, con band dedicate a stili più rock’n’roll decisamente in linea con l’atmosfera anni ’60 e ’70 della zona esposizione.
Davanti al palco principale, non enorme ma certamente prorompente alla vista una volta entrati in città, un prato ormai in sofferenza per le piogge dei giorni precedenti e a fianco un’area VIP dalla quale osservare le esibizioni live comodamente seduti su qualche divanetto, riparati dalle intemperie.
Immancabile poi la zona merchandising con le varie versioni della t-shirt ufficiale dell’evento, dove però non compare il logo dei Manowar tra le band partecipanti: ci viene da pensare che – purtroppo! – la band newyorkese non abbia concesso il proprio marchio; fatto sta che il gruppo di Joey DeMaio poteva vantare uno stand tutto per sè poco più avanti.
FIVE WAYS TO NOWHERE
Qualche passeggiata qua e là osservando la quasi impeccabile organizzazione svizzera ed è già tempo di aprire le danze: ci pensano alle 14.30, precisi come un orologio (in questa occasione possiamo proprio dirlo!) svizzero, i Five Ways To Nowhere, che ci rendono orgogliosi visto che anche in un appuntamento così importante come il Riverside Festival troviamo un po’ della nostra bella scena italiana con la presenza del gruppo torinese, che propone un hard rock dalle tinte moderne e certamente grintoso, anche grazie all’attitudine della brava cantante Charlotte.
Spinti da una buona sessione ritmica, in particolare con il lavoro preciso ed energico di Fabio Brunetti alla batteria, i Nostri salgono sul palco senza remore e per un’oretta si danno da fare sprigionando una buona dose di energia, con più di qualche rimando ai Guano Apes – e non è un caso infatti che verso la chiusura è proprio una cover del gruppo tedesco, la famosa “Open Your Eyes”, a venir proposta dal quintetto piemontese.
Il pubblico non è ancora numeroso, ma ci sono diverse file di appassionati che agitano la testa spinte dai buoni riff di chitarra e dal sound corposo che esce dalle casse con brani possenti come “Over The Line” e “Obsessed”. Un’occasione sfruttata bene per farsi conoscere!
PROJECT RENEGADE
Che potenza e che personalità per i Project Renegade, band greca che propone un misto tra heavy metal, hard rock e alternative!
Il gruppo sembra avere influenze decisamente moderne, che prendono spunto dall’industrial ed il nu-metal, con qualche raro inserto growl; pur con un solo album all’attivo, “Order Of The Minus” del 2019 ed alcuni EP e singoli pubblicati solamente in formato digitale, basta vedere l’ultimo video prodotto, quello di “The Fix Is In”, per trovare connessioni sonore che arrivano fino agli Slipknot, e infatti il pensiero che ci viene alla mente è che forse la band sarebbe stata più a suo agio se inserita nel bill del giorno precedente, ad aprire ai Limp Bizkit.
Ma poco importa; l’impatto del quartetto ellenico è davvero notevole. Con abiti moderni e colori sgargianti (segnaliamo un verde fosforescente forse fin troppo appariscente) i Nostri partono in quarta con riffoni pesanti ed arrangiamenti elettronici.
Marianna alla voce è una furia; ha grinta da vendere ed un’ugola piena e dinamica che ricorda subito la nostra Cristina Scabbia, e anche il sound dei Project Renagade può portare alla mente i Lacuna Coil, in effetti, in particolare in alcuni passaggi come sulle sonorità gotiche di “One Of The Crowd”. Il batterista mascherato Ody mostra grinta da vendere e batte forte sulle note energiche di “The Strain”, capace di esaltare con un ritornello iper-melodico, e sulle sonorità moderne di “Civil Unrest”.
“The Fix Is In”, già citata poco sopra, esplode con un tocco più commerciale, mentre si fa riconoscere “Bloodwitch” che alterna passaggi rilassati a momenti possenti da headbanging con cori epici. Più di un’ora di show che non ha certamente annoiato i numerosi presenti, nonostante un sound un po’ fuori dal contesto. Tanta personalità ed un sound frizzante: promossi i Project Renagade!
HAMMERFALL
Non sono certamente atterrati in Svizzera con il solo scopo di timbrare il cartellino, gli svedesi Hammerfall: la loro voglia di coinvolgere e scaldare il pubblico in vista dei grandi headliner della serata è davvero forte.
E, seppur molti dei presenti siano lì principalmente per i Manowar, soprattutto nelle prime file molti sono sembrati devoti a Joacim Cans e compagni, e si sono lasciati coinvolgere in uno show davvero elettrizzante, in cui brani più datati ed altri più recenti hanno costruito mattone su mattone una scaletta davvero solida e ricca di pathos, soddisfacente sia per i fan più storici che quelli acquisiti negli ultimi anni – il tutto riprodotto fedelmente ed in maniera impeccabile da una band ormai rodata ai massimi livelli, con l’unica pecca forse nei volumi, non alti come avremmo voluto.
Il concerto si apre con i ritmi elevati di “Brotherwood”, estratta dal nuovo omonimo disco, a dimostrazione di come anche le release più recenti del gruppo nordico possano sempre vantare almeno due-tre hit capaci di funzionare molto bene anche in sede live. E se la massiccia “Any Means Necessary” fa agitare più di qualche testa tra il pubblico, è un piacere enorme ritrovare “The Metal Age”, favoloso pezzo intriso di carica esplosiva ed epicità impareggiabile, contenuto nel clamoroso “Glory To The Brave”, disco di debutto della band.
L’esaltazione di chi è cresciuto negli anni Novanta a pane ed heavy metal balza istantaneamente alle stelle, soprattutto quando ruffiano midtempo “Hammer Of Dawn” infiamma lo scenario con un coretto tutto da cantare ed apre la via ad un’accoppiata storica ed immancabile, formata prima dall’irresistibile “Bloodbound”, inno power-heavy da far detonare a tutto volume, e poi “Renegade”, che scorre via come sempre in maniera eccelsa con i suoi ritmi scoppiettati, capaci di far cantare tutti i presenti. Forse il pubblico svizzero non è il più caldo che abbiamo incontrato girando vari festival e tentenna un po’ quando Joacim prova a interloquire con il classico siparietto che ogni fan degli Hammerfall conosce a memoria fin dal 1998: “What will you say if i say Let The Hammer..?” dice il cantante svedese, aspettandosi il coro del pubblico che risponde, con un po’ più di tempo del previsti, “Fall!”.
È così che parte l’immancabile e poderosa “Let The Hammerfall” estratta dallo storico disco “Legacy Of Kings”, con David Wallin alla batteria che batto forte sul proprio tamburo, la voce limpida di Joacim non sbaglia un colpo e la coppia alle chitarre formata da Pontus Norgren ed Oscar Dronjak macinano riff, dando spettacolo con continui siparietti.
Il medley che va a celebrare un disco davvero valido come “Crimson Thunder” funziona alla grande, unendo con estrema sapienza alcune melodie strumentali dei vari brani che lo compongono per poi giungere a chiusura con il bel ritornello della titletrack.
Ci avviciniamo alla conclusione di una performance che non vorremmo finisse così in fretta; l’atmosfera è davvero magica e gli Hammerfall non sembrano sentire neppure un minimo di stanchezza. Le note gloriose e malinconiche di “Glory To The Brave” echeggiano spinte dall’ugola squillante di Joacim (e certamente qualcuno tra i presenti ha avuto gli occhi lucidi, tra cui chi scrive) prima che i due chitarristi si rimettano a macinare riff con la robusta “Hammer High” e l’imponente “Hector’s Hymn”.
L’inno inarrestabile “Hearts On Fire” è la perfetta conclusione di un grande show; Oscar può sfoderare ancora una volta la sua chitarra a forma di martello con la quale colpire a suon di heavy metal l’intero scenario.
Sempre in gran forma, il quintetto nordico saluta ringraziando il pubblico e rimarcando quanto i Manowar siano stati importanti come ispirazione per gli stessi Hammerfall.
Setlist:
Brotherhood
Any Means Necessary
The Metal Age
Hammer Of Dawn
Blood Bound
Renegade
Venerate Me
Last Man Standing
Crimson Medley
Let The Hammer Fall
No Son Of Odin
Glory To The Brave
(We Make) Sweden Rock
Hammer High
Hector’s Hymn
Hearts On Fire
MANOWAR
Diciamoci la verità, bellissimo viaggiare e scoprire posti nuovi, visitare città e assaporare festival fuori dall’Italia, ma siamo tutti qui presenti per vedere loro, i Manowar!
La band da New York irrompe sul palco con la grinta e la convinzione di chi sa che ha ancora molto da dire sopra ad un palco, elementi che certamente non sono mai mancati al gruppo di Joey DeMaio ma certo non così scontate a quell’età.
I suoni si fanno più imponenti e vibranti rispetto ai gruppi precedenti, anche se dalla band americana ci aspettavamo qualcosa di più ‘esagerato’, ma probabilmente non si poteva alzare troppo il volume delle casse all’interno di un piccolo paese come Aabrug senza rischiare di far tremare i vetri di tutte le case.
“Manowar” e “Kings Of Metal” sono un’accoppiata letale capace di scaldare i numerosi presenti, che hanno iniziato a riempire tutta la zona erbosa dedicata al festival, e nonostante il sold-out possiamo affermare che la situazione nelle prime file è comunque abbastanza vivibile.
Subito notiamo un Eric Adams in forma smagliante al microfono; i muscoli non saranno più tonici come un tempo, ma la voce – quella sì – continua ad essere magica. Sicuramente qualche urletto e qualche acuto non riprenderanno alla perfezione le vibrazioni del passato ma, anche aiutandosi con una buona dose di esperienza, il frontman americano ha portato a casa una prestazione eccelsa.
Al suo fianco l’amico e compagno di sempre, la figura principale sulla quale si sono sempre retti i Manowar: Joey DeMaio, anch’egli concentrato e pronto a far tremare lo stage con le note possenti e vigorose del proprio basso. Certamente il terreno ha vibrato con “Holy War”, esaltante pezzo arrivato subito dopo l’immancabile e immortale “Fighting The World”.
E se alle pelli Dave Chedrick ha svolto il suo lavoro senza l’impatto scenico dei suoi predecessori (in particolare del compianto Scott Columbus) gli occhi di molti erano puntati sulla ‘new entry’ in casa Manowar, il chitarrista Michael Angelo Batio: la sensazione è che il virtuoso della sei corde si sia messo al servizio del gruppo – probabilmente anche per volere del boss DeMaio – senza voler strafare, ma integrandosi bene, e anche durante la classica parentesi strumentale dove basso e chitarra esplodono con tecnica e vigore, Michael sembra non voler strafare, ma si muove con intesa ed equilibrio assieme al compagno DeMaio.
La possente “Call To Arms” ha sempre un forte impatto live, mentre “Heart Of Steel” fa cantare tutti i presenti. “Warriors Of The World United” è un altro brano che il pubblico sembra adorare nella sua semplicità ed immediatezza, mentre l’inno “Hail And Kill” è uno di quei momenti iconici che hanno accompagnato l’esistenza di moltissimi dei presenti; inutile dire che lo stage viene incendiato dalla potenza del suo incedere.
Le più recenti “The Dawn Of Battle” e “King Of Kings” fanno la loro parte senza sfigurare troppo vicino ai grandi classici, poi la band saluta il pubblico con le velocissime “The Power” e “Fight Until We Die”, ma tutti sappiamo che ci sarà ancora spazio per un paio di canzoni.
Joey si ripresenta sul palco con una ragazza ringraziandola di aver aiutato la band a risolvere alcuni problemi di organizzazione durante la giornata e continua salutando il numeroso pubblico accorso per questo evento.
“Battle Hymn” è un’ode all’epic metal e una cavalcata in grado di far cantare tutti i presenti, infine la furia deflagrante di “Black Wind, Fire And Steel” chiude un grande show che porteremo con noi per molto tempo, anche se è mancato qualche effetto scenico che storicamente la band ha utilizzato – nessuna moto a rombare sul palco, nessuna donzella seminuda a dar spettacolo… insomma un’esibizione più sobria rispetto ai tempi d’oro, ma non meno d’impatto.
La speranza è che i Manowar possano tornare nel nostro paese ben presto, perchè gli anni passano – e cominciano a diventare un po’ troppi dall’ultima volta – ma la band americana è ancora in grado di presentare uno spettacolo di primissimo livello.
Setlist:
Manowar
Kings Of Metal
Fighting The World
Holy War
Immortal
Call To Arms
Heart Of Steel
Warriors Of The World United
Guitar & Bass Duet
Hail And Kill
The Dawn Of Battle
King Of Kings
The Power
Fight Until We Die
Battle Hymn
Black Wind, Fire And Steel